Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Terzo
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo Secondo | Capitolo Quarto | ► |
CAPITOLO III
Nel quale si dimostra chenti e quali fossero di questa donna i pensieri e l’opere, trascorrendo il tempo a lei dal suo amante promesso di ritornare.
Quale voi avete di sopra udito o donne, cotale, dipartito il mio Panfilo, rimasi, e piú giorni con lagrime di tal partenza mi dolsi, né altro era nella mia bocca, benché tacitamente fosse, che: «O Panfilo mio, come può egli essere che tu m’abbi lasciata?». Certo intra le lagrime mi dava tal nome, ricordandolo, alcuno conforto. Niuna parte della mia camera era che io con disiderosissimo occhio non riguardassi, fra me dicendo: «Qui sedette il mio Panfilo, qui giacque, quivi mi promise di tornare tosto, quivi il baciai io». E brievemente ciascuno luogo m’era caro. Io alcuna volta meco medesima fingeva lui dovere ancora, indietro tornando, venirmi a vedere, e quasi come se venuto fosse, gli occhi all’uscio della mia camera rivolgeva, e rimanendo dal mio consapevole immaginamento beffata, cosí ne rimaneva crucciosa come se con veritá fossi stata ingannata. Io piú volte per cacciare da me i non utili ragguardamenti cominciai molte cose a voler fare; ma vinta da nuove immaginazioni, quelle lasciava stare. Il misero cuore con non usato battimento continuamente m’infestava. Io mi ricordava di molte cose, le quali io gli vorrei aver dette, e quelle che dette gli aveva, e le sue ripetendo con meco stessa; e in tal maniera, non fermando l’animo a nulla cosa piú giorni mi stetti dogliosa.
Poi che la doglia gravissima per la nuova partenza incominciò per interposizione di tempo alquanto ad allenare, a me incominciarono a venire piú fermi pensieri; e venuti, se medesimi con ragioni verisimili difendevano. Egli, non dopo molti dí dimorando io nella mia camera sola, m’avvenne ch’io con meco a dir cominciai: «Ecco, ora l’amante è partito, e vassene; e tu, misera, non che dire addio, ma rendergli i baci dati al morto viso o vederlo nel suo partire non potesti; la quale cosa egli forse tenendo a mente, se alcuno caso noioso gli avviene, della tua taciturnitá malo agurio prendendo, forse di te si biasimerá». Questo pensiero mi fu nel principio nell’animo molto grave, ma nuovo consiglio da me il rimosse, perciò che meco pensando dissi: «Di qui non dée biasimo alcuno cadere, perciò che egli, savio, piuttosto il mio avvenimento prenderá in agurio felice, dicendo: «Ella non disse addio, sí come si suol dire a quelli, i quali o per lungamente dimorare o per non tornare si sogliono partire d’altrui; ma tacendo, me seco quasi riputando d’avere, brevissimo spazio disegnò alla mia dimora». E cosí, me con meco racconsolata, lascio questo andare, intrando in altri.
Alcun’altra volta con piú gravezza mi venne pensato lui avere il piè percosso nel limitare dell’uscio della nostra camera, sí come la fedele serva m’avea ridetto; e ricordandomi che a niuno altro segnale Laudomia prese tanta fermezza, quanta a cosí fatto del non redituro Protesilao, giá molte volte ne piansi, quello medesimo di ciò sperando che n è avvenuto. Ma, non capendomi allora nell’animo che avvenire mi dovesse, quasi vani cotali pensieri immaginai da dover lasciare andar via. I quali però non si partiano a mia posta, ma talvolta altri sopravvegnendone, questi m’uscivano di mente, pensando a’ giá venuti, i quali tanti e tali erano che di quelli il numero, non che altro, graverebbe a ricordarsi.
Egli non mi venne una volta sola nell’animo l’avere giá letto ne’ versi di Ovidio che le fatiche traevano a’ giovani amore delle menti, anzi mi veniva tante quante volte io mi ricordava lui essere in cammino. E sentendo quello non picciolo affanno, e massimamente a chi è di riposo uso, o il fa contro voglia, forte meco dubitava in prima non quello avesse forza di tôrlomi, e appresso non la invita fatica né il noioso tempo gli fossero cagione d’infermitá, o di peggio. E in questo molto mi ricorda piú che negli altri dimorare occupata, benché sovente io e dalle sue medesime lagrime da me vedute, e dalle mie fatiche, le quali mai non mutarono la mia fermezza, argomentai non potere essere vero, che per sí picciolo affanno si spegnesse amore cosí grande, sperando ancora che la sua giovane etá e la discrezione da altro accidente noioso me ’l guarderebbono.
