Emma Walder/Parte terza/IV
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IV.
Leopoldo migliorava visibilmente dopo il ritorno di Emma, nonostante le noie e le ansie del dibattimento.
Annetta scriveva di rado dacchè si era fidanzata al barone Cabruso. Cleofe mai. E nessuno la nominava come se non fosse mai esistita.
Le lettere di Annetta erano dirette a zio Marco: Leopoldo le leggeva qualche volta. La fanciulla non faceva alcun accenno alla morte di Paolo, nè al processo: fuggiva gli argomenti penosi. Parlava spesso del suo promesso sposo — un milionario di quarantanni — come di un uomo perfetto, c del suo matrimonio come di un affare. Qualche volta, ella aveva anche dei motti pungenti per le ragazze che cercano l’amore nel matrimonio, e delle allusioni sarcastiche al tempo in cui ella voleva morire perchè non si credeva abbastanza amata. Miserie della vita di provincia!
— Vedi? — diceva Marco Fabbi a Emma — Avevo ragione io! Capricci, puntigli. Allora l’amore: adesso, il milione. Vedremo in seguito.
Emma ascoltava stupita e il suo bel viso si rattristava. Per quei puntigli, per quei capricci, Paolo non l’aveva sposata, lei; e Leopoldo era un omicida.
Una mattina di maggio essi erano tutti riuniti nel giardino dello stabilimento, aspettando la carrozza che doveva condurli al palazzo del tribunale. Una inesprimibile inquietudine li agitava: quel giorno, i giurati dovevano pronunciare il loro verdetto.
Vi erano molte speranze, naturalmente. Mitissima la requisitoria del Procuratore del Re. Stupenda l’arringa dell’avvocato difensore. Le signore presenti avevano pianto; mentre alcuni giurati tremavano di commozione; ma l’avvocato della parte civile, un forte oratore esso pure e ben pagato dalla signora Maddalena, aveva tuonato contro la crescente debolezza morale dei nostri tempi e la morbosa indulgenza per certi delitti di sangue. Abile, veramente, egli cercò d’impietosire gli astanti - non sulla morte precoce di Paolo Brussieri, ma sul dolore della povera madre. Non tentò di redimere il seduttore; neppure di scusarlo. Lo chiamò un gaudente senza scrupoli, senza delicatezza. Ma sua madre lo adorava. Questo per il pubblico. Quanto ai giurati, essi non erano donnicciuole da intenerire. Domandò loro semplicemente, che cosa diverrebbe una società civile, nella quale ogni singolo individuo si credesse in diritto di condannare, di giustiziare, da sè, liberamente.
In Italia — egli aveva detto — in un paese dove la pena di morte è soppressa, i privati la esercitano per proprio conto. Se si continua così, se i tribunali non temono di incoraggiare l’andazzo con l’indulgenza pericolosa delle loro sentenze e il morboso sentimentalismo di certi verdetti, vedranno in pochi anni cosa sarà della nostra patria e dove andrà a finire la maestà della legge!
Egli parlò a lungo su questo tono, con l’intenzione evidente di spaventare i giurati e di dare una lezione al procuratore dal re.
Era un uomo esile pallidissimo, dai capelli biondi lisci un po’ sbiaditi, con una bella voce di baritono e polmoni instancabili. La sua frase era semplice, quasi disadorna, ma limpida e spesso efficacissima. Tutti lo ascoltavano volontieri. Malgrado ciò, non ebbe applausi e il pubblico mostrò la sua ostilità con un mormorio.
Fra le persone che se ne intendevano, correva voce che il capo dei giurati fosse molto impressionato di quel discorso.
Da qui l’agitazione degli amici di Leopoldo.
Il più eloquente dei due avvocati difensori doveva però ribattere quegli argomenti e dopo di lui non parlerebbe nessuno. Questo era un compenso; ma non bastava a rassicurare gli animi angosciati.
— Emma! — susurrava il Mandelli in tono grave e dolcemente commosso: — Non mi lascierai più?
— No, babbo mio, mai più.
— Dio ha dunque pietà di me, se vuol rendere così dolce la mia condanna!
— Di che condanna parli? La sentenza si pronuncierà soltanto oggi, e speriamo che tu sarai assolto.
