Emma Walder/Parte terza/V

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Parte terza - IV
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ualche settimana dopo la fortunata soluzione del processo, gli abitanti del borgo di Melegnano, che transitavano per via de Servi, videro con meraviglia le finestre della villa Mandelli riaprirsi una dopo l'altra, e il sole entrare allegramente nelle stanze rimaste vuote e chiuse da oltre sei mesi.
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I tappezzieri avevano l’ordine di rimettere tutto a nuovo.

Un vecchio domestico rientrato in servizio, andava su e giù per la casa molto affaccendato.

Nella sala da pranzo si faceva il parchetto nuovo.

I curiosi, avvertiti di questi fatti, venivano a vedere e si fermavano, interrogando a dritto e a rovescio. Invano. I tappezzieri e gli altri operai non sapevano niente; e il vecchio domestico non era loquace.

Fra i curiosi si trovava in prima linea la serva delle signore Celanzi. Non potendo raccoglier notizie spargeva intorno un sacco di bugie e di malignità contro tutta la famiglia Mandelli, specialmente contro quella «zingaraccia» che — secondo lei — avrebbe voluto farsi sposare dal figlio della sua padrona.

Andrea non si lasciava più vedere in paese. Molti credevano che fosse a Milano e che il matrimonio altra volta progettato, avvenisse finalmente. Da ciò il corruccio delle signore Celanzi, tradotto nelle maldicenze della serva.

In capo a otto giorni, terminati i lavori, gli operai partirono.

Il domestico silenzioso chiuse le finestre e le porte e se ne andò anche lui, senza dar spiegazioni a nessuno. Passarono altre due o tre settimane.

Una sera finalmente i paesani, ritornando dal lavoro, videro brillar da lontano i lampioni di un landeau e sentirono il trotto serrato di due cavalli. [p. 341 modifica]

Il landeau traversò tutto il borgo, entrò in via dei Servi e quindi nella bella corte fiorita di villa Mandelli.

Il vecchio domestico che era lì ad aspettare richiuse subito il cancello e nessuno vide altro.

Malgrado ciò, essi raccontarono che dal landeau erano uscite quattro persone e cioè la cameriera — quella stessa le cui deposizioni avevano avuto tanta parte nel processo — carica di borse, di scialli, di ombrelle; poi Andrea Celanzi, la signora Emma Walder e il signor Leopoldo: il «pazzo» come lo chiamavano.

La presenza di Andrea era un sogno delle loro immaginazioni.

Senz’essere completamente guarito, Leopoldo stava assai meglio.

I medici curanti avevano acconsentito alla sua partenza dal manicomio, convinti ormai che la signorina sua figlia — come essi dicevano — l’avrebbe assistito e fatto guarire più presto di chiunque.

— Io non lo lascierò mai — diceva Emma semplicemente.

Così il suo destino si compiva. E le pareva meno amaro che non l’avesse creduto; perchè in lei era la forza di chi nulla spera per se; di chi nulla chiede alla vita.

L’ultimo peso che gravava la sua coscienza si era dileguato. Andrea era partito per l’Inghilterra dove [p. 342 modifica]contava imbarcarsi su una nave che faceva il giro del globo.

I sentimenti che egli nutriva per lei, le assidue gentilezze di cui la circondava non potevano a meno di inquietarla. Lontano, era un amico, vicino, un pericolo. Non lo amava, no. Ma a dicianove anni, un cuore di donna senza amore è sempre in pericolo, vicino a un giovine innamorato, per quanto il povero cuore abbia sofferto e conosca le aspre delusioni.

Il dovere la inchiodava al fianco di Leopoldo, solo e infelice. Un amore, per quanto rinchiuso e condannato al silenzio, l’avrebbe distratta e allontanata da quel sacro dovere.

E lei non voleva questo: mai più: mai più.

Il distacco fu rapido e fermo.

Andrea intendeva bene che Emma non si sarebbe perdonata una debolezza.

— Tu vuoi lasciarmi?! — aveva esclamato Leopoldo nel primo sussulto dell’animo affranto. — Sei crudele.

Ma dopo un momento di riflessione si era ripreso.

— Hai ragione: è necessario.

E si erano abbracciati piangendo.

Ad Emma, Andrea aveva detto:

— Si ricordi qualche volta di me.

Ed essa:

— Amici come lei non si dimenticano. Faccia buon viaggio. [p. 343 modifica]

Nient’altro.

