Capitolo settimo - Le grandi virtù e le grandi gioie della vecchiaia

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Capitolo settimo - Le grandi virtù e le grandi gioie della vecchiaia
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Capitolo VII.

LE GRANDI VIRTÙ E LE GRANDI GIOIE

DELLA VECCHIAIA.

pazienza, indulgenza et similia.

il sapiente scetticismo. — la rispettabilità.

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... senectus nihil aliud quam
canus sapiensque intellectus

Santi Padri


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Vi sono molte e diverse virtù, che chiamerei negative e dalle quali ripugniamo soprattutto quando siamo giovani.

Sono l’economia, la prudenza, la pazienza, l’indulgenza, la tolleranza, la modestia: tutte cose ottime e commendevoli; ma che mal si accordano con la spensierata gaiezza dell’età primaverile. Virtù cristiane e buddistiche per eccellenza, perchè si informano sulla fede, che fa della vita terrena un breve passaggio alla vita eterna o fa del nirvana lo scopo ultimo della nostra esistenza. Virtù che il giovane loda assai, ma pratica poco e che a bassa voce battezza per antipatiche. Quando poi egli è di cattivo umore, perchè deve praticarle per forza, esclama irato:

— Felici coloro, che non hanno mai bisogno nè di essere economi, nè di essere [p. 120 modifica] prudenti, nè pazienti, nè indulgenti, nè tolleranti.

Meno male per la modestia: con un po’ di facile ipocrisia si può essere superbi di dentro e modesti di fuori!

Mano mano gli anni passano e le forze diminuiscono, quelle virtù negative si vanno facendo sempre più utili, più necessarie; finchè pigliamo un vero gusto nell’esercitarle. Sono corazze, che ci difendono da tanti malanni, sono callosità provvide e pietose, che ci difendono da tanti attriti sociali, dalle punture di tanti insetti umani: più noiosi e più velenosi delle zanzare, delle mosche e delle pulci.

I carabinieri, le guardie di pubblica sicurezza non sono di certo i più simpatici personaggi della nostra società civile, ma son necessari; e nessuno di noi oserebbe maledirli o torcer loro un capello. Or bene quelle virtù negative sono altrettanti carabinieri, ai quali affidiamo la difesa di tante cose preziose nel giro piccino del nostro Io. A forza di guardarli e di ringraziarli per il bene che ci fanno, si finisce per trovarli anche belli [p. 121 modifica]e li salutiamo con rispetto, se non con amore.

Le virtù negative, le virtù difficili son come i sigari o come l’assenzio. Si incomincia a trovarli amari o nauseosi e poi si forma un palato nuovo, che sa apprezzarne i reconditi pregi; finchè non possiamo farne senza e ci divengon necessari quanto il pane e l’aria.

Per conto mio confesso, che farei senza piuttosto della camicia, che della triplice corazza di pazienza e di indulgenza, che mi son messo intorno alla fragile pellicola della mia nervosa personcina.

All’economia ho già dedicato tutto un capitolo. Vediamo di studiare le altre virtù negative, che indorano l’orizzonte del vecchio sano e felice.

Il giovane è per sua natura poco paziente. Ha la pelle fina e irascibile e ogni puntura di spillo è per lui un’offesa fatta alla sua dignità e contro cui reagisce violentemente. Non offende e non vuol es- [p. 122 modifica] sere offeso; cerca la gioia e la vuole piena, festante. Ha molto da fare e non vuol esser seccato. Quando sulla via trova un seccatore o una seccatura, getta l’uno e l’altra da parte; senza badare se il suo pugno abbia fatto male a qualcuno o a qualche cosa.

Non essendo paziente, non è tollerante, nè indulgente; dacchè la tolleranza e l’indulgenza sono figliuole legittime della pazienza.

Il vecchio invece ha imparato con una lunga e spesso dolorosa esperienza che molte seccature sono necessarie condizioni della vita, e che il volerle abbattere con la violenza è lo stesso che dare un pugno ad un tronco, che ci contende il cammino. Il tronco rimane al suo posto e la nostra mano ne rimane ferita o storpiata. E il vecchio si guarda bene dal voler abbattere la pianta, ma la gira, continuando il suo cammino.

