Edmenegarda/Canto quinto
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CANTO QUINTO
Deh, venitemi intorno, estri gentili
della terra del Sol, dalle gioconde
belle odalische, voluttá promessa
del paradiso; e freman le ricurve
5arpe, miste al romor delle fontane
correnti in letto di corallo e perle;
e della mesta Rosellana al canto
dall'ardue torri lo stambúl risponda,
mentre scherzano i silfi entro al fogliame
10delle mistiche palme, e i flessuosi
giovinetti rosai dell’Ellesponto
levano un nembo di celesti odori!
Deh, venitemi intorno, innamorate
fantasie di quei cieli, a consolarmi
15la mente e il carme, per sí lungo pondo
di dolor contristati!
Io cosí prego;
ma renitenti alle invocate gioie
non rispondon le corde, e dalla triste
anima il vivo imaginar dilegua.
20Alla fuggente prora apresi il mare.
Cosí fuggisser le memorie infami,
che lasciasti, o Leoni, avvinte al lido!
Altri, cui tocca la pietá profonda
della misera donna, a te daranno
25di tristissimo il nome; altri, cui l’uso
d’abbandonar necessitá crudele
fe’ parer l’abbandono, un motto appena
sibileran dai labbri, e sará incerto
se sia pietate o scherno, o indifferente
30rumor di voce che col vento passa :
pochi dal cor sospireran tacendo,
pochi tremanti della propria polve,
che il giudicio dell’uom lasciano a Dio.
Quando si seppe di quel novo caso,
35misto a vili racconti, onde sul capo
d’Edmenegarda ripiombâr gli oltraggi,
in ferite s’aperse, e grondò sangue
l’anima altèra, affettuosa e degna
di quel misero Arrigo.
Egli, tradito,
40privo per lei delle piú sante gioie
che dispensa la vita, accompagnato
da perenni vergogne, egli l’amava...
Ancor l’amava! Era la sua fanciulla.
Vista sí bella sulle consce rive
45del Tagliamento; era la dolce amica
del segreto suo talamo; la madre
di quei due fanciulletti, ultimo bene
ch’egli avesse nel mondo; or cosí sola,
cosí deserta, e misera, e percossa
50dalla terra e da Dio!
Battea d’acerba
gioia e d’orrido affanno il cor d’Arrigo
confusamente, e prorompea:
— Son giunti
questi giorni una volta! Edmenegarda,
li volesti, e son giunti; e non è dritto
55che nessun te li tolga. Il lutto e l’onta
nella mia casa hai seminato; or cogli,
cogli, ché è tuo, di quella dura pianta
il durissimo frutto. Oh pienamente
vendicato son io; ma troppo, ahi! costa
60quest’amara vendetta. E chi sa come,
come, adesso, ai fuggiti anni ella pensa!
Quante lacrime sparge; ed una mano
non aver che le terga, ed una voce
non udir che la chiami e la consoli!
65Povera infortunata! Io, che dovrei
maledirti, obliarti, io sento il peso
de’ tuoi dolori, io solo! Oh questo pianto,
che frenai da gran tempo, uopo è che scorra.
Cosi bastasse! —
E in furiosi e torvi
70pensamenti quel suo spirito errava
dietro al vil fuggitivo; ed arrivarlo
avria voluto, e dirgli: — Hai lacerato
la vita mia; quel vago fior m’hai tolto,
l’hai lasciato languir; perfido! rendi
75conto col sangue. —
E, l’aspre alle dolenti
cose mescendo, rasciugava gli occhi,
che tornavan per forza a inumidirsi,
e divorava i fremiti, e in disparte
torceva il capo. E que’ suoi due angioletti,
80quasi con senso di pietá celeste,
senza parole, gli piangean da lato.
Ma una piú tetra e desolata stanza,
e ben diversa dal palagio antico,
d’ombre s’avvolge, e da quell’ombre un cupo
85gemito insorge, e in una febbre ardente
trangoscia un core che morir non puote.
