Ero e Leandro
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ERO E LEANDRO
POEMETTO
DI
PAOLO LUIGI RABY
Il più possente ardor che il bel Cupido
Abbia desto giammai in uman core
Poichè m’è pregio celebrar, d’Abido
Fia meta al nuovo canto il nuotatore;
Dirò di Sesto quante volte al lido
Giunse mercè il supremo alto favore
Di Cinzia amica, e dirò poscia il fato
Del prode garzoncello innamorato.
Coppia gentile, cui lo stesso Dio
Di pari foco in questo giorno accende,
Non v’incresca ascoltar dal labbro mio
D’Ero e Leandro l’ultime vicende;
Chè se al sentir il triste caso e rio
Dal ciglio qualche lagrima vi scende,
Madre sarà di più gemil diletto
Nel mirar coronato il vostro affetto.
Oh se quale toccovvi, Angiola, io sorte
Saggia di genitor Coppia ben nata,
Cui ferve in petto anima invitta e forte
D’amor paterno e di virtù fregiata,
Davasi ad Ero che ferrate porte
Al guardo universal tenean celata,
Questa che vi richiamo alla memoria
Lieta saria, non lacrimosa isteria.
Misero in vero è della vita il dono
Se la governi troppo crudo impero;
Nè que’ insensati padri a scusar sono,
Che solo di rigor fatto pensiero
Veggon talora in atto umile e prono
Tremar la prole al lor guardo severo,
Nulla curando che al timor sia figlio
L’ingannatore giovanil consiglio.
Voi mille giuste laudi esaltin sempre
Marianna, Alessandro, in cui prevalse
Desìo di moderar con dolci tempre
Que’ tenerelli cor che ognor vi calse
Regger così che vi si eterni e assempre
Ogni virtù per cui superba salse
De’ grand’Avi la fama a tal che ancora
Va per l’etra echeggiando alta e sonora.
Di Caterina e de’ germani suoi
Vi fur presenti le virtù sublimi,
E sì gli esempli di que’ Guaschi eroi
Per memorandi pregi incliti e primi
La cara prole modellaste voi
Coi grandi grande, affabile cogl’imi,
E di tal gloria sol cupida e vaga,
Che non vuota di senso il core appaga.
La gran pietà di Marianna in seno
Voi le ispiraste nella età primiera,
E con suave regolato freno
La invogliaste a seguir virtù sincera;
Agricoltor così che in buon terreno
Il seme sparge, di raccorne spera
Ampia la messe in la stagione estiva
Che le sue brame a render paghe arriva.
Or a che glorie avite io mai rammento,
Se tali son dei genitor le doti,
Che il più preclaro e nobile ornamento
Saranno de’ lor figli e de’ nepoti?
Lor dessi il canto... ma inegual mi sento
Troppo all’impresa cui tendono i voti,
Onde ritorno là col mio pensiero
Ove m’attende il buon Leàndro ed Ero.
Alta è la torre, e il verde mar fiancheggia
U’ sta chiusa la vergine trilustre,
Che in grazia in vezzi in venustà pareggia
De’ tempi suoi ogni beltà più illustre:
Ricca d’alme virtudi ella grandeggia,
A fregiarsene il cor cotanto è industre,
Che la fama se ’n sparge in ogni loco
E desta in più d’un cor d’amore il foco.
Videla un giorno un garzoncel che appena
Il quarto lustro allor toccato avea,
Che tosto in petto un’amorosa pena
Nascer sentissi per l’amabil Dea;
Dolce il peso però di sua catena
Gli sembra e belle immagini si crea,
Per cui lusinga la novella fiamma
E nel cocente ardor vieppiù s’infiamma.
Leandro ha nome, e di nuotar nell’arte
Vince d’Abido i giovani più destri,
Poichè signor di mille antenne e sarte
Convien che nella nautica s’addestri;
Nè v’è chi più di lui su dotte carte
E in cento prove ardito s’ammaestri,
Così che il suo valor noto è pur lunge,
E fino d’Ero al cor penetra e ’l punge.
Che non san far duo appassionati amanti
Onde toccar del lor desire al segno?
Colgono attenti i più propizi istanti
Nè un sol ne sfugge all’avveduto ingegno;
Affetti all’uopo e simular sembianti
Non è per essi troppo scabro impegno,
Anzi quante è più malagevol l’opra,
Più l’uom s’invoglia e con più ardor a’adopra.
Quando la notte il denso umido velo
Stende e rimena i tenebrosi orrori,
Al sol chiaror che spande Cinzia in cielo,
Cinzia fautrice di furtivi amori,
Sorge Leàndro cui pungente il telo
Da’ patrii lari suoi sospinge fuori
E dentro l’onda impavido lo caccia
Che del suo Ben la vista a lui procaccia.