Il giovane quando coglie le rose è ben raro che non si punga e non ne abbia insanguinate le mani. Il vecchio coglie le rose e non si punge mai. [p. 123 modifica]

La pazienza è buaggine, quando si sopportano i dolori, senza calmarli o guarirli con l’igiene della filosofia o con la terapeutica delle forze avverse.

La pazienza è virtù, quando si sopportano i dolori non sanabili nè con l’igiene nè con la terapia.

Il lamento breve, automatico può essere il grido spontaneo e irresistibile della natura offesa; ma quando dura, è la confessione umiliante della nostra debolezza, della nostra impotenza.

È verissimo che la pazienza è resa più facile al vecchio, perchè in lui è minore la sensibilità; ma non cessa per questo di essere una virtù, ch’egli è andato acquistando con lunga fatica.

Egli ha anche imparato a sue spese che nulla è più prezioso del tempo e le ore o i giorni spesi nel lamentarsi sono una pura perdita del più prezioso dei capitali. I grandi uomini hanno trasformato i loro dolori in grandi opere d’ingegno o in alti eroismi. Goethe guarisce da un amore infelice scrivendo il Werther; e [p. 124 modifica] Garibaldi fulminato da una sventura crudele e umiliante pel suo cuore, guarisce con la spedizione dei Mille.

Senz’essere nè Goethe nè Garibaldi tutti i vecchi trasformano i loro dolori, i loro disinganni in pazienza; in una pazienza non vile, ma saggia, in una rassegnazione che non è soltanto cristiana, ma umana; in una forza d’inerzia che resiste al male e lo vince. Ad impossibilia nemo tenetur: egli ripete a se stesso e più volte questo assioma, che diventa guida fedele nel cammino della vita, così pieno di spine, di ostacoli e di inciampi.

Molti anni or sono alle mie lezioni pubbliche di antropologia non mancava mai una vecchia signora, che mi ascoltava con viva attenzione e a cui io guardava più volentieri che a cento altri uditori perchè aveva nel volto un eterno sorriso, fatto di bontà e di contentezza.

E speravo sempre che mi si offrisse un’occasione per conoscerla da vicino e scoprire il segreto di quella felicità, che irradiava intorno a sè la simpatia e l’ammirazione. [p. 125 modifica]

Un giorno essa venne a domandarmi uno schiarimento ed io non potei resistere alla tentazione di confessarla.

— Ella deve essere ben felice, cara signora, perchè le si legge in faccia una perpetua giocondità e fa tanto piacere il guardarla, ch’io nelle mie lezioni spesso non parlo che per lei. —

La buona signora si mise a rider forte, ma non disse verbo.

Ed io:

— Ella deve avere una famiglia, che la circonda di tenerezze e di amore, dei nipotini che giocano con lei... —

E la buona signora, ridendo ancora, si scoprì un braccio:

— Ella già è medico e non avrà ribrezzo di vedere una cosa molto brutta...

Aveva una piaga cancerosa estesissima, che le divorava pelle, muscoli, ossa...

— Oh povera signora, quanto deve soffrire... Ma come può ella assistere alle mie lezioni col volto sempre sorridente... perchè ella deve soffrire dolori atroci... —

— Sì, ma non sempre. Ed io sorrido, perchè sono paziente e non voglio ispirare — [p. 126 modifica] compassione o ribrezzo ad alcuno. So che di questo male devo morire e cerco di passare meno male possibile i miei ultimi giorni. Assisto a molte lezioni, vado in teatro e soprattutto mi diverto con me stessa, mostrandomi più forte del mio male. È una specie di amor proprio, di eroismo modesto quello di vincere il dolore e di mostrargli, che io sono più forte di lui. Quando non ne posso proprio più e mi scappa un lamento, anche quando nessuno lo sente, io mi trovo avvilita; quasi come deve esserlo un generale, che ha perduto una battaglia, o un avvocato che ha perduto una causa, e mi propongo di essere più brava un’altra volta. L’assicuro che son riuscita a stare sette giorni intieri senza dire un 'ahi' o un 'oh'. E godo di questa mia bravura e quando mi vedono sempre sorridente e mi sento dire, come mi ha detto lei: quanto deve esser felice! godo, godo assai, perché vedo di essere riuscita non solo a nascondere la mia lurida piaga, ma anche i miei dolori. E son fiera di me stessa... Dirà, caro professore, che la mia è una mania singolare, [p. 127 modifica] ma è però una mania che mi tien viva e mi fa superba di essere un po’ diversa da tutti gli altri, che con un male molto minore non fanno che lamentarsi, seccando tutti...

