Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Settimo

Capitolo settimo

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CAPITOLO VII

Nel quale madonna Fiammetta dimostra come, essendo un altro Panfilo, non il suo, tornato lá dove ella era, ed essendole detto, prese vana letizia, e ultimamente, ritrovando lui non esser desso, nella prima tristizia si ritornò.

Continuavansi le mie angoscie non ostante la speranza del futuro viaggio, e il cielo con movimento continuo seco menando il sole, l’uno di dopo l’altro traeva senza intervallo, e me in affanni e in amore non iscemante, in piú lungo tempo che io non volea mi tenne la vana speranza. E giá quello Toro che trasportò Europa1 tenea Febo con la sua luce, e li giorni alle notti togliendo luogo, di brevissimi, grandissimi diveniano; e il florigero Zefiro2 sopravvenuto, col suo lene e pacifico soffiamento aveva le impetuose guerre di Borea3 poste in pace, e cacciati del frigido aere li caliginosi tempi e dall’altezze de’ monti le candide nevi, e li guazzosi prati rasciutti dalle cadute piove, ogni cosa d’erbe e di fiori avea rifatta bella; e la bianchezza per la soprastante freddura del verno venuta negli alberi era da verde vesta ricoperta in ogni parte, ed era giá in ogni luogo quella stagione, nella quale la lieta primavera graziosamente spande in ciascun luogo le sue ricchezze, e che la terra di varii fiori, di viole e di rose quasi stellata, di bellezza contrasta col cielo ottavo4, e ogni prato teneva Narciso5; e la madre di Bacco6 giá aveva della sua pregnezza cominciato a mostrar segni, e piú che l’usato gravava il compagno olmo, giá da sé ancora divenuto piú grave per la presa vesta; Driope e le misere sirocchie di Fetone7 [p. 140 modifica] mostravano similmente letizia, cacciato il misero abito del canuto verno; li gai uccelli s’udivano con dilettevole voce per ogni parte, e Cerere negli aperti campi lieta venia con li frutti suoi. E oltre a queste cose, il mio crudel signore piú focosi faceva li suoi dardi sentire nelle vaghe menti, onde li giovani e le vaghe donzelle, ciascuno secondo la sua qualitá ornato, s’ingegnava di piacere all’amata cosa.

Le liete feste rallegravano ciascuna parte della nostra cittá, piú copiosa di quelle che non fu mai l’alma Roma, e li teatri ripieni di canti e di suoni invitavano a quella letizia ciascuno amante. Li giovani quando sopra li correnti cavalli con le fiere armi giostravano, e quando circundati da’ sonanti sonagli armeggiavano, quando con ammaestrata mano lieti mostravano come gli arditi cavalli con ispumante freno si debbano reggere. Le giovani donne, vaghe di queste cose, inghirlandate delle nuove frondi, lieti sguardi porgevano a’ loro amanti, ora dall’alte finestre e quando dalle basse porte, e quale con nuovo dono, e tale con sembiante, e tale con parole confortava il suo del suo amore; ma me sola solitaria parte teneva quasi romita, e sconsolata per la fallita speranza, de’ lieti tempi avea noia. Niuna cosa mi piaceva, nulla festa mi poteva rallegrare, né conforto porgere pensiero né parola; niuna verde fronda, niuno fiore, niuna lieta cosa toccavano le mie mani, né con lieto occhio le riguardava. Io era divenuta dell’altrui letizie invidiosa, e con sommo disiderio appetiva che ciascuna donna cosí fosse da Amore e dalla fortuna trattata come io era. Oimè! con quanta consolazione piú volte giá mi ricorda d’avere udite le miserie e le disavventure degli amanti nuovamente avvenute!

Ma mentre che in questa disposizione mi tenevano dispettosa gl’iddíi, la fortuna ingannevole, la quale alcuna volta per affliggere con maggior doglia li miseri loro nel mezzo dell’avversitá quasi mutata si mostra con lieto viso, acciò che essi piú abbandonandosi a lei caggiano in maggiore sconcio, cessando la sua letizia, li quali, se come folli s’appoggiano allora ad essa, cotale abbattuti si trovano, quale il [p. 141 modifica] misero Icaro8 nel mezzo del cammino, presa troppa fidanza nelle sue ali, salito all’alte cose, da quelle nell’acque cadde del suo nome ancora segnate; questa, me sentendo di quelli, non contenta de’ dati mali, apparecchiandomi peggio, con falsa letizia indietro trasse le cose avverse e il suo corruccio, acciò che, piú movendosi di lontano, non altramente che facciano li montoni africani per dare maggiore percossa, piú m’offendesse; e in questa maniera con vana allegrezza alquanto diede sosta alle mie doglie.