Cosí adunque a me opponendo, e rispondendo, e solvendo, trapassai tanti giorni, che non che lui alla sua patria pervenuto pensai solamente, ma ancora ne fui per sua lettera fatta certa. La quale essendo a me per molte cagioni graziosissima, lui ardere come mai mi fece palese, e con maggiori promesse vivificò la mia speranza del suo tornare.
Da questa ora innanzi, partiti i primi pensieri, nuovi in luogo di quelli subitamente ne nacquero. Io alcuna volta diceva: «Ora Panfilo unico figliuolo del vecchio padre, da lui, il quale giá è molti anni nol vide, con grandissima festa ricevuto, non che egli di me si ricordi, ma io credo che egli maledice i mesi i quali qui con diverse cagioni per amor di me si ritenne; e ricevendo onore ora da questo amico e ora da quell’altro, biasima forse me, che altro che amarlo non sapea quando c’era. E gli animi pieni di festa sono atti a potere essere tolti d’uno luogo, e obbligarsi in un altro. Deh, ora potrebbe egli essere che io in cosí fatta maniera il perdessi? Certo appena che io il possa credere. Iddio cessi che questo avvenga; e come egli ha me tenuta e tiene, tra’ miei parenti e nella mia cittá, sua, cosí lui tra’ suoi e nella sua conservi mio». Oimè! con quante lagrime erano mescolate queste parole, e con quante piú sarebbono state, se vero avessi creduto ciò che esse medesime vero indovinavano, avvegna che quelle che allora non vennero, io poi in molti doppii l’abbia sparte invano.
Oltre a cotal ragionare l’anima, spesse volte conoscitrice de’ suoi futuri mali, presa da non so che paura, tremava forte, la qual paura piú volte in cotale pensiero si risolvette: «Panfilo ora nella sua cittá, piena di templi eccellentissimi e per molte grandissime feste pomposi, visita quelli li quali senza niuno dubbio trova di donne pieni, le quali sí come ho molte fiate udito, ancora che bellissime siano, di leggiadria e di vaghezza tutte l’altre trapassano, né alcune ne sono con tanti lacciuoli da pigliare animi quanto loro. Deh, chi può essere sí forte guardiano di se medesimo, dove tante cose concorrono, che, posto che egli pure non voglia, egli non sia almeno per forza preso alcuna volta? E io medesima fui per forza presa. E oltre a ciò le cose nuove sogliono piú che l’altre piacere. Adunque è leggier cosa che egli a loro nuovo ed esse a lui, e’ possa ad alcuna piacere, e a lui similmente alcuna piacerne. Oimè! quanto m’era grave cotale immaginare, il quale, che egli non dovesse avvenire, appena poteva da me cacciare, dicendo: «Or come potrebbe Panfilo, che te piú che sé ama, ricevere nel cuore da te occupato un altro amore? Non sai tu qui alcuna essere stata ben degna di lui, la quale con maggior forza che con quella degli occhi s’ingegnò d’entrarvi, né vi potè onde trovare? Certo appena, non essendo egli tuo sí come egli è, trapassando ancora qualunque donne si sono di bellezza e d’arte le dèe, egli che cosí tosto, come tu di’, innamorare si potesse. E oltre a questo, come credi tu che egli la fede a te promessa volesse rompere per alcun’altra? Egli nol farebbe giammai; e similemente nella sua discrezione ti dèi fidare.
«Tu dèi ragionevolmente pensare che egli non è sí poco savio, che egli non conosca che mattamente fa chi lascia quel ch’egli ha, per acquistare quello che non ha; se giá quello che lasciasse non fosse piccolissima cosa per acquistare una grandissima, e di ciò speranza avere infallibile; il che in questo non può avvenire, però che se tu hai il vero udito, tu saresti nel numero delle belle nella sua terra, la quale niuna piú ricca di te ne tiene o gentile; e oltre a questo, cui troverebbe egli, che sí amasse come tu l’ami? Esso, sí come in ciò esperto, conosce quanta fatica sia il disporre una donna, che di nuovo piaccia, a farsi amare, le quali, ancora che amino, il che di rado avviene, sempre il contrario mostrano di ciò che disiano. Egli, quando pure te non amasse, intorno a molte cose da altri suoi fatti impedito, non potrebbe ora vacare a dimesticare novelle donne, e però di ciò non pensare, ma tieni per certa regola, che quanto tu ami, cotanto se’ amata.»