Molti fatti crudeli, che spezzano un cuore, una vita, si compiono così tacitamente.

A Melegnano, Emma soffrì molto nei primi tempi.

Tutto le rammentava il passato, l’amore di Paolo, il suo tradimento, la sua morte.

Altri dolori non le furono risparmiati.

Un giorno che erano usciti in carrozza, Leopoldo fece fermare sul «Ponte di Milano» per fare la limosina a un povero vecchio, malato di pellagra. Emma vide allora una donna che l’additava a un gruppo di popolani, e sentì queste parole:

— È la sua ganza, sì. Non vedete in che lusso la manda?

Profondamente turbata e avvilita, ella avrebbe voluto strapparsi di dosso quelle vesti eleganti e vestire sempre in lutto, simbolo del lutto che aveva in cuore.

Ma Leopoldo non voleva. Appena essa gli appariva dinanzi in abito dimesso, gridava:

— Perchè porti il mio lutto? È dunque vero che sono morto!... Perchè dici di no, se è vero, se porti il lutto per me?

Che fare? Ella si rassegnò a sfidare la maldicenza.

Tornò a vestire le belle sete lucenti, i morbidi velluti, le felpe cangianti, che egli accarezzava con tanto piacere: e non si curò più di ascoltare i discorsi della gente maligna.

Il tempo e l’abitudine smussarono molte asprezze. [p. 344 modifica]

Quella situazione che non offriva alcuna novità, perdette ben presto ogni interesse agli occhi della folla. La maldicenza trovò altro pascolo ed Emma fu, la diomercè, un po’ dimenticata.

Leopoldo migliorava.

Dopo il terribile avvenimento che aveva ottenebrata la sua ragione, egli non aveva più neppur pensato alla musica. Migliorando, a poco, a poco, l’antico amore dell’arte si risvegliò nel suo cuore.

Le conversazioni famigliari, alle quali prendevano parte spessissimo, Marco Fabbi e il vecchio dottore, più di rado, qualche altro parente ed anche le due vecchie zie, sempre accanite giuocatrici di primiera, distraevano molto il convalescente.

Leggeva i giornali e le riviste e discorreva con animazione. — Discuteva su qualunque soggetto come nei bei tempi della sua maggior potenza intellettuale.

Dimenticava soltanto i nomi e le date, che Emma aveva cura di suggerirgli.

— Ah! — gemeva egli qualche volta — i morti perdono la memoria. Quando ero vivo e le mie mani non s’erano macchiate, e Dio non mi aveva condannato a questo terribile supplizio di essere morto tra i vivi... allora la mia memoria era limpida, il mio cuore sereno... Ora è finito per me!

Qualche volta piangeva.

Altre volte diceva che Dio gli aveva perdonato; che aveva fatto bene a uccidere il vile seduttore: [p. 345 modifica] che il delitto di cui la giustizia umana lo aveva assolto, era nella suprema divina volontà.

In capo a un anno, i medici consigliarono un viaggio. Emma lo condusse a Roma, dove il barone e la baronessa Cabruso vivevano da alcuni mesi con la loro rispettiva suocera e madre.

Un bimbo era nato ai due sposi. Cleofe, la bella nonna, se n’era impadronita e non viveva più che per lui; mentre la giovine madre correva i balli e i teatri.

Questo viaggio fece bene a Leopoldo dal lato intellettuale.

La sua allucinazione, già assai indebolita, si dissipò interamente.

Le ultime ombre svanirono ed egli non dubitò più di se stesso.

Si rese conto di tutto. Capì di essere stato infermo, non morto: oppresso da quella terribile infermità che attacca l’essere umano in ciò che ha di più nobile e di più puro.

Senonchè questo ritorno sul passato ridestò in lui ricordi sopiti che lo piombarono in profonde tristezze.

Gl’intrighi di Cleofe, la sua doppiezza, la sua indegnità, gli si riaffacciarono con evidenza spaventevole. Rivisse in poche ore il passato. Comprese, forse come mai prima, il male tremendo che quella donna gli aveva fatto. La odiò come non l’aveva mai odiata. E la sua ripugnanza giunse al punto che non potè [p. 346 modifica]dissimularla, neppure agli occhi di Annetta, neppure agli occhi del genero — un tipo sbiadito di uomo alla moda.