Essendo giá per ogni mese promesso troppo piú di quattro dimorato il poco fedele amante, avvenne che un giorno, dimorando io ne’ pianti usati, la vecchia balia, con passo piú spesso che la sua etá non prestava, tutta nel vizzo viso di sudore molle, entrò nella camera nella quale io era, e postasi a sedere, battendole forte il petto, negli occhi lieta, piú volte cominciò a parlare; ma l’ansietá del polmone precedente ogni volta nel mezzo le rompea le parole. Alla quale io piena di maraviglia dissi:

— O cara nutrice, che fatica è questa che t’ha cosí presa? Qual cosa disideri tu di dire con tanta fretta, che prima l’affannato spirito non lasci posare? È ella lieta o dolente? Apparecchiomi io di fuggire o di morire, o che debbo fare? Il tuo viso alquanto, non so di che né per che, rinverdisce la mia speranza, ma le cose lungamente state contrarie mi porgono quella paura di peggio che ne’ miseri suole capére. Di’ adunque tosto, non mi tenere piú sospesa: qual fu la cagione della tua rattezza? Dimmi se lieto Iddio, o infernal furia, qui t’ha sospinta. —

Allora la vecchia, ancora appena riavuta la lena, intrarompendo le mie parole, assai piú lieta disse:

— O dolce figliuola, rallégrati, niuna paura è ne’ nostri détti; gitta via ogni dolore, e la lasciata letizia ripiglia: il tuo amante torna. —

Questa parola entrata nell’animo mio súbita allegrezza vi mise, sí come li miei occhi mostrarono; ma la miseria usata in brieve la tolse via e nol credetti, anzi piangendo dissi: [p. 142 modifica]

— O cara balia, per li tuoi molti anni e per li tuoi vecchi membri, li quali ornai l’eterno riposo domandano, non ischernire me misera, li cui dolori in parte dovrebbero essere tuoi. Prima torneranno li fiumi alle fonti, ed Espero9 recherá il chiaro giorno, e Febea10 co’ raggi del suo fratello dará luce la notte, che torni lo ’ngrato amante. Chi non sa che egli ora ne’ lieti tempi, con altra donna, piú amando che mai si rallegra? Ove che egli fosse ora, si tornerebbe egli a lei, non che egli da lei si partisse per venir qua. —

Ma ella subito seguitò:

— O Fiammetta, se gl’iddii lieta ricevano l’anima di questo vecchio corpo, la tua balia di niente ti mente; né si conviene alla mia etá omai andare di cosí fatte cose nessuna persona gabbando, e te massimamente, la quale io amo sopra tutte le cose.

— Adunque, — dissi io — come è ciò pervenuto alle tue orecchie, e onde il sai? Dillo tosto, acciò che, se verisimile mi parrá, io mi rallegri della lieta novella. —

E levatami del luogo ove io stava, giá piú lieta m’appressai alla vecchia, ed ella disse:

— Io, sollecita alli fatti familiari, questa mattina sopra li salati liti, quelli eseguendo, andava con lento passo, e intenta sopra quelli dimorando con le reni al mare rivolta, uno giovane d’una barca saltato, sí come io vidi poi, disavvedutamente portato dall’impeto del suo salto, me urtò gravemente; per che io contra di lui gl’iddii scongiurando, crucciosa rivoltatami contra lui per dolermi della ricevuta ingiuria, egli con parole umili subitamente mi chiese perdono. Io il riguardai, e nel viso e nell’abito del paese del tuo Panfilo lo stimai, e dimandalo:

«— Giovane, se Iddio bene ti dia, dimmi, vieni tu di paese lontano?

«— Sí, donna, — rispose.