— Gli uomini, bambina mia, assolvono o condannano secondo le loro piccole leggi, con criteri relativi. Ben diverso è il giudizio dell’Eterna Giustizia.
Il medico sopraggiunto, guardò Emma come per dirle:
— Il chiodo è là: sempre là.
Avvertito dalle guardie, Marco disse al cognato:
— Bisogna andare, altrimenti non sentiremmo la replica dell’avvocato.
— Sarebbe poco male — ribattè Leopoldo. — Non è molto piacevole per un uomo, sentirsi dire che la sua debolezza mentale lo rende irresponsabile. Di’ che bisogna andare perchè mi aspettano.
E si alzò in piedi.
Emma sussultò profondamente commossa. Guardò il medico come per dirgli, che quelle non erano parole da pazzo.
Celanzi spiegò che l’avvocato non intendeva debolezza mentale permanente, ma acciecamento e irresponsabilità momentanea.
— S’intende! — esclamò Marco Fabbi.
Nessun altro replicò.
Salutarono il direttore.
Mandelli montò nella carrozza che già aspettava alla porta. Emma sedette al suo fianco: i carabinieri, di fronte.
Come tutti i giorni, appena la fanciulla entrò nella sala delle Assise, insieme all’accusato, il pubblico cominciò a guardarla e il suo nome circolò nelle file.
Un lungo bisbiglio la salutò. Così il pubblico le di ceva tutte le mattine l’interesse che in esso destava.
Ella era pallida. Nel suo pallore spiccavano le labbra rosse e i grandi occhi neri, che le angustie e le commozioni avevano contornato di un cerchio livido. Un semplice vestito di lana azzurra disegnava la sua elegante figuretta; e la cappottina di tulle dello stesso colore, le dava una grande aria di distinzione.
L’avvocato — una vera celebrità fra i giovani avvocati penali — la salutò prima di cominciare a parlare.
Questo era un oratore incisivo, potente. Parlò rapido, con idee larghe, elevate, battendo in breccia l’avvocato avversario. Un capolavoro lo schizzo del Brussieri, calcato sulle parole stesse dell’avversario, e il ritratto di Leopoldo Mandelli, buono, generoso, illibato, che dopo tanti fastidi, tanti prove di forza e di longanimità, cede, in un istante di acciecamento, all’impulso istintivo di un uomo onesto, vigliaccamente insultato.
Il breve discorso fu molto applaudito. Ma il presidente impose subito silenzio alla sala e rivolse ai giurati la domanda di rigore: «Avete bisogno di altri schiarimenti?» La risposta fu negativa. Tuttavia, il presidente riepilogò in brevi tratti tutto il processo, dilucidando i punti più oscuri.
Pochi ascoltavano. L’inquietudine e la trepidanza crescevano. Le conversazioni sommesse formavano quel sordo bisbiglio che, in una sala zeppa di gente, prende a volte un carattere inquietante.
Due volte il presidente suonò il campanello.
Emma tratteneva il respiro, immobile, intirizzita, vicina a svenire.
— Coraggio!
— Ho paura, signor Celanzi, ho paura! È un momento terribile.
Anche Celanzi trepidava; perciò non rispose altro che con un. cenno del capo. La solennità del momento lo impressionava; la sua sicurezza svaniva; non avrebbe più osato dire: «lo assolveranno» come tante volte aveva detto. I suoi occhi non potevano staccarsi dal banco dei giurati. Quelle dodici teste, che egli cercava indarno di penetrare, gli davano le vertigini.
Il più tranquillo era l’accusato. La forte replica dell’avvocato, amico di Celanzi, gli era piaciuta. Aveva parlato, quel giovine intelligente, come avrebbe voluto parlare lui. Era soddisfatto: non si curava del resto. Purchè non gli dicessero che era demente, come quegli odiosi periti, egli avrebbe subita anche una grave condanna senza troppo lagnarsi.