Del resto, Leopoldo provava una invincibile ripugnanza anche per i due sposi. Annetta gli pareva una cortigiana, profondamente corrotta; il barone, un imbecille. Subito il primo giorno, egli si alzò da tavola a mezzo il pranzo, e pregò Emma di accompagnarlo nella camera che gli avevano assegnata, e non volle più uscirne.

Queste dimostrazioni troppo sincere furono messe naturalmente sul conto della sua pazzia.

— Povero babbo — diceva Annetta — non è guarito: i medici si sono illusi.

E andava a vestirsi per la passeggiata, scuotendo la bionda testa, con una malinconia così lieve, così lieve, che presto non ne rimaneva più alcuna traccia.

Quanto a Cleofe, il nipotino l’assorbiva completamente. Leopoldo era sempre stato pazzo, secondo lei, e non valeva la pena di occuparsene.

Ringraziava il cielo di esserne liberata: non avrebbe più avuta la flemma di fingere, con quel noioso. Voleva vivere a modo suo, godersi il suo bell’autunno, senza scandali, nel vortice della capitale, con la poesia di quel nipotino che la posava così bene agli occhi del mondo.

Emma si affrettò a ricondurre il suo povero caro nel silenzio di Melegnano. [p. 347 modifica]

Non dubitava punto che egli fosse ricaduto. Trovava anzi che quel risentimento, quelle ripugnanze, erano una prova di più della completa guarigione. Frugando dentro di sè, ella vi ritrovava la medesima collera, il medesimo sdegno.

Oh! la gioia di andarsene!

O cara, adorata solitudine!

— Non parlarmi mai più di loro — disse Leopoldo quando furono in treno. — Voglio dimenticare che esistono.

E non ne parlarono più.

A Melegnano cominciarono una vita nuova.

Per fargli piacere, Emma si mise a studiare un po’ il canto, tanto da cantare certe piccole arie di Paesiello, di Cimarosa e anche di Bellini e di Mozart; ma specialmente quelle che Leopoldo stesso componeva per lei, in uno stile semplice e pieno di sentimento.

Ella aveva una voce tenue, ma dolcissima, che faceva un grande effetto nella piccola chiesa con l’accompagnamento dell’organo.

Quando cantava così, accompagnata da Leopoldo, i contadini dicevano che pareva d’essere in paradiso a sentire gli angeli.

Queste erano le ore beate.

Ma un crescente bisogno di attività e di distrazione li spingeva alla ricerca di altre occupazioni.

Giravano insieme per le tenute; ascoltavano i [p. 348 modifica]lamenti dei poveri campagnuoli e facevano tutto il possibile per sollevare la loro miseria.

Non riescivano a vincere tutte le diffidenze e le superstizioni. Impossibile!

Per molti, Emma era sempre la «ganza,» la «zingara»; ma i beneficiati non potevano a meno di amarla e, non foss’altro, di compatirla.

Felice del bene che poteva fare, ella non indagava quello che pensavano di lei.

Una sventura, grandissima, la minacciava: il suo adorato padre scendeva verso il sepolcro.

Il vecchio dottore, il vecchio amico, lo interrogava con insistenza, allarmato da certi sintomi che gli parevano gravi assai.

— Sciocchezze! Sto benissimo — rispondeva Leopoldo ridendo; e non voleva sentir altro.

Emma stessa diceva che non le era mai parso così giovine e così bello.

E queste parole lo inebbriavano.

Bello? Giovine? Ella dunque poteva amarlo?

Si sentiva, davvero, come a vent’anni, allorchè questa lusinghiera speranza accendeva la sua fantasia.

Ma il dottore crollava la bianca testa e si allontanava borbottando.

Un fatto ineluttabile si compiva.

Il ritorno della intelligenza, dell’attività, della vita normale, insomma, non aveva trovato nel corpo logoro la necessaria resistenza. La delicata compagine [p. 349 modifica]di quel corpo, che si reggeva appena nello stato intermedio di oblio assoluto e di semicoscente vaneggiamento, non aveva potuto resistere all’urto inesorabile della realtà: al ricordo angoscioso di tanti patimenti morali, che rincontro con la moglie aveva rievocati con terribile intensità di visione.

Ed ora a tutto ciò si aggiungeva il divampare improvviso di una passione, ringagliardita dalla speranza nella solitaria convivenza. Salvato dalla follia e dall’ebetismo, la tabe lo minava.

Che cosa fare per salvarlo?

Separarlo da Emma?