«Allora diss’io:

«— Deh, dimmi donde, s’egli è licito? —

«Ed egli: [p. 143 modifica]

« — Delle parti d’Etruria, e della piú nobile cittá di quella vengo, e quindi sono. —

Come io udii questo, d’una patria col tuo Panfilo il conobbi, e dimandailo se egli il conosceva, e che di lui era; e quegli rispose di si, e di lui molto bene mi narrò, e oltre a ciò disse che egli con lui ne sarebbe venuto, se alcuno picciolo impedimento non l’avesse tenuto, ma che senza fallo in pochi dí qua sarebbe. In questo mezzo, mentre queste parole avevamo, li compagni del giovane tutti in terra scesi con le loro cose, ed egli con esso loro, si partirono. Io, lasciato ogni altro affare, con tostissimo passo, appena tanto vivere credendomi che io te ’l dicessi, qui ne venni ansando, come vedesti, e però lieta dimora, e caccia la tua tristizia. —

Presila allora, e con lietissimo cuore baciai la vecchia fronte, e con dubbioso animo poi piú volte la scongiurai e dimandai da capo se questa novella vera fosse, disiderando che non il contrario dicesse, e dubitando che non m’ingannasse; ma poi che piú volte sé dire il vero con piú giuramenti m’ebbe affermato, benché ’l sí e ’l no, credendolo, nel capo mi vacillasse, lieta con cotali voci gl’iddíi ringraziai:

— O superno Giove, de’ cieli rettore solennissimo, o luminoso Apollo a cui niente s’occulta, o graziosa Venere pietosa de’ tuoi suggetti, o santo fanciullo portante li cari dardi, lodati siate voi. Veramente chi in voi sperando persevera, non può perire a lungo andare. Ecco che per la grazia di voi, non per li meriti miei, il mio Panfilo torna, il quale io non vedrò prima che li vostri altari, stati per addietro incitati per li miei ferventissimi prieghi e bagnati d’amare lagrime, d’accettevoli incensi saranno onorati, dandoli io. E a te, o Fortuna, pietosa tornata de’ miei danni, la promessa immagine testante li tuoi beneficii donerò di presente. Priegovi non per tanto con quella umiltá e divozione che piú vi puote esaudevoli rendere, che voi ogni accidente possibile a disturbare la proposta tornata del mio Panfilo sturbiate e togliate via, e lui sano e senza impedimento qui produciate, come egli fu mai. — [p. 144 modifica]

Finita l’orazione, non altramente che falcone uscito di cappello, plaudendomi, cosí a dire cominciai:

— O amorosi petti, lungamente da’ mali indeboliti, omai ponete giú le sollecite cure, poscia che ’l caro amante di noi ricordantesi torna come promise. Fuggasi il dolore, la paura e la grave vergogna nell’affiitte cose abbondante, né come per addietro la fortuna v’abbia guidati vi venga in pensiero, anzi cacciate via le nebbie de’ crudeli fati, e ogni sembiante del misero tempo da voi si parta, e torni il lieto viso al presente bene, e la vecchia Fiammetta della rinnovata anima del tutto si spogli fuori. —

Mentre che io cotali parole lieta fra me dicea, il cuore divenne dubbio, e non so onde né come tutta m’occupasse una súbita tiepidezza, che indietro tirò la volontá presta a rallegrarsi; per che quasi smarrita rimasi nel mezzo del mio parlare. Oimè! che questo vizio propriamente li miseri sèguita, cioè il non potere mai credere alle cose liete; e avvegna che la felice fortuna ritorni, non pertanto agli afflitti incresce di rallegrarsi, e quasi sognare credendosi, quella come non fosse usano mollemente; per che io fra me quasi come attonita cominciai:

«Chi mi richiama o vieta dalla cominciata allegrezza? Non torna egli il mio Panfilo? Certo sí: dunque chi mi comanda di piangere? Da niuna parte m’è ora giunta di tristizia cagione; ora adunque chi mi vieta d’adornarmi di nuovi fiori e delle ricche robe? Oimè! che io non so, e pur vietato m’è, né so da chi».