Oimè! quanto falsamente argomentava, fatta sofistica contro al vero! Ma con tutto il mio argomentare mai non mi pote’ dell’animo cacciare la miserabile gelosia, entratavi per giunta degli altri miei danni. Ma pure, quasi veramente arguissi, alquanto alleviata, a mio potere da tale pensiero mi scostava.
Carissime donne, acciò ch’io non metta il tempo in raccontare ciascuno mio pensiero, quali le mie opere piú sollecite fossero ascolterete; né di ciò piglierete ammirazione, se furono nuove, perciò che non quali io l’avrei volute, ma quali Amore le mi dava, seguire le mi conveniva. Egli trapassavano poche mattine che io, levata, non salissi nella piú eccelsa parte della mia casa, e quindi non altramente che li marinari, sopra la gabbia del loro legno saliti, speculano se scoglio o terra vicina scorgono che gli impedisse, riguardo tutto il cielo; poi verso l’oriente fermata, considero quanto il sole, sopra l’orizzonte levato, abbia del nuovo giorno passato; e tanto quanto io il veggio piú innalzato, cotanto diceva piú il termine avvicinarsi della tornata di Panfilo. E quasi con diletto quello molte volte rimirava salire, né discernendolo, ora alla mia ombra fatta minore, e quando dallo spazio del suo corpo alla terra fatta maggiore, di lui la salita quantitá estimava, e meco stessa diceva lui piú pigramente che mai andare, e piú dare a’ giorni di spazio nel Capricorno che nel Cancro dar non solea; e cosí similmente lui al mezzo cerchio salito, dicea a diletto starsi a riguardare le terre, e quantunque egli velocemente si calasse all’occaso, sí mi parea tardo. Il quale, poi che tolta al nostro mondo la luce sua alle stelle la loro lasciava mostrare, io contenta molte volte meco i dí trapassati annoverando, quello con gli altri passati con una picciola pietra segnava, non altramente che gli antichi, i lieti dalli dolenti spartendo, con bianche e nere petruzze solevano fare. Oh quante volte giá mi ricorda che anzi tempo io lá vi giunsi, parendomi tanto del termine dato scemare, quanto piú tosto raggiungeva al trapassato, ora le petruzze per li passati segnate, e ora quelle, che per quelli che erano a passare stavano, annoverando; benché di ciascuna ottimamente il numero nella mente avessi, ma quasi ogni volta sperava l’une cresciute e l’altre dover trovare scemate. Cosí il disio mi trasportava volonterosa alla fine del tempo dato.
Usata adunque questa sollecitudine vana, il piú delle volte nella mia camera mi tornava, e quivi piú volentieri sola che accompagnata. Per fuggire i pensieri nocevoli, quando sola mi vi trovava, aprendo uno mio forziere, di quello molte cose giá state sue ad una ad una traeva, e quelle, con quello disiderio ch’io soleva giá lui riguardare, le mirava, e miratele, appena le lagrime ritenute, sospirando le baciava; e quasi come se intelligenti creature state fossero, le dimandava: «Quando ci fia il signor vostro?». Quindi, riposte queste, infinite sue lettere a me da lui mandate traeva fuori, e quelle quasi tutte leggendo, quasi con lui parendomi ragionare, sentiva non poco conforto. E molte volte fu che io, la mia serva chiamata, varii parlamenti con lei tenni di lui, ora dimandandola qual fosse la sua speranza della tornata di Panfilo, ora dimandandola quello che di lui le paresse, e talvolta se di lui avesse udito alcuna cosa. Alle quali cose essa, o per piacermi, o pure secondo il suo parere, il vero rispondendomi, non poco mi consolava; e cosí molte volte gran parte del dí trapassava con poca noia.