E tra due mani discarnate e stanche
langue il lavoro, sovra cui s’incurva
la debil vita a guadagnarsi il pane.
90O Edmenegarda, in cosí verde etade,
orinai per te sí miserabil fatta,
che la stessa Pietá non ha piú accento
per consolarti! Orribili pensieri
ti si volgono in mente, e a quando a quando
95incapace ti senti a soggiogarli:
sí turbinosi assalgono.
Infelice!
Da quell’orlo sacrilego rimovi
gli ammaliati sguardi. All’acre punta
di quel pugnal non accostarti. Il nappo,
100che cercavi di mescere, percoti
alla parete; ché dei tanti falli
sepolcro infame una viltá non sia.
Ed ella veramente era tentata
di finir quegli spasimi. Ma il forte
105pensier de’ figli, e una continua speme
che il digiuno e la febbre avria consunto
quelle estreme reliquie, e il provvidente
terror di Dio nel comparirgli innanzi
cosí com’era, e non chiamata, un freno
110posero a quella bramosia di morte.
Ma, per quanto ella di pregar tentasse,
piú pregar non sapeva. Era la sua
vita un torbido mar, corso dai nembi,
senza un filo di luce.
A lui pensava,
115che credea d’obliar; pensava a un altro,
che obliar non poteva; e, con veloce
ricordanza crudele e detti e sguardi
ricomponendo e patimenti e gioie,
stupida e lassa al suo lavor tornava.
120Degli aurei fregi e delle ricche vesti
non possedea piú nulla: in sacrificio
lieto le offerse, a liberar le fedi
da Leoni tradite. E dopo tanto
e sí intenso patir, venne quel giorno
125aspettato e terribile, che all’opra
cadder le membra, e il cibo, che non manca
al piú mendico, le mancò. Soccorsi
limosinar dal mondo? Oh! pria di larlo
era meglio morir. Morir non era
130la gioia sua?
Ma la mordente fame
vinse i fieri proposti; e, ripensando
che del molto fallir pena e riscatto
esser potea la vita, ella ne volle
trangugiar l’amarezza insino al fondo;
135e, offenditrice, il pan del pentimento
dimandar dall’otfeso.
— Alle sue soglie
ben mi sta ch’io ritorni: ei cosí smunta
mi vedrá, cosí debole alla terra
curvata e supplicante! Io fui la dolce
140compagna sua! Gli parlerò d’un tempo,
ai nostri cuori memorabil troppo.
Non dirò nulla; piangerò. Che importa,
se quel mio Arrigo io non potrò guardarlo?
Parole acerbe ei mi dirá; ma, al prezzo
145di risparmiar nuovi peccati, il pane
non vorrá rifiutarmi. Io non gli chiedo
altro che il pane! —
Alla piú dura croce
oggi la miseranda anima è posta.
Ben merita, o Signor, quando ella giunga
150nel tuo cospetto, che, coi tanti giorni
di spavento e di colpa, anche quest’ora
ella trovi notata.
In ampio velo
chiuse la fronte, e con gli sguardi a terra
sforzatamente a quella volta mosse.
155Dopo quattr’anni ripassò per vie
non obliate! da lontan scoperse
quella dimora! entrò per quella soglia!
quelle mura conobbe! ad ogni sguardo
una fiera memoria! ad ogni passo
160un sorvenire, un assalir d’affetti,
un acceso disordine, un tumulto
vertiginoso! Entrata era felice;
n’uscia reietta; vi tornava quasi
moribonda di fame. Il cor materno
165si dilatava, si stringea, spirando
l’aura spirata da’ suoi dolci figli;
e cosí a stento, finalmente venne
alle stanze d’Arrigo.
In fondo egli era,
solo e pensoso. Alzò gli sguardi e vide...
170e credea d’ingannarsi; e, in piè balzando,
un tremito contenne, immobil stette.
E