E cosí stando, quasi in me non fossi, intra li miei errori, non volendo io, da’ miei occhi caddero lagrime, e in mezzo le voci mie venne l’usato pianto; e cosí il lungamente afflitto petto ancora amava gli assuefatti lagrimari. La mente mia, quasi del futuro indovina, col pianto, di ciò che avvenire doveva mandò fuori aperti segni, per li quali io ora veramente conosco allora a’ navicanti grandissima tempesta essere apparecchiata, quando senza vento enfiano li mari tranquilli; ma pure, vaga di vincere quello che l’anima non voleva, dissi: [p. 145 modifica]

— O misera, quali annunzii, quali impeti, non bisognandoti, venturi t’infigni? Presta la credula mente a’ beni venuti: che che questo sia che tu t’annunzi, tardi temi e senza profitto. —

Adunque, da questo ragionare innanzi io mi diedi sopra la cominciata letizia, e li tristi pensieri, come potei, da me cacciai; e sollecitata la cara balia che intenta stesse della tornata del nostro amante, trasmutai li tristi vestimenti in lieti, e di me cominciai ad avere cura, acciò che da lui tornato per afflitto viso rifiutata non fossi. La pallida faccia cominciò a riprendere il perduto colore, e la partita grassezza cominciò a ritornare, e le lagrime, del tutto andate via, se ne portarono con loro il purpureo cerchio fatto d’intorno agli occhi miei; e gli occhi nel debito luogo tornati riebbero intera la luce loro, e le guancie per lo lagrimare divenute aspre si ritornarono nella prístina loro morbidezza; e li nostri capelli, avvegna che subitamente aurei non tornassero, nondimeno l’ordine usato ripresero; e li cari e preziosi vestimenti, lungamente senza essere stati adoperati, m’adornarono. Che piú? Io con meco insieme rinnovai ogni cosa, e nella prima bellezza e stato quasi mi ridussi tutta, tanto che le vicine donne, e li parenti, e il caro marito n’ebbero ammirazione, e ciascheduno in sé disse: «Quale spirazione ha di costei tratta la lunga tristizia e malinconia, la quale né per prieghi, né per conforti mai per addietro da lei si potè cacciar via? Questo non è meno che gran fatto»; e con tutto il maravigliare n’erano lietissimi. La nostra casa lungamente stata trista per la mia tribulazione, tutta meco ritornò lieta; e cosí come il mio cuore era mutato, cosí tutte le cose di triste in liete pareva che si mutassero.

Li giorni, che piú che l’usato mi pareano lunghi, per la presa speranza della futura tornata di Panfilo, trapassavano con passo lento; né piú volte furono li primi da me contati, che fossero quelli, ne’ quali io alcuna volta in me raccolta, alle preterite tristizie pensando e agli avuti pensieri, sommamente in me li dannava, cosí dicendo:

— Oh quanto male per addietro ho pensato del caro [p. 146 modifica] amante, e come perfidamente ho dannate le sue dimoranze, e follemente ho creduto a chi lui essere d’altra donna che mio m’ha detto alcuna volta! Maladette siano le loro bugie! O Iddio, come possono gli uomini con cosí aperto viso mentire? Ma certo dalla mia parte ciascuna di queste cose era da fare con piú pensato consiglio che io non faceva. Io doveva contrappesare la fede del mio amante tante volte a me promessa, e con tante lagrime e cosí affettuosamente, e l’amore il quale egli mi portava e porta, con le parole di coloro li quali senza alcuno saramento e non curantisi d’avere piú investigato, di quello che essi parlavano, che solamente il loro primo e superficiale parere; il che assai manifestamente appare: l’uno veggendo entrare una novella sposa nella casa di Panfilo, però che altro giovane di lui in quella non conosceva, non considerando alla biasimevole lascivia de’ vecchi, sua la credette, e cosí ne disse, a che assai appare lui poco di noi curarsi; l’altro, però che forse alcuna volta o riguardarlo, o motteggiarlo il vide ad alcuna bella donna, la quale per avventura era o sua parente o onestamente dimestica, sua la credette, e cosí con semplici parole affermandolo, gliele credetti. Oh se io avessi queste cose debitamente considerate, quante lagrime, quanti sospiri, e quanto dolore sarebbe da me stato lontano!