Non meno che le giá dette cose, o pietose donne, m’era caro il visitare li templi, e il sedere alla mia porta con le mie compagne, dove spesso da ragionamenti varii alquanto erano da me rimosse le mie sollecitudini infinite; nelli quali luoghi stando, piú volte m’avvenne che io vidi di quelli giovani i quali io molte volte con Panfilo avea veduti, né mai che io gli vedessi avvenia che io tra loro non mirassi, quasi tra essi dovessi Panfilo rivedere. Oh quante volte io fui in ciò avvedutamente ingannata! E come, ancora che ingannata fossi, mi giovava di loro vedere! Li quali, se il loro aspetto non mi mentiva io gli vedea della mia compassione medesima pieni, e quasi del loro compagno rimasi soli, mi pareano non cosí lieti come soleano. Oh, che voler fu piú volte il mio di dimandarli che fosse del loro compagno, se la ragione non m’avesse tenuta! Ma certo la fortuna in ciò alcuna volta mi fu benigna, ché, non credendo essi, di lui in alcuno luogo essere da me intesi, dissero la sua tornata essere vicina. Quanto ciò mi piacesse, invano mi faticherei ad esprimerlo. E in questa maniera con cotali pensieri, e con cosí fatte opere, e con molte altre a queste simili m’ingegnava di trapassare li giorni, a me nella loro picciolezza gravosi, la notte appetendo, non perché io a me piú utile la sentissi, ma perché, venuta, meno era del tempo a trapassare.
Poi che ’l dí, le sue ore finite, era dalla notte occupato, nuove sollecitudini le piú volte mi s’apprestavano. Io dalla mia puerizia nelle notturne tenebre paurosa, accompagnata da Amore era divenuta sicura; e sentendo giá nella mia casa ciascuno riposare, sola alcuna volta lá onde la mattina il sole montante avea veduto, me ne saliva, e quale Arunte1 tra’ bianchi marmi de’ monti Lucani i corpi celesti e i loro moti speculava, cotale io la notte lunghissime ore traente, sentendo alli miei sonni le varie sollecitudini essere nemiche, da quella parte il cielo mirava, e i suoi moti piú ch’altri veloci, meco tardissimi reputava. E alcuna volta vòlti gli occhi attenti alla cornuta luna, non che alla sua ritonditá corresse, ma piú aguta l’una notte che l’altra la giudicava, tanto era piú il mio disio ardente, che tosto le quattro volte si consumassero, che veloce il córso suo. Oh quante volte, ancora che freddissima luce porgesse, la rimirai io a diletto lunga fiata, immaginando che cosí in essa fossero allora gli occhi del mio Panfilo fissi come i miei! Il quale io ora non dubito che, essendogli io giá uscita di mente, non che egli alla luna mirasse, ma solo un pensiero non avendone, forse nel suo letto si riposava. E ricordami che io, della lentezza del córso di lei crucciandomi, con varii suoni, seguendo gli antichi errori, aiutai i córsi di lei alla sua ritonditá pervenire; alla quale poi che pervenuta era, quasi contenta dello intero suo lume, alle nuove corna non pareva che di tornare si curasse, ma pigra nella sua ritonditá dimorava, avvegna che io di ciò l’avessi quasi in me medesima talvolta per iscusata, piú grazioso reputando lo stare con la sua madre, che negli oscuri regni del suo marito tornare. Ma bene mi ricordo che spesso giá le voci in prieghi per li suoi agevolamenti usate io le rivolsi in minacce, dicendo:
«O Febea, mala guiderdonatrice de’ ricevuti servigi, io con pietosi prieghi le tue fatiche m’ingegno di menomare, ma tu con pigre dimoranze le mie non ti curi d’accrescere. E però, se piú a’ bisogni del mio aiuto cornuta ritorni, me cosi allora sentirai pigra, come io ora te discerno. Or non sai tu, che quanto piú tosto quattro volte cornuta, e altrettante tonda t’avrai mostrata, cotanto piú tosto il mio Panfilo tornerammi? Il quale tornato, cosí tarda o veloce come ti piace corri per li tuoi cerchi».