Strinsi la mano più volte a quella brava donna, dimostrandole tutta la mia ammirazione.

Ebbi anche un amico, che è morto di 82 anni e senza malattia, passando dal sonno alla morte, senza che nessuno se ne accorgesse. Egli non aveva nessuna piaga sul corpo, ma soffriva di qualche acciacco dell’estrema vecchiezza. Eppure era sempre gaio, sempre disposto a sorridere a tutte le infinite bellezze della natura e a ridere cordialmente e senza fiele delle più che infinite ridicolezze umane.

Egli mi diceva sempre: se il fiato che sprecano nel lamentarsi tutti i vecchi lo adoperassero a soffiar via lontan lontano da sè fastidi e i pensieri di color oscuro, non maledirebbero la vecchiezza, che ha [p. 128 modifica] per sè tante care e buone cose. Contro i mali inevitabili io ho il contravveleno della pazienza, che adopero in diversa dose a seconda della importanza del veleno. E poi a furia di ottimismo son riuscito a scoprire che un uomo tutto quanto perfido e un fatto intieramente sciagurato son due cose che non esistono in natura e credo non potranno mai esistere. Ogni uomo ha un lato buono e ogni disgrazia porta seco qualche bene; ed io mi ingegno a trovare il buono e il bene, e più è nascosto e più mi diverto a trovarlo; precisamente come le sciarade più difficili a spiegarsi son quelle che più ci divertono. Invece purtroppo la maggior parte degli uomini fa ogni sforzo per ingrandire il lato cattivo degli uomini e delle cose, trascurando e dimenticando del tutto il lato buono.

Vi sono uomini disgraziati, che impiegano tutta la loro vita in questa sola pazza, stupida e fedele occupazione di trovare il pelo nell’uovo; mentre quei pochi, che sortono da natura la fortuna di esser felici, è perchè cercano l’uovo nel pelo; [p. 129 modifica] fanno cioè l’opposto dei primi. Voi mi direte, forse ridendo, che nessuno dei due riesce nel suo intento, ma io che son vecchio posso assicurarvi, che col microscopio dell’ottimismo o col telescopio dell’idealità son sempre riuscito a trovare l’uovo nel pelo; cioè dovunque e sempre un germe di meditazione o una scusa del peccato; un lato estetico anche nei gobbi... Ho trovato sempre il filo tessile nell’ortica e il profumo nell’assenzio.

La pazienza e l’esperienza, che non fanno rima soltanto nelle parole ma anche nell’armonia delle umane cose, ci procurano quella cara e santa virtù che è l’indulgenza, tanto rara nela giovinezza, tanto comune nella vecchiaia; a cui porge infinite dolcezze e a cui dà un’amabilità grandissima.

Fra la pazienza e l’indulgenza sta la tolleranza, che tiene dell’una e dell’altra e che le riunisce in un vincolo di strettissima parentela. [p. 130 modifica]

Vi sono debolezze e viltà e iniquità nell’uomo, che non possiamo approvare, nè giustificare; ma nel giovane risvegliano lo sdegno e nel vecchio invece ispirano la tolleranza.

Nella gran fabbrica degli uomini, assai più difficile di quella delle ciambelle, vengon fuori dei gobbi, dei nani, degli idioti, tanto nel corpo come nell’anima; e dacchè non possiamo ucciderli, dobbiamo accontentarci di tollerarli, studiando intanto di perfezionare quella fabbricazione, che finora è sempre nello stato infantile e mitologico della più oscura ignoranza.

Dalla tolleranza all’indulgenza non vi è che un passo, e indulgenti son tutti i vecchi sani e buoni. Il perdono è una virtù sublime della vecchiaia, e se la insegnò e la predicò Gesù Cristo, benchè giovane, fu il solo e meriterebbe il nome di un Dio anche per questo solo, di avere insegnato a perdonare.