Ma qual cosa possono gl’innamorati dirittamente fare? Come gli émpiti vengono, cosí si muovono le nostre menti. Gli amanti credono ogni cosa, però che amore è cosa sollecita e piena di paura. Essi, per usanza continua, sempre s’adattano gli accidenti nocivi, e, molto disideranti, ogni cosa credono possibile ad essere contraria a’ loro disii, e alle seconde prestano lenta fede. Ma io sono da essere scusata, però che io pregai sempre gl’iddíi che me de’ miei disii facessero mentitrice. Ecco che le mie preghiere sono state udite: egli ancora non saprá queste cose, le quali se pure le sapesse, che altro se ne potrá per lui dire, se non «ferventemente m’amava costei»? E’ gli dovrá essere caro sapere le mie angoscie, e li córsi pericoli, però che essi gli fiano verissimo [p. 147 modifica] argomento della mia fede, e appena che io dubiti che egli ad altro fine sia dimorato cotanto, se non per provare se con forte animo, senza cambiarlo, lui ho potuto aspettare.

«Ecco che fortemente l’ho aspettato: dunque di quinci, sentendo egli con quanta fatica e lagrime e pensieri atteso l’abbia, nascerá amore e non altro. O Iddio, quando sará che egli venuto mi vegga, e io lui? O Iddio che vedi tutte le cose, potrò io temperare l’ardente mio disio d’abbracciarlo in presenza d’ogni uomo, come io primieramente il vedrò? Certo appena che io il creda. O Iddio, quando sará che io, nelle mie braccia tenendolo stretto, gli renda li baci, i quali egli nel suo partire diede al mio tramortito viso senza riaverli? Certo l’agurio preso da me del non potergli dire addio è stato vero, e bene m’hanno in quello gl’iddíi mostrata la sua futura tornata. O Iddio, quando sará che io le mie lagrime e le mie angoscie gli possa dire, e ascoltare le cagioni della sua lunga dimoranza? Vivrò io tanto? Appena che io il creda. Deh, venga tosto quel giorno, però che la morte, molto da me per addietro non solamente chiamata, ma cercata, ora mi spaventa: la quale, se possibile è che alcuno priego alle sue orecchie pervenga, la priego che, da me lontanandosi, col mio Panfilo li miei giovani anni in allegrezza lasci trascorrere. —

Io era sollecita che niuno giorno passasse che io della tornata di Panfilo non sentissi vera novella, e piú volte la cara balia sollecitai a ritrovare il giovane nunziatore della lieta novella, acciò che con piú fermezza si facesse accertare di ciò che detto m’avea, ed ella il fece non una volta sola, ma molte, e tuttavia secondo li procedenti tempi piú prossimana tornata mi nunziava. Io non solamente il tempo promesso aspettava, ma precorrendo innanzi, immaginava possibile lui essere venuto, e infinite volte il giorno, ora alle mie finestre, ora alla mia porta correva, in giú e in su riguardando per la lunga via, se io lui venire vedessi; né per quella di lontano vedeva alcuno uomo venire, che io non immaginassi possibile essere esso, e quello con disiderio aspettava infino a tanto che, fattomisi vicino, lui conosceva non essere desso; [p. 148 modifica] di che alquanto meco rimanendo confusa, agli altri, se alcuno ne veniva, attendeva, e ora questo e ora quello trapassando mi tenevano sospesa; e se forse io richiamata dentro in casa, o per altra cagione da me v’andava, come da infiniti cani fossi nell’anima addentata, mi stimolavano centomilia pensieri dicendo: «Deh! forse passa egli testé, o è passato mentre che tu a riguardare non se’ stata: ritorna». E cosí ritornava, e poi mi levava, e da capo vi ritornava a vedere, poco altro tempo mettendo in mezzo che ad andare dalla finestra alla porta, e dalla porta alla finestra. O misera me, quanta fatica per quello che mai avvenire non doveva, d’ora in ora aspettando, sostenni!

