Eran qui due, l'una d'un parto solo
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xxi
episodi
della strage degl’innocenti
(Dal libro terzoFonte/commento: ed.1633 della Strage, stanze 48-78).
Eran qui due, l’una d’un parto solo,
l’altra ricca di due germane belle;
premean queste in silenzio il grave duolo,
torcendo al ciel le lacrimose stelle.
Verso colei, che l’unico figliuolo
timida si stringea fra le mammelle,
mosse il passo veloce e ’l braccio crudo
un giudeo, tutto scalzo e mezzo ignudo.
Lacero avea, quasi farsetto, indosso,
che a pena il ricopria fin sui ginocchi,
purpureo cencio, e di pel crespo e rosso
dal mento gli pendean duo lunghi fiocchi;
sgangherato la bocca e i labri grosso,
rabbuffato le ciglia e bieco gli occhi,
di sozzo ceffo e di sparuta ciera,
insomma tal, ch’era uomo e parea fèra.
Tacque la bella donna, e non disciolse
voce, pianto o sospir, tacque e sofferse;
ma sí pietosa in atto il figlio tolse,
e volontaria al mascalzon l’offerse,
che se non ch’egli altrove i lumi volse,
se non ch’ella d’un velo i suoi coverse,
vincealo il dolce sguardo, e ’l ferro acuto
fôra di mano al feritor caduto.
Ma che? contro furor che val bellezza?
Strins’egli il ferro, e nel fanciul l’affisse:
quei, come suole ad uom che l’accarezza,
ridendo all’assassin: — Babbo! — gli disse;
e, spinto pur da pueril vaghezza,
la man stese al coltel, che lo traffisse,
credendo dono, imaginando argento
l’acciar, che era di morte empio stromento.
Ei non mirollo o non curollo, e dritto
lá donde il riso usciva, il ferro mise;
ma, come vide il poverel trafitto
languir morendo in sí dolenti guise,
fatto quasi pietoso angue d’Egitto,
si dolse, e lacrimonne, ei che l’uccise:
ma, sedate le lagrime e ’l cordoglio,
tosto poi la pietá cesse a l’orgoglio.
Volgesi all’altra, e fra suo cor discorre
qual de’ dui figli, e di qual colpo ei fieda.
Che dee far, lassa lei, chi la soccorre?
dove sará, ch’aita invan non chieda?
Fuggesi intorno, e quei la segue, e corre
quasi ingordo mastin dietro alla preda;
ella, vagante in questa parte e ’n quella,
sembra da lupo insidiata agnella.
Con quell’affetto, che, del patrio regno
l’alte fiamme fuggendo, il buon troiano
il vecchio genitore e ’l picciol pegno
reggea col tergo a un punto e con la mano,
fatta de’ cari suoi schermo e sostegno,
per involargli al predator villano,
quinci e quindi traea (pietoso impaccio,
suavissima soma!) i figli in braccio.
Misera, ma che pro? fugge il periglio,
non campa giá, che ’n novo mal trabocca:
tal augel del falcon sente l’artiglio,
mentre sottrarsi al can tenta di bocca.
Ecco un altro crudel, che al primo figlio,
che il sen le sugge, un dardo aventa e scocca,
e passa oltre le labra, onde la poppa
giá di latte, or di sangue è fatta coppa.
Giunge intanto piú presto, e la minaccia
con piú forti armi il barbaro omicida;
vede l’altro bambin, che tra le braccia
stretto le giace, e la motteggia e grida:
— Poiché con tanto amor teco s’allaccia,
ragion non è ch’io te da lui divida:
ma, perché non si sciolga il caro nodo
fia gran pietá s’io nel tuo sen l’inchiodo! —
Quel meschinel, qual timidetta damma
la qual ricovri alle sue siepi ombrose,
dentro il solco di neve in cui di fiamma
vivacissimi semi Amor ripose,
smarrito allor fra l’una e l’altra mamma,
da la faccia del ferro il volto ascose,
e tanto ebbe di senno acerbo ingegno,
che temer seppe morte e fuggir sdegno:
quantunque invan, che ’n lui la punta orrenda
drizza il fellon, ma falle il colpo ed erra;
crudele error, ma piú crudele emenda,
che lui traffigge e lei traffitta atterra.
