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     Non dubitar, o mio Leandro amato,
Che alfin trarremo i dì lieti e giulivi:
Poichè non convien credere che il fato
Noi d’ogni speme e di lusinga privi:
Vanne deh vanne anzichè il padre irato
Quivi per colmo di sventura arrivi;
Giacchè ben sai che freddo avello accoglie
Ogni uom ch’osi innoltrar in queste soglie.

     Un casto bacio sulle rosee gote
A questo dir il giovine le impresse;
Quindi per le vie salse a lui ben note
Ad Abido di nuovo ei si diresse:
Nè mai il carro dall’ardenti ruote
Tuffò nell’acque il sol che per le istesse
Onde aprendosi libero sentiero
Non tornasse a veder la gentil Ero.

     Ma l’atra Furia dalla faccia smunta
Che le gioje degli uomini fa torbe,
Colei che il viso macera e consunta
Sozzo velen coll’empie labbia assorbe,
Invidia alfin che di viperea punta
Armata gira desolando l’orbe
Non così seppe il lor gioir notturno,
Che là drizzò l’aligero coturno.