Ma poi che venne il giorno stato detto alla mia balia che egli dovea venire, il quale essa piú volte m’avea predetto, non altramente che Almena11 alla fama del suo venturo Anfitrione m’adornai, e con maestrissima mano niuna parte in me lasciai senza bellezza nell’essere suo; e appena mi pote’ ritenere d’andare a’ marini liti, acciò che io lui piú tosto potessi vedere, nunziandosi fermamente quelle galee giugnere sopra le quali la mia balia era stata accertata lui dovere venire; ma meco pensando la prima cosa la quale egli fará sará ch’egli mi verrá a vedere, per questo adunque raffrenai il caldo disio. Ma egli, sí come io immaginava, non veniva: ond’io oltremodo mi cominciai a maravigliare, e nel mezzo dell’allegrezza mi sursero nella mente varie dubitazioni, le quali non leggermente furono vinte da’ lieti pensieri. Rimandai adunque dopo alquanto la vecchia a sapere che di lui fosse, e se venuto fosse o no; la quale andatavi, per quel che a me paresse piú pigramente che mai, per la qual cosa piú volte maladissi la sua tarda vecchiezza. Ma dopo alquanto spazio ella a me ritornò con tristo viso e lento passo. Oimè! che quando io la vidi, appena vita rimase nel tristo petto, e subito pensai non morto nel cammino, o infermo venuto fosse l’amante. Il mio viso mutò mille colori in un punto, e fattami incontro alla pigra vecchia dissi:

— Di’ tosto: che novelle rechi tu? Vive l’amante mio? — [p. 149 modifica]

Ella non mutò il passo né rispose alcuna cosa, ma postasi nella prima giunta a sedere, mi riguardava nel viso; ma io giá tutta come novella fronda agitata dal vento tremava, e appena le lagrime ritenente, messemi le mani nel petto, dissi:

— Se tu non di’ tosto che vuole significare il tristo viso che porti, niuna parte de’ nostri vestimenti rimarrá salda: quale cagione ti tiene tacita, se non rea? Non la celare piú, manifestala, mentre che io spero peggio; vive il nostro Panfilo? —

Ella, stimolata dalle mie parole, con voce sommessa, mirando la terra disse:

— Vive. —

— Dunque — diss’io allora — perché non di’ tosto quale accidente l’occupi? Perché sospesa mi tieni in mille mali? E egli d’infermitá occupato? o quale accidente il ritiene che egli a vedermi della galea smontato non viene? —

Ed ella disse:

— Non so se infermitá o altro accidente l’occupa.

— Dunque — diss’io — non l’hai tu veduto, o forse non è venuto? —

Ella allora disse:

— Veramente l’ho io veduto, ed è venuto, ma non quello che noi attendevamo. —

Allora diss’io:

— E chi t’ha fatta certa che quegli che è venuto non sia desso? Vedestil tu altra volta, e ora con occhio chiaro il rimirasti?

— Veramente — disse ella — io nol vidi altra volta costui, che io sappia; ma ora, a lui venuta, da quello giovane menata che della sua tornata m’aveva prima parlato, dicendogli egli che io piú volte di lui avea dimandato, mi dimandò che dimandassi, al quale io risposi la sua salute; e dimandatalo io come il vecchio padre stesse, e in che stato l’altre cose sue fossero, e quale era stata la cagione di sí lunga dimora dopo la sua partita, rispose sé padre mai non avere conosciuto, però che postumo era, e che le sue cose, degl’iddii grazia, [p. 150 modifica] tutte prosperamente stavano, e che mai piú quivi non era dimorato, e ora intendeva di dimorarci poco. Queste cose mi fecero maravigliare, e dubitando non fossi gabbata, dimandai del suo nome, il quale egli semplicemente mi disse; il quale io non udii prima, che da somiglianza di nome me con teco conobbi ingannata. —

Udite io queste cose, il lume fuggí agli occhi miei, e ogni spirito sensitivo per paura di morte se n’andò via, e appena sopra le scale cadendo lá dove io era, tanta forza rimase in tutto il corpo che mi bastasse a dire oimè! La misera vecchia piagnendo, e l’altre servigiali della casa chiamate, me per morta nella trista camera sopra il mio letto portarono, e quivi con acque fredde rivocando gli smarriti spiriti, per lungo spazio credendo e non credendo me viva guardarono; ma poi che le perdute forze tornarono, dopo molte lagrime e sospiri, un’altra volta dimandai la dolente balia se cosí era come avea detto.