Egli le braccia aperte avien che stenda,
ella in giú cade, e nel cader l’afferra;
onde, immobile tronco e senza voce,
al figliuol crocifisso è fatta croce.
Arpin, chi vide mai con dotto stile
da la tua man la Caritá dipinta,
che di vaghi bambin schiera gentile
abbia nel seno e ne le braccia avinta:
cotal parea leggiadra donna umíle,
scompigliata il bel crin, scalza e discinta;
e intorno le fiorian teneri e molli
de la progenie sua cinque rampolli.
Benché del regio editto il fier tenore
fuorché ’nfanti da latte altri non cheggia,
n’avea costei di etá poco maggiore,
parte condotti alla spietata reggia,
sí perché stretti di fraterno amore
l’un con l’altro trattiensi e pargoleggia,
sí perché ella, ove mova o fermi il piede,
disgiunti ancor mal volontier gli vede.
Stavasi il primo in picciola tabella
le note ad imparar de la prim’arte,
discepol novo, e de l’ebrea favella
leggea le righe in lei vergate e sparte:
quando la testa ecco gli è tronca, e quella
gli cade in sen su l’innocenti carte,
e l’estremo suo fato a lettre vive
con vermigli caratteri vi scrive.
Move colui ver’ l’altro il passo orrendo,
poiché ’l capo ha de l’un sciolto dal busto:
vedelo lá, ch’un pomo ei sta rodendo,
pomo mortale, ahi troppo amaro al gusto!
Drizza alle fauci, ond’inghiottia ridendo
l’ésca dolce e matura, il ferro ingiusto;
e gli fa con un colpo acerbo e forte,
trangugiando il pugnal, morder la morte.
Iva il terzo trescando a salto a salto
sovra un finto destrier di fragil canna;
miser, né sa qual repentino assalto
a morte crudelissima il condanna:
ecco quel cor d’adamantino smalto,
pria con man lo ghermisce e poi lo scanna;
ne lo spazzo l’abbatte, e quivi il lassa
a giostrar con la Morte, e ride e passa.
Del bel drappel reliquie assai leggiadre
avanzavano ancora il quinto e ’l quarto,
coppia, che fu de la dolente madre
(madre piú non dirò) gemino parto.
L’un rotando sen gía fra quelle squadre,
mobil paleo per entro il sangue sparto;
e, tutto intento al fanciullesco gioco,
al periglio vicin pensava poco.
Contro costui la destra e l’armi stese
rapidamente il feritor villano;
ma la piaga mortal colá non scese
dov’ei mirò, se ben non scese invano;
ché, frapostosi a caso, in sé la prese
non aspettata il suo vicin germano.
Diss’egli allor: — La tua follia s’incolpi,
non la mia man, se vai furando i colpi! —
Sotto la gonna allor colei si cela
l’ultimo, che de’ cinque ancor le resta.
Ma che? del proprio scampo ei si querela,
e col proprio vagir si manifesta,
e la frode pietosa altrui rivela,
ch’ascoso il tien, de la materna vesta;
semplicetto ch’egli è, né sa tacere,
perché non ha imparato anco a temere.
La mal aventurosa e mal accorta,
cui dá senso l’amor, vita il dolore,
altro non sa che, sbigottita e smorta,
piover per gli occhi amaramente il core;
ma l’avanza il vagito, e si fa scorta
del cieco ferro, de l’ostil furore:
segue la voce, e lá donde deriva,
per la traccia del suon la spada arriva.