Certo quella demenza medesima che me a fare cotali prieghi induceva, quella stessa tolse sí me a me, che ella mi fece parere alcuna volta che essa temorosa delle mie minacce, s’avacciasse nel córso suo a’ miei piaceri, e altre volte, quasi non curantesi di me, piú che l’usato parea che tardasse. Questo riguardarla sovente me si nota del suo andamento rendeo, che ella né di corpo piena o vota, in alcuna parte era del cielo, o con qualunque stella congiunta, che io non avessi il tempo della notte passato, e l’avvenire giudicato dirittamente; similemente l’una e l’altra Orsa, se essa non fosse paruta, per lunga notizia me ne facevano certa. Deh, chi crederebbe che Amore m’avesse potuto mostrare astrologia, arte da solennissimi ingegni, e non da menti occupate dal suo furore? Quando il cielo, d’oscurissimi nuvoli pieno trascorso da varii e sonanti venti, per ogni parte questa veduta mi toglieva, alcuna volta, se altro affare non mi occorreva, ragunate le mie fanti con meco nella mia camera, e raccontava e facea raccontare storie diverse, le quali quanto piú erano di lungi dal vero, come il piú cosí fatte genti le dicono, cotanto parea che avessero maggior forza a cacciare i sospiri e a recare festa a me ascoltante, la quale alcuna volta, con tutta la malinconia, di quelle lietissimamente risi. E se questo forse per cagione legittima non potea essere, in libri diversi ricercando l’altrui miserie, e quelle alle mie conformando, quasi accompagnata sentendomi, con meno noia il tempo passava. Né so qual piú grazioso mi fosse, o vedere i tempi trascorrere, o trovarli, in altro essendo stata occupata, essere trascorsi.
Ma poi che le operazioni predette e altre me aveano per lungo spazio tenuta occupata, quasi a forza, assai bene conoscendo che invano, ancora me n’andava a dormire, anzi piuttosto a giacere per dormire. E nel mio letto dimorando sola, e da niuno romore impedita, quasi tutti i preteriti pensieri del dí mi venivano nella mente, e mal mio grado con molti piú argomenti e pro e contra mi si faceano ripetere, e molte volte volli entrare in altri, e rade furono quelle che io il potessi ottenere; ma pure alcuna volta, loro a forza lasciati, giacendo in quella parte ove il mio Panfilo era giaciuto, quasi sentendo di lui alcuno odore, mi pareva essere contenta, e lui tra me medesima chiamava e, quasi mi dovese udire, il pregava che tosto tornasse.
Poi lui immaginava tornato, e meco fingendolo, molte cose gli dicea, e di molte il dimandava, e io stessa in suo luogo mi rispondea; e alcuna volta m’avvenne che io in cotali pensieri m’addormentai. E certo il sonno m’era alcuna volta piú grazioso che la vigilia, perciò che quello che io con meco falsamente vegghiando fingeva, esso, se durato fosse, non altramente che vero mel concedeva. Egli mi pareva alcuna volta con lui tornato, vagare in giardini bellissimi, di frondi, di fiori e di frutti varii adorni, con lui insieme quasi d’ogni temenza rimoti, come giá facemmo, e quivi lui per la mano tenendo, ed esso me, farmi ogni suo accidente contare; e molte volte avanti che ’l suo dire avesse fornito, mi parea baciandolo rompergli le parole, e quasi appena vero parendomi ciò che io vedea, diceva: «Deh, è egli vero che tu sii tornato? Certo si è, io ti pur tengo». E quindi da capo il baciava. Altra volta mi pareva essere con lui sopra i marini liti in lieta festa, e tal fu che io affermai meco medesima, dicendo: «Ora pur non sogno io d’averlo nelle mie braccia». Oh, quanto m’era discaro quando ciò m’avveniva che ’l sonno da me si partisse! Il quale partendosi, sempre seco se ne portava ciò che senza sua fatica in’avea prestato, e ancora ch’io ne rimanessi malinconosa assai, non per tanto tutto il dí seguente bene sperando contentissima dimorava, disiderando che tosto la notte tornasse, acciò ch’io, dormendo, quello avessi che vegghiando aver non poteva. E benché cosí grazioso alcuna volta mi fosse il sonno, nondimeno non sofferse egli che io cotale dolcezza senza amaritudine mescolata sentissi, perciò che furono assai di quelle volte che egli il mi parea vedere in vilissimi vestimenti vestito, tutto non so di che macchie oscurissime maculato, pallido e pauroso, e come se cacciato fosse, inverso me gridare: «Aiutami». Altre, mi pareva udir parlare a piú persone della sua morte; e volta fu ch’io mel vidi morto davanti e in altre molte e varie forme a me spiacenti. Il che ninna volta avvenne che il sonno avesse maggiori le forze che il dolore; e subitamente risvegliata, e la vanitá del mio sogno conoscendo, quasi contenta d’avere sognato, ringraziava Iddio; non che io turbata non rimanessi, temendo non le cose vedute, se non tutte, almeno in parte fossero vere o figure di vere. Né mai, quantunque io meco dicessi, e da altrui udissi vani essere i sogni, di ciò non era contenta, se io di lui non sapea novelle, delle quali io astutissimamente era divenuta sollecita dimandatrice.
