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che il delitto di cui la giustizia umana lo aveva assolto, era nella suprema divina volontà.

In capo a un anno, i medici consigliarono un viaggio. Emma lo condusse a Roma, dove il barone e la baronessa Cabruso vivevano da alcuni mesi con la loro rispettiva suocera e madre.

Un bimbo era nato ai due sposi. Cleofe, la bella nonna, se n’era impadronita e non viveva più che per lui; mentre la giovine madre correva i balli e i teatri.

Questo viaggio fece bene a Leopoldo dal lato intellettuale.

La sua allucinazione, già assai indebolita, si dissipò interamente.

Le ultime ombre svanirono ed egli non dubitò più di se stesso.

Si rese conto di tutto. Capì di essere stato infermo, non morto: oppresso da quella terribile infermità che attacca l’essere umano in ciò che ha di più nobile e di più puro.

Senonchè questo ritorno sul passato ridestò in lui ricordi sopiti che lo piombarono in profonde tristezze.

Gl’intrighi di Cleofe, la sua doppiezza, la sua indegnità, gli si riaffacciarono con evidenza spaventevole. Rivisse in poche ore il passato. Comprese, forse come mai prima, il male tremendo che quella donna gli aveva fatto. La odiò come non l’aveva mai odiata. E la sua ripugnanza giunse al punto che non potè