Impossibile e inutile. Sarebbe morto lo stesso.

Se avesse potuto sposarla!... O farsi amare egualmente!... Ma come dirgliele queste cose?... E a chi dirle? A lei, o a lui?... Inutile a lui; a lei, impossibile.

Il povero dottore si strappava i capelli nella rabbia dell’impotenza.

E intanto Leopoldo deperiva.

Uscito appena dai mistici divagamenti, il misero che già s’inoltrava nel decimo lustro, non trovava alcuna difesa contro il risveglio tumultuoso della sua carne conculcata.

Essere sempre con lei, in quella convivenza ideale; ammirare continuamente la sua bellezza provocante, fascinatrice: sentire il calore e il profumo del giovine corpo; ricevere le sue innocenti carezze; spasimare... e tacere! [p. 350 modifica]

Se avesse osato dirle quanto l’amava, come l’amava, che parole di fuoco, che divoranti carezze sarebbero state le sue.

Con assidua vicenda la folle speranza si riaccendeva nel povero cuore: ella forse intendeva quel martirio, forse ne aveva pietà... forse...

Non osava completare l’ardita supposizione e la sua fantasia si smarriva in sogni vaghi, snervanti. Si metteva ad osservare con febbrile attenzione ogni atto, ogni cenno di lei, ogni fuggevole mutar del volto.

O scoramento infinito! O ineffabile angoscia!

Tenerezza, rispetto, pietà, ella tutto gli dava, ciò che la sua nobile anima poteva dargli; ma non di più. Non l’amore, non l’ardente passione, per cui egli vaneggiava.

Aveva forse ritrovata la calma: era entrata in porto e non voleva mai più arrischiarsi nel vortice periglioso.

Forse — più probabilmente — amava sempre, e soffriva. Ma chi amava? Chi?...

Il traditore da lui punito? Quel vile morto? No. Impossibile. Non sarebbe stata così affettuosa, così buona con lui; chi dunque? Andrea. Andrea.

Si erano intesi finalmente, in quei giorni a Milano, mentre egli vaneggiava, povero pazzo?

Che non avrebbe dato per discoprire l’arcana verità! [p. 351 modifica]

Si struggeva di sapere, con quella sete di amare certezze, che è il peggiore dei supplizi.

La chiamava a sè; la interrogava abilmente, suggestivamente, come nel tempo passato, quando voleva vederla felice a qualunque costo.

A volte gli pareva di aver capito.

Sì, essa amava Andrea. Mentre stava lì accanto a lui, paziente e sommessa, il suo pensiero viaggiavi, viaggiava; faceva il giro del mondo col fortunato viaggiatore, si fermava sull’agile prora del bastimento. Che gli giovava, povero demente, che gli giovava di aver lasciato che Andrea partisse, se il cuore di Emma lo seguiva?

Come era felice quel suo eterno rivale!

Giovine, amato.

Esporsi a mille pericoli, sfidare gli uomini e la natura, ma essere amato: sapere che in un piccolo angolo di questo mondo esiste un cuore tutto nostro, che soffre per noi, che ci segue da per tutto: al centro dell’Africa, tra i geli del polo: un cuore che nessuno ci può rapire. O felicità! Sovrumana felicità! Sotto l’impressione di questo fatale convincimento Leopoldo non poteva dominarsi.

Per nascondere il suo misero stato, si chiudeva in camera a piangere, non più pazzo, furente.

Ma così non poteva durare. Ritornavano i buoni dubbi, le tenere ricerche, le tenui speranze, i sogni roventi. [p. 352 modifica]

Ouesta atroce vicenda lo consumava.

Già il medico avvertiva tutte le sere un poco di febbre.

L’indebolimento generale diventava sempre più notevole.

Un brutto giorno, al momento di salire la scaletta dell’organo, vacillò e cadde semisvenuto.

Stette alcuni giorni a letto; poi si rialzò e parve rimesso.



Ma i calori estivi lo abbatterono nuovamente e presto non osò più uscir di casa, altro che al braccio di Emma per la paura di cadere. Pareva uno spettro dagli occhi ardenti, dal viso diafano. [p. 353 modifica]

Emma pensava con terrore al momento in cui quell’amico, quel padre, teneramente amato, l’avrebbe abbandonata per sempre. Che tristezza intorno a lei, che silenzio!

Non più passeggiate, non più allegri concerti. Il pianoforte taceva spesso, giorni e giorni.