Tra i vorticosi flutti il giovin balza
E pronto s’apre lo cammin per l’onda
Che or si parte or s’abbassa ed or s’innalza
Or avversa si mostra ed or feconda:
Ma cotanto Leàndro amore incalza
Che lottando perviene all’altra sponda
Ove il dirige il concertato lume
E ’l fausto auspizio dell’amico nume.
Dal veron della torre allor s’abbassa
Serica scala cui s’aggrappa e ascende,
Quinci più stanze tacito trapassa
Sin là dove la sua Bella lo attende.
Oh quanto brevi son l’ore che passa!
Quanto duolo per l’anima gli scende
Allor che presso ad ispuntare il giorno
Ad Abido affrenar deve il ritorno.
Ero vezzosa addio! dogliosamente
Gonfio il ciglio di lacrime le dice;
Se mi è grave il partir, se me dolente
Fa lo star da te lungi ed infelice
Sallo il bendato arcier onnipotente,
Che di piacer mi pasce e il cor ne allice
In que’ pochi e sì labili momenti
Che divido con te gioje e contenti.
Però ti giuro che all’occaso il sole
Mai non andrà che a te non io ritorni;
Anzi appena avverrà che il dì s’invole
Me rivedranno questi bei contorni;
Ah perchè il fato barbaro non vuole
Ch’io meni intieri a te daccanto i giorni?
Perchè non posso con eterno laccio
Abbandonarmi di te cara in braccio?
Non dubitar, o mio Leandro amato,
Che alfin trarremo i dì lieti e giulivi:
Poichè non convien credere che il fato
Noi d’ogni speme e di lusinga privi:
Vanne deh vanne anzichè il padre irato
Quivi per colmo di sventura arrivi;
Giacchè ben sai che freddo avello accoglie
Ogni uom ch’osi innoltrar in queste soglie.
Un casto bacio sulle rosee gote
A questo dir il giovine le impresse;
Quindi per le vie salse a lui ben note
Ad Abido di nuovo ei si diresse:
Nè mai il carro dall’ardenti ruote
Tuffò nell’acque il sol che per le istesse
Onde aprendosi libero sentiero
Non tornasse a veder la gentil Ero.
Ma l’atra Furia dalla faccia smunta
Che le gioje degli uomini fa torbe,
Colei che il viso macera e consunta
Sozzo velen coll’empie labbia assorbe,
Invidia alfin che di viperea punta
Armata gira desolando l’orbe
Non così seppe il lor gioir notturno,
Che là drizzò l’aligero coturno.
E pria de’ venti al regnator si volse
Onde eccitasse orribile tempesta,
E in sì buon punto il padre Eolo colse
Ch’ei ne appagò la ria brama funesta:
Alla triforme Dea quinci rivolse
Il raggrinzato più leggera e presta,
E sì la stanca con sommessi preghi,
Che al suo voler convien ch’ella si pieghi.
Ahi qual, Leandro, a te fiera sovrasta
Tremenda inevitabile sciagura
Or che la Diva ch’ha fama di casta
Raccoglie i raggi e l’universo oscura!
Euro, Noto, Aquilon pur ti contrasta,
E rovesciato ha l’ordine e natura:
Ah ferma il passo; chè a’ tuoi giorni insidia
L’anguicrinita macilente Invidia.
Vano pensier! a spaventar quell’alma
Non gioverebbe unito anco l’Averno:
E già di sua protesa e forte salma
Fan l’onde accavallate aspro governo;
Chè se talor mostran tornare in calma
Egli è per torsi il nuotatore a scherno,
Che al fisso lume cogli sguardi intenti
Resiste ai flutti ed ai nimici venti.
Ma ahimè che sorta Boreal bufera
La mal difesa face a un tratto ismorza!
Vede egli allor il rischio suo, ma spera
De’ nervi suoi nella provata forza.
Urta or di fronte nell’onda severa,
Or va a seconda, or di dirige ad orza,
Ma dal lungo lottar oppresso e stanco
Sente che alfine il suo vigor vien manco.
Tu qui mi accenni, o Lodovico, intanto
Di tosto imporre al mio cantare il fine,
Poichè d’Antonio tuo fu vigil vanto
Far sì che alla pietà tuo core incline.
Ah ben sarìan soggetto a degno canto
Le doti de’ Pinelli peregrine
Se si mostrasse men tarda e restìa
Ove l’uopo è maggior la Musa mia,
Dunque non più dirò giacchè mel vieti
Del nuotator il miserevol fato;
Non di sua vaga i palpiti secreti,
Nè quindi il duol furente e disperato
Allor che intende che nel seno a Teti
Freddo giace l’amante riamato:
Non il tremendo ed animoso salto
Che vaga di morir spiccò dall’alto.
Immagini più liete e più serene
N’abbiate, o Sposi, sol nel fido affetto;
Nè la memoria lor turbi o avvelene
Il vostro benchè minimo diletto:
Per voi taccia Aquilon o si scatene,
Torbo vi mostri Cinzia o vago aspetto,
Soda felicitade è scritta in cielo,
Contro cui nulla puote invido telo.