E oltre a ciò, ricordandomi quanto cauto essere solesse Panfilo, dubitando non egli si celasse dalla balia, con la quale mai non aveva parlato, aggiunsi che le fattezze di quel Panfilo, col quale ella era stata in ragionamento, mi dichiarasse. Ed essa primieramente con saramento affermandomi cosí essere come detto aveva, ordinatamente e la statura e le fattezze de’ membri, e massimamente quelle del viso e l’abito di colui mi dimostrò, li quali intera fede mi fecero cosí essere come la vecchia diceva. Per che, cacciata ogni speranza, rientrai ne’ primi guai, e levata, quasi furiosa, le liete robe mi trassi, e li cari ornamenti riposi, e gli ordinati capelli con inimica mano trassi dell’ordine loro, e senza niuno conforto a piangere cominciai duramente, e con amare parole a biasimare la fallita speranza e li non veri pensieri avuti dell’iniquo amante, e in brieve tutta nelle prime miserie tornai, e troppo piú fervente disio di morte ebbi che prima; né da quella sarei fuggita, come giá feci, se non che la speranza del futuro viaggio da ciò con forza non picciola mi ritenne.


Note

  1. [p. 212 modifica][Europa ]. Come detto è dinanzi, Giove trasmutato in forma di tauro la rapí, e da poi esso Giove trasmutò il tauro in segno celeste che si chiama Tauro nel quale il sole entra a mezzo aprile; e però dice qui venuta la primavera.
  2. [p. 213 modifica][Zefiro], Questo è uno vento dolce e soave che fa venire tutte le piante in frutto la primavera onde fanno li fiori; e però dice florigero.
  3. [p. 213 modifica][Borea], Questo è vento settentrionale freddissimo il quale fa il contrario di Zefiro che arreca le frondi agli arbori, e ’l detto Borea le fa cadere.
  4. [p. 213 modifica][al cielo ottavo]-, cioè l’ottava spera; secondo li filosofi e astrolaghi sono le stelle fisse, come noi vedemo.
  5. [p. 213 modifica][Narciso]. Come fu detto dinanzi s’innamorò di se medesimo ad una fonte e poi fu trasmutato in fiore.
  6. [p. 213 modifica][la madre di Bacco]-, come fu detto dinanzi, fu Semelé con la quale ebbe a fare Giove, onde nacque Bacco iddio del vino; ma qui tocca l’autore la veritá della finzione poetica, cioè che Semelé è la vite, e impregnandosi di Giove cioè dell’aere, fa al tempo le frondi e l’uve.
  7. [p. 213 modifica][le misere sirocchie di Fotone]. Fetone come fu detto dinanzi fu figliuolo di Climenes e di Febo, il quale perché steppe mal guidare il carro del sole, arse tutto il mondo ed esso cadde nel fiume che si chiama Po in Lombardia; e andandolo cercando la madre con le sue figliuole e sorelle del detto Fetone, le quali ebbero nome Fetusa e Iapece, arrivando sopra al detto Po trovando la sepoltura del detto Fetone, sopra essa faccendo gran lamento, per misericordia degl’iddii furono trasmutate in salci delli quali è gran copia sopra al fiume del detto Po.
  8. [p. 214 modifica][Icaro ]. Fu figliuolo di Dedalo; come fu detto dinanzi, uscendo del Laberinto per magisterio d’ale, cioè volando, volendo volare troppo alto, cadde in mare e annegò, e da poi fu chiamato dal suo nome il mare Icaro. Onde dice Ovidio:

    Tabuerant cerae: nudos quatit ille lacertos
    Remigioque carens non ullas percipit auras,
    Oraque caerulea patrium clamanti a nomen
    Excipiuntur aqua, quae nomen traxit ab ilio.

    [Met., VIII, 227-230.]

  9. [p. 213 modifica][Espero]. Secondo li strolaghi è stella in cielo la quale è chiamata ancora lucifer, e volgarmente è chiamata stella diana. Espcro è chiamata quando apparisce la sera cioè nel tempo dell’inverno; e che questa sia una medesima stella e abbia diversi nascimenti prova Virgilio (?).
  10. [p. 214 modifica][Febea]: Cioè la luna con li raggi del suo fratello, cioè del Sole; e però dice Febea che fu sorella di Febo.
  11. [p. 214 modifica][Almena]: fu moglie di Anfitrione il quale essendo andato a studio e dovendo tornare, essa per meglio piacere al suo marito si adornò nobilissimamente; e cosí fece Fiammetta quando le fu detto che il suo Panfilo tornava.