L’organo della Madonna de’ Servi non rallegrava più, con la sua voce sonora, la campagna silenziosa.

Unica distrazione qualche gita in carrozza. Poi neppure più questo. I cavalli ingrassavano pigramente nella scuderia; la bella carrozza ammuffiva dimenticata: la villa intera taceva come morta.

Emma girava con passo spettrale per le stanze deserte, semibuie, soffocando i singhiozzi che le rompevano il petto. La sua elegante figura, stretta nella veste di seta rosa, che portava per la casa, entrava come una visione, come sognata, tra i fiori della veranda dove il malato si rifugiava nelle ore tiepide.

— Sta qui; sta qui accanto a me!... Siedi presso a quelle rose, così. Come sei bella!

E la contemplava, estasiato.

Per farlo guarire, perchè vivesse con lei ancora un poco, ella avrebbe data tutta la sua giovinezza, tutti gli anni belli e floridi, di cui poteva disporre.

Sebbene non sospettasse la passione devastatrice [p. 354 modifica]che egli s’affaticava a nasconderle, intuiva qualcosa di singolare, capiva di essere amata di un amore più che paterno, di un amore senza nome.

Tre anni erano trascorsi dacchè vivevano così soli, nell’assoluta libertà; e a lei pareva di non averlo conosciuto prima di quei tre anni; tanto le appariva diverso. Sempre lo aveva giudicato buono, nobile, generoso; ora pensava che nessuno al mondo, nessuno potesse uguagliarlo.

E mentre egli continuava a deperire, ella continuava a trovarlo più bello, più giovine, talmente lo guardava con altri occhi.

Le sventure passate non l’angosciavano più. Paolo era dimenticato, completamente dimenticato. Non provava più nò rancore, nè vergogna, nè rimpianto. Solo il ricordo le rimaneva di avere amato e sofferto; vale a dire, vissuto.

Ed ora pure amava e soffriva; ma in una forma tanto più alta e spirituale. Da ciò le veniva quella sensazione di rinascimento, di vita nuova; di intima, profonda consolazione. Il suo cuore si allargava, il suo spirito sorgeva a una comprensione sempre più vasta e serena della vita e degli umani destini. Senza rancori, senza rimpianti, avrebbe voluto vivere tanti anni così, sempre così vicino a Leopoldo.

Egli era per lei l’uomo ideale: forte e sensibile; passionale e severo; con un tesoro d’affetto e di tenerezza, del quale lei sola aveva la chiave. E ciò [p. 355 modifica]appagava il suo nobile orgoglio e, quell’ingenua ambizione di possedere cose rare, uniche, così radicata nelle razze primitive.

Sarebbe stata felice con lui, in ogni modo.

Figlia, sorella... amante. Cosa importava il nome!...

Egli invece moriva! Appunto allora che avrebbe dovuto vivere.

Stava per lasciarla. Ben presto, sarebbe scomparso. Scomparso per sempre. Quella creatura così degna di esistere, si sarebbe disfatta... disfatta!

E di lei, che ne sarebbe? Cosa avrebbe fatto sola al mondo?

Non poteva sperare che il dolore la uccidesse, poichè tanto aveva sofferto e non era morta.

La vita le appariva come una catena, tenace, lunghissima, i cui anelli di ferro le entravano nelle carni.

Che ne avrebbe fatto della sua vita così giovine ancora?

Guardava lontano, lontano, nell’infinito.

Forse, passata la vertigine di quel supremo distacco, il suo cuore lacerato da tante ferite, avrebbe trovato pace alfine? Oppure, travolta da nuovi turbini, avrebbe misurato l’abisso di nuovi dolori? Forse, per risorgere ancora e cercar salvezza inerpicandosi sopra altri scogli più scabrosi, con le membra straziate e sanguinolenti?...

Per morire, alla fine, per morire. [p. 356 modifica]

Morire?!

Perchè moriva Leopoldo? Perchè?

Non aveva che quarantasett’anni; avrebbe potuto vivere il doppio; e non gli restavano che pochi mesi!

— È la volontà di Dio — dicevano le vecchie parenti.

No. Emma non credeva, non poteva credere a siffatti capricci di un Dio.

La sua anima s’innalzava all’ideale, ma il dio tiranno, il dio autocrata, le rimaneva incomprensibile.

Certo una legge fatale doveva uccidere Leopoldo, poichè tutto nella natura le pareva divino e fatale.

Egli moriva perchè il dolore aveva logorate le sue forze, non mai ristorate dalla gioia. Una grande legge naturale, violata... questo era, questo!

La sua coscienza fu illuminata da una luco improvvisa.

Sentì, con l’istantaneità di ogni rivelazione interna, che lei stessa, lei stessa non aveva saputo dare all’amato tutta la gioia di cui egli aveva necessità per rinnovare le sue forze esaurite dai patimenti. Lei stessa, lei stessa lo uccideva!

Il suo sacrificio era stato un tranello, dacchè non aveva saputo dargli la felicità che fa vivere.

Ed ora?...

Troppo tardi! [p. 357 modifica]

Una sera, una fredda sera autunnale, Leopoldo, che non si levava quasi più dalla poltrona, e non poteva mettersi a letto per l’oppressione del cuore, disse a Emma di allontanare il domestico e di restar sola con lui.

Il dottore se n’era appena andato, assicurando che la notte sarebbe calma; vi era un leggiero miglioramento.

Si trovavano nell’antico salotto al piano terreno, trasformato in camera da letto già da oltre un anno: dacchè la palpitazione di cuore rendeva le scale troppo faticose all’infermo.

Era una stanza assai grande, ariosa, con due finestre a mezzogiorno. Le pareti, coperte di una stoffa amaranto, erano decorate di quadri, bronzi, gessi, porcellane. Il letto spariva in un angolo sotto a un padiglione di stoffa turca a ricchi disegni. La mobiglia sobria e comoda, non ingombrava. Tra le due finestre, uno specchio dall’alto al basso. Tende e tappezzerie delle sedie e dei divani, in damasco cremisi, con ricami d’ogni colore.

Un bel fuoco ardeva nel caminetto di marmo, per rinnovare l’aria, a cui un calorifero dava il necessario tepore. [p. 358 modifica]

Il magnifico Playel, nel centro della camera, mostrava i nitidi avori, che nessuno toccava da molto tempo. Un tappeto scuro e soffice copriva il pavimento, e dall’alto del soffitto pendevano due grandi lampade di bronzo con grandi globi di porcellana dipinta.

Il malato voleva luce, molta luce intorno a sè. La grande poltrona, dove egli passava i giorni e le notti stava appunto fra le due lampade, nel mezzo della camera, poco lontano dal pianoforte.

Vedendo che egli continuava a tacere, sebbene fossero soli, Emma gli domandò:

— Ebbene, cosa vuoi dirmi, caro?

— Che sei una santa e che io ho rimorso di averti rubato tre anni...

— Oh! Cattivo! Così mi parli? Per questo hai voluto esser solo con me?

— No. Ma lascia che ti ringrazi almeno prima di partire...

— Partire?!

— L’ignoto mi chiama. Il mio cuore terreno è consumato. Ne avrò un altro al di là?... Se l’avrò ti amerò ancora, ti amerò in eterno, qualunque sia la forma a cui sarò destinato; per quanto lontano sia il mondo nel quale t’incontrerò...

— O babbo mio! Babbo mio!

— Parliamo di te. Tu resti sola. Sei proprio sicura di rimanere sola? [p. 359 modifica]

— Spero di no! Tu guarirai... Senti, ascolta, devo dirti... Non guardarmi così.

Egli la guardava intensamente, traverso le lagrime che gli offuscavano la vista.

— Io muoio, Emma. È finita per me. Ma dimmi, tu, dimmi, non aspetti nessuno?

— Io?... Chi dovrei aspettare?

La sua voce e il suo viso dicevano la sincerità del suo doloroso stupore.

— Egli mi ha scritto. Arriverà in Italia fra poco...

— Ma di chi parli così?

Il morente le prese una mano e la tirò a sè.

— Di Andrea parlo. Siediti qui accanto a me. C’è posto. La poltrona è così larga e io così magro.

Un sorriso sfiorò le sue labbra; e un tenue rossore colorò le sue guance scarne, d’avorio. I dolci occhi azzurri brillarono ancora allorchè il corpo flessuoso di Emma sfiorò il suo corpo, e le snelle forme si disegnarono mollemente così vicino a lui.

— Parlo di Andrea — ripetè dopo un momento. — Non sai che egli ti ama? Non ti ha scritto?

Ella crollò il capo.

— Se m’avesse scritto, te l’avrei detto. Non mi scrisse mai, e sono tre anni e più che non so nulla di lui. A Milano... ai tempi del tuo processo... mi ha dimostrato un certo interesse, è vero. Ma io non vi [p. 360 modifica]ho mai più pensato; e non avrei mai creduto che egli vi pensasse ancora.

Tutto il viso del malato si trasformò ascoltando queste parole. Un senso intimo di piacere lo illuminò, lo ringiovanì.

Si chinò su la fronte bianca di Emma, e vi stampò un fervido bacio.

— Grazie, Emma, grazie per il bene che mi fai. Ma non bisogna illudersi, bambina mia. Io parto. Egli verrà.

— Non voglio! — gridò Emma. — Non voglio! Perchè mi tormenti?

— Voglio io, Emma. E tu obbedirai a chi èc stato sempre un buon padre per te. Andrea verrà quando io non ci sarò più: quando tu avrai pianto abbastanza sulla mia tomba. Non piangere adesso. Lasciami vedere i tuoi occhi limpidi, i tuoi occhi belli. Verrà Andrea. Oh! se io potessi restare, non avrei tanto eroismo... no! È d’uopo che tu sappia la verità! non ne avrei la forza; Ti ho rubato questi tre anni, ti ruberei tutta la tua gioventù.

— Oh! Dio volesse!...

Preso da un impeto di tenerezza, egli le gettò le braccia al collo e la baciò sulla bocca. Poi si ritrasse tutto tremante.

— Ascolta ancora. Ascolta, il tempo incalza. Quando verrà, dunque, bisogna che tu lo accolga bene, come uno mandato da me per renderti felice. E la mia [p. 361 modifica]ultima volontà: per morire tranquillo ho bisogno di sapere in che mani ti lascio, e che sarai felice. Non hai che ventidue anni, pensa, è indispensabile che tu sii felice. La gioia è come il sole. Chi ne è lungamente privo, finisce consunto, pazzo o delinquente... Guarda il mio esempio, Emma mia, e non dimenticarlo mai. Non sono io, o non sono io stato, tutte queste tre cose insieme? Un raggio di felicità sarebbe bastato a salvarmi.

— O padre mio! padre mio, mi schianti il cuore.

La testa appoggiata sulla spalla di lui, ella piangeva sommessamente.

Nel gran silenzio della notte non si sentiva che il rumore della pioggia, il crepitar della fiamma nel caminetto, e quel pianto, quel pianto sommesso.

Leopoldo taceva, assaporando con i sensi e con l’anima la dolcezza di quel pianto, la poesia di quei momenti.

— O vita, o sogno meraviglioso e crudele!

Essere giovani, sani, amare...

Chi sa quanti godevano in quell’ora! Egli moriva.

«Anche tu sei amato, anche tu» gli susurrava la voce interna. «Anche tu sei amato: ella piange per te e non ha pensato che a te in tutti questi anni. Muori felice almeno!»

· · · · · · · · · · ·
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— Emma!

— Cosa vuoi, caro?

— Soffoco. Come batte questo cuore. Senti. Metti qui la tua mano. La sola idea della gioia mi ammazza adesso. Non ti spaventare, no. Non voglio che tu chiami. Resta qui sola con me. Hai paura della morte, tu? Avrai ribrezzo del mio povero corpo inerte? No, vero? Abbracciami, così... Ah... che peso... qui... Abbracciami!... No, non dirmi babbo, non chiamarmi più padre... Non sai? non sai come ti amo... come ti ho amata?... Sempre!...

— Non morirai! Non morirai! Non devi morire!.. Guardami... Oh! adesso non devi, non puoi morire!... Ti amo, ti amo!

Come galvanizzato, egli scattò, drizzò la testa; strinse, con le tremanti braccia, il corpo sottile che gli si offriva così teneramente, e avviticchiandosi ad esso, posò le labbra inaridite su quelle rosee e fresche labbra.

Finalmente. Finalmente.

Ma il povero cuore si franse nel gaudio troppo lungamente sognato.

Emma sentì che egli s’irrigidiva in uno spasimo atroce.

· · · · · · · · · · ·

Un urlo disperato ruppe l’alto silenzio.

— Morto!... [p. 363 modifica]

La testa, improvvisamente appesantita, cadde all’indietro, vincendo la forza del braccio che si ostinava a sostenerla.

Le pupille vitree fissavano ancora il viso adorato.