Non cosí contr’il nibbio empio e maligno
la domestica augella i polli cova,
come colei dal barbaro sanguigno
il malcauto schermisce, e non le giova:
però che ’l fier, che petto ha di macigno,
brandisce il brando e ne la strozza il trova;
giac’ei nel sangue orribilmente involto,
tra i fraterni cadaveri sepolto.
Qual fu Niobe a veder, quando dal cielo
vide scoccar le rapide saette,
onde in un giorno i duo signor di Delo
orba la fêr di sette vite e sette,
che, visto alfin cader l’ultimo telo,
al dolente spettacolo ristette,
e ’l corpo per dolor stupido e lasso
venne gelida selce, immobil sasso:
tal fra la stirpe sua, mentre moriva,
restò la tapinella instupidita,
di color, di calor, di senso priva,
senza moto, senz’alma e senza vita.
Parea morta non giá, ma men che viva
di bianco marmo imagine scolpita:
di bianco marmo, se non quanto i figli
fatti i candidi membri avean vermigli.
Pur (tanto di vigor le dá pietate!)
la mistura crudel volge sossopra,
e va cercando le reliquie amate,
ove la varia uccision le copra;
e le lacere membra insanguinate,
reggendo amor la mano a sí fier’opra,
per onorarle dell’essequie estreme,
sparse, raguna, e le commette insieme.
E col pianto le lava, e dice: — Ahi lassa,
lassa! che fia, che i miei soavi pegni,
la cui vista infelice il cor mi passa,
di riunir, di resarcir m’ingegni?
Altro non veggio ch’una orribil massa
di frammenti avanzati agli altrui sdegni;
altro ch’un mucchio di sanguigni e monchi
squarciati brani e dissipati tronchi.
Giá solev’io, non è gran tempo avanti,
trattando di mia man serici stami,
nel lin, che vi copria, poveri infanti,
con sottil ago ordir fregi e ricami;
or da ferro crudel ne’ vostri manti,
quali, ahi quali vegg’io lavori infami!
Fiera man vi trapunse, ed ecco in vui
ricucir mi convien gli squarci altrui.
Son queste, oimè, le forme altere e vaghe,
che da la genitrice in prima aveste?
Oh stelle, del mio mal sempre presaghe,
le mie misere carni, oimè, son queste?
Queste son pur! tra ’l sangue e tra le piaghe
riconosco pur io l’amate teste:
dunque, cosí mi ritornate innanzi,
delle viscere mie miseri avanzi?
O specchi del mio cor, volti amorosi,
ov’io me stessa vagheggiar solea,
o Soli di quest’occhi, occhi pietosi,
in cui mille dolcezze ognor bevea:
o labbra, onde pur or baci vezzosi,
misti fra dolci risi, amor traea:
ahi qual selvaggio, ahi qual tartareo mostro
ha sparso il sangue mio nel sangue vostro?
Dato mi fusse almen toccar distinti
que’ membri, oimè, che piú toccando infrango;
lassa, ch’io pur miseramente estinti
piango i miei figli, e non so quale io piango:
perché d’atro pallor sieti sí tinti,
che dubbiosa e confusa io ne rimango,
e l’effigie gentil del volto mio,
cancellata dal sangue, in voi vegg’io.
Se’ tu colui, ch’io generai primiero?
Giá non è questo il capo tuo reciso:
chi fu che nel tuo busto, ahi scambio fiero!
trasportato e commesso ha l’altrui viso?
Figli, miseri figli, or che piú spero?
sepolto è ne’ vostr’occhi ogni mio riso! —
Qui le cresce la doglia e manca il pianto:
secca han gli occhi la vena al pianger tanto;
e sviene, e il volto oscura, e la favella
perde, e fiato non spira, occhio non move.
Sanguigna intanto e torbida procella
da mille spade in altre parte piove:
ben fu sotto re tale e ’n tale stella
felice chi non nacque, o nacque altrove;
felice chi non nacque, o nato, poi,
die’ fine, il primo giorno, ai giorni suoi!