Marco Fabbi non riesciva a dominare la propria inquietudine, neppure irrigidendosi come Emma e Celanzi. Era nervoso; girava intorno gli occhi rotondi, di presbite che vede tutto, che vede troppo; e giudicava ogni cosa dal peggior punto: il presidente era un noioso pedante che andava istupidendo sempre più quelle marmotte: il procuratore del re aveva un sorriso mefistofelico: l’avvocato della parte civile si arricciava i baffetti color di canapa, sicuro del trionfo: tutto male, insomma. Si chinava in avanti per dire qualche parola a Emma, con l’intenzione di farle coraggio; ma sentiva il sapore amaro di quei conforti inutili.
Taceva un momento, poi si rimetteva a brontolare. Annetta gli aveva mandato un dispaccio. Voleva essere informata subito dell’esito finale. E Cleofe gli aveva scritto.
— Non ha che una preoccupazione la mia bella cognata — diceva egli: — che si parli di lei, che sia offeso il suo onore con maligne indiscrezioni; non tanto per lei, s’intende, quanto per Annetta che rischierebbe di non maritarsi più... Si capisce!...
Il riepilogo finiva.
Un soffio di uragano passò su quel mare di teste.
Il presidente prese in mano il foglio su cui erano scritte le questioni proposte ai giurati, e subito si chetò l’uragano. Lesse, e appena finita quella lettura, i giurati si ritirarono.
La folla adesso dava sfogo alla sua commozione parlando a voce forte, gesticolando. Alcuni andavano a colazione. I più non osavano uscire per timore di non rientrare a tempo. Gli amici si stringevano intorno a Leopoldo, cercando di distrarlo.
Egli era pallidissimo, ma assai tranquillo. Alcuni della folla volevano accostarglisi per vederlo più da vicino e mandargli un augurio. Era presente anche il medico direttore dell’Istituto sanitario. Egli disse a Emma:
— Io spero molto da questa scossa per il nostro ammalato, specialmente se lo assolvono. Al primo momento non sembrerà, ma poi, adagio, adagio, lo vedremo rialzarsi.
Queste parole fecero bene a lei. Sentì che quello scienziato valeva meglio che non le fosse parso altre volte, anche come uomo, dal lato del cuore.
Leopoldo le prese una mano attirandola più vicino a sè.
— Sta qui. Ma non credere che io abbia paura: i vivi non possono far nulla ai morti.
Ella si voltò dall’altra parte per nascondergli le sue lagrime.
Oh! la terribile allucinazione!
— L’usciere! l’usciere!... — si sentì bisbigliare da tutte le parti.
Rientrava la Corte.
Un silenzio di tomba subentrò al frastuono.
I cuori ansiosi battevano con nuova celerità.
Quando tutti furono a posto, il capo dei giurati pronunciò con voce velata, che tradiva l’interna emozione, la formula sacramentale:
— Sul mio onore e sulla mia coscienza la dichiarazione dei giurati è la seguente.
Poi si mise a leggere le questioni con le relative risposte:
— 1a Siete convinti che l’accusato Leopoldo Mandelli abbia, nella sera del sei novembre dell’anno decorso, inferti a Paolo Brussieri vari colpi di coltello, sotto ai quali il Brussieri restò morto?
A maggioranza: Sì. —
— Ah! — gridò Emma incapace di frenarsi.
La folla ondeggiava inquieta, paventando la condanna. Molte donne piangevano. Leopoldo guardava davanti a sè, immobile.
Il capo dei giurati riprese:
— 2: Siete convinti che l’accusato Leopoldo Mandelli, abbia agito in tale stato di mente da non avere coscienza e libertà dei propri atti?
A maggioranza: Sì. —
Scoppiò un formidabile grido di approvazione.
Le donne che avevano pianto di trepidanza, piansero di gioia. Quel tanto di solidarietà umana che germina più o meno in tutti i cuori umani dominò per un istante gli egoismi e le preoccupazioni individuali. Tutti godettero per la liberazione di quell’uomo estraneo a loro, ma che tutti stimavano innocente, pure non credendolo pazzo.
Il capo dei giurati appena finito di leggere, si rasciugò la fronte bagnata di sudore e si lasciò cadere spossato sul sedile.
Leopoldo Mandelli, vinto finalmente da un benefico intenerimento, aveva nascosto la faccia sulla spalla di Emma che gli accarezzava i capelli.
Tre volte squillò il campanello.
E il presidente, egli pure commosso, pronunciò con tutta la solennità della legge, l’assoluzione dell’accusato.