In cotal guisa, quale udito avete, i giorni e le notti trapassava aspettando. Vero è che, avvicinandosi il tempo della promessa tornata io estimai che utile consiglio fosse il vivere lieta, acciò che le mie bellezze, alquanto smarrite per l’avuto dolore, ritornassero ne’ loro luoghi acciò che egli tornando, io essendo sformata non gli potessi spiacere. E questo mi fu assai agevole a fare, però che il giá essermi negli affanni adusata, quelli con pochissima fatica portava, e oltre a ciò la propinqua speranza del promesso tornare con non usata letizia ogni di mi si faceva piú sentire. Io le feste non poco intralasciate, dando di ciò al sozzo tempo cagione, venendo il nuovo, ricominciai ad usare: né prima l’animo da gravissime amaritudini ristretto si cominciò in lieta vita ad ampliare, ch’io piú bella che mai ritornai; e li cari vestimenti e li preziosi ornamenti, non altramente che il cavaliere per la futura battaglia risarcisce le sue forti armi dove bisogna, li feci belli, acciò che in quelli piú ornata paressi nel suo tornare, il quale io invano e ingannata aspettava.
Adunque, sí come gli atti si tramutarono, cosí si fecero i miei pensieri. A me il non averlo nel suo partir veduto, né il tristo agurio del piè percosso, né le sostenute fatiche di lui, né li dolori ricevuti, né la nemica gelosia piú nella mente venivano, anzi giá forse a otto dí alla sua promessa vicina, fra me diceva:
«Ora al mio Panfilo rincresce l’essere a me stato lontano, e sentendo il tempo vicino a ciò che promise, di tornar s’apparecchia; e forse ora, lasciato il vecchio padre, è nel cammino». Oh quanto m’era cotal ragionare caro, e quanto sopr’esso volentieri mi volgeva, molte volte entrando in pensiero con che atto a lui piú grazioso mi dovessi ripresentare! Oimè! quante volte dissi:
«Egli fia nella sua tornata da me centomilia volte abbracciato, e i miei baci multiplicheranno in tanta quantitá, che niuna parola intera lasceranno della sua bocca uscire; e in cento doppii renderò quelli che esso, senza riceverne nullo, diede al tramortito viso».
E nel pensiero piú volte dubitai di non poter raffrenare l’ardente disio d’abbracciarlo, quando prima il vedessi innanzi a qualunque persona. Ma a queste cose provvidero gl’iddíi per modo a me notevole piú che troppo. Io ancora nella mia camera stando, quante volte in quella alcuna persona entrava, tante credeva che venuta mi fosse a dire: «Panfilo è venuto». Io non udiva voce alcuna in alcun luogo, che io con gli orecchi levati non le raccogliessi tutte, pensando che di lui tornato dovessero dire. Io mi levai, credo, piú di cento volte giá da sedere correndo alla finestra, quasi d’altro sollecita, in giú e ’n su rimirando, avendo prima a me medesima pensando scioccamente fatto credere: «Egli è possibile che Panfilo ora venuto ti venga a vedere». E vano ritrovando il mio avviso quasi confusa dentro mi ritornava. Io dicendo che esso alcune cose dovea al mio marito recare nella sua tornata, spesso e se venuto fosse, o quando s’aspettasse e dimandava e facea dimandare. Ma di ciò niuna lieta risposta mi pervenia, se non come di colui che mai piú venire non dovea, se non come ha fatto.
Note
- ↑ [p. 187 modifica][e quale Arunte]. Arunte secondo che pone Lucano fu grandissimo astrolago il quale per contemplare meglio il cielo delle stelle stava nelli monti della cittá dove fu Luni, e che sono in quello di Lucca dove si cava il marmo bianco. Esso essendo in questi monti, predisse la battaglia di Cesare e di Pompeo, che fu in Tessaglia.