Guardatevi intorno e anche senza uscire dal giro ristretto della vostra famiglia, vedrete come l’indulgenza cresca con gli anni. [p. 131 modifica]

Voi avete preso moglie e avete avuto parecchi figliuoli. Or bene col primo siete severissimo, col secondo severo, col terzo giusto, con gli altri indulgente. I vostri genitori poi, nonni dei vostri figliuoli, son con tutti indulgentissimi.

Di questa indulgenza si dà merito alla debolezza senile, e invece di quella virtù ha merito l’esperienza degli uomini e delle cose.

Quando si è giovani, si ha una fede cieca nell’onnipotenza dell’educazione e si vuole che i nostri figliuoli sieno altrettanti genii, altrettanti eroi; modelli di perfezione in tutto. E le armi pedagogiche si maneggiano con crudele coraggio: l’emulazione, il castigo, le busse del corpo e le umiliazioni dell’amor proprio. Nostra divisa è: chi molto ama molto castiga. E si sogna il beato sogno, che d’una zucca si possa fare un popone e di un asino un cavallo.

Ma poi, poco per volta, siam costretti a confessare, che ad onta di tutto il nostro crudele e artificioso armamentario della pedagogia la zucca è rimasta zucca [p. 132 modifica] e l’asino è sempre un asino. Tutt’al più la zucca è divenuta un po’ meno insipida e l’asino ha accorciato un tantino le proprie orecchie.

E allora si ripongono le ferule e gli scudisci, si ha vergogna di aver dato degli schiaffi e si viene a’ più miti consigli, accontentandosi di ammorbidire con un po’ d’olio le ruote rugginose, di strappar qualche spina, di arrotondare qualche punta. Miglioriamo la zucca e diamo un po’ d’intelligenza all’asino, senza più pretendere alle metamorfosi di Ovidio. Un po’ per volta troviamo che anche la zucca, anche l’asino hanno una missione in questo basso mondo; hanno anch’essi la loro utilità.

E diveniamo indulgenti.

Santa e cara e gioconda virtù, che spande una luce rosea su tutto ciò che tocca: santa e cara e gioconda virtù, che ci fa simpatici a tutti dacchè tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, qualche piaga da nascondere, qualche difetto, di cui devono arrossire.

Noi abbiamo in orrore specialmente [p. 133 modifica] quei difetti, che feriscono il lato più sensibile dell’anima nostra e ci ribelliamo ad essi e vorremmo distruggere con il colpevole la macchia, che offende in noi il lato estetico o morale; ma l’esperienza ci ha dimostrato, che nè la ribellione, nè lo sdegno possono cambiare il carattere degli uomini, e al posto dello sdegno abbiamo messo con gli anni il compatimento; giudicando tutto e tutti con un’indulgenza grandissima.

Badate bene, che l’indulgenza non è rinunzia delle nostre convinzioni, nè mancanza di fede nel bene e nel male, nè scetticismo cinico. Indulgenza vuol dire bontà e giudizio fusi insieme; e la nostra dignità di galantuomini e di gentiluomini, non viene per essa ad abbassarsi di una linea; chè anzi ci innalza ad una sfera superiore. Chi perdona sta sempre più in alto di chi è perdonato; mentre chi disprezza e insulta, per disprezzare o insultare, deve scendere al livello del suo avversario.

Fra le tante virtù, che i cristiani hanno dovuto al loro Dio, forse la più bella è [p. 134 modifica] appunto quella della misericordia; parola alquanto mistica, ma che tradotta in lingua povera vuol dire una infinita indulgenza per tutte le umane debolezze, per tutti i peccati, che può commettere il fragile figlio di Adamo e di Eva. È vero, che l’invenzione dell’inferno ha sciupato alquanto l’idea divina di quella misericordia; ma parecchi teologi poco ortodossi, ma molto ragionevoli, hanno negato l’inferno, accontentandosi del purgatorio; e questo si può conciliare anche con la misericordia, visto che gli uomini non hanno nè limite nè creanza nel peccare e l’indulgenza eccessiva non deve poi esser più grande della facoltà infinita al peccare!

Anche all’infuori dell’indulgenza, che si esercita soprattutto nel campo morale e nel circolo della famiglia e degli amici, il vecchio è tollerante per tutte le opinioni; purchè non tocchino i dogmi dell’onestà e della dignità umana.

All’infuori di questo sancta sanctorum, che giovani o vecchi dobbiamo tutti [p. 135 modifica] dere e rispettare, il vecchio, che non ha più nè ciechi fanatismi, nè ardenti passioni, sa che tanto a sinistra come a destra e anche nel centro c’è del buono e c’è del vero, e pur conservando le proprie opinioni, rispetta le altrui.

Il giovane è apostolo, ed è bene che lo sia. Il vecchio è convertito da un pezzo ad una religione politica, etica e religiosa, che è sua e che non diserta più, pur senza avere la superbia di credersi infallibile e di giudicar sbagliate tutte le opinioni contrarie alla propria. C’è posto, egli dice, per tutti; per i codini e per i socialisti, per i cattolici e per gli atei. Tanto tanto dobbiam vivere gli uni accanto agli altri. Vediamo di viaggiare di buon accordo, tollerandoci a vicenda. Rispettiamo le nostre donne e i nostri averi, e basta.

All’apostolato poi il vecchio ha rinunziato da un pezzo. Crede poco alla sua efficacia e ha poco tempo da buttar via. Sulle conversioni politiche, morali, religiose è molto scettico e diffidente, e ne ha la stessa opinione che per l’onnipotenza dell’educazione. [p. 136 modifica]

Il nuovo lo interessa, si compiace dell’antico; ma soprattutto gode del presente, che assapora lentamente e con epicurea voluttà.

Il vecchio autocratico, codino, retrogrado, è o decrepito o malato. Concedo al vecchio d’essere conservatore: anzi è fisiologico, è naturale ch’egli lo sia, ma retrogrado mai.

Il vecchio sano nel corpo, nel cuore e nel pensiero, guarda all’avvenire colla stessa compiacenza con cui lo guardano il giovane e l’adulto. Soltanto è più prudente sui metodi per raggiungerlo: fors’anche l’avvenire ch’egli sogna e spera sarà un po’ diverso da quello che sogna e spera il giovane, ma anch’egli lo desidera più giusto e meno ipocrita.

Il vecchio liberale è uno dei tipi più simpatici, più cari della umana famiglia.

Quando vedo e ascolto un uomo, che con i capelli bianchi, parla con entusiasmo e con calda fede del progresso, del trionfo della verità giusta, della sana idealità contro la superstizione; io mi sento commosso e lo guardo con tenerezza piena [p. 137 modifica] di ammirazione. Provo la stessa alta emozione, che mi danno le alte cime delle Alpi, quando le indora il sole. Neve e ghiaccio sì, ma frementi anch’essi sotto il palpito di quel babbo celeste, che semina la vita sui suoi pianeti, dicendo a tutte le creature: avanti, avanti sempre!

Non ultima gioia della vecchiezza è la rispettabilità, che la circonda. Sia nei modesti travagli dell’officina o dei commerci, come nelle sfere più alte dell’arte, delle lettere, o delle scienze, o nelle svariate faccende delle professioni liberali; il vecchio deve essersi fatto un posto al sole, deve aver acquistato una certa superiorità, che gli viene dalla lunga pratica. Egli deve essere un maestro, e i francesi con fino accorgimento, con nessun’altra parola credono di onorare un grande artista o un grande scienziato, che chiamandolo mon cher maître.

E maître non si può essere quasi mai che con i capelli bianchi, maître non si può [p. 138 modifica] essere che dopo essere stati modesti operai in una delle tante officine del pensiero, dopo aver sudato e pianto sul calvario della gloria, provando e riprovando; alternando i sudori freddi del dubbio colla febbre ardente della fede.

E il maestro riposa ormai contento di sè e degli scolari che lo circondano e lo ammirano, e nei quali egli ha versato tanto tesoro di idee. Paternità sacra e veneranda più di quella che vien dal sangue, perchè nella coppa della vita non siamo noi soli i mescitori; ma nella scuola e nell’officina il maestro è in una volta sola padre e madre, genitore duplice e sempre legittimo.

In molti casi maestro è più che padre, e povero, infelice quel padre, che giunto alla vecchiaia e guardando i proprii figli, non può dire con giusto orgoglio e intima compiacenza:

Io sono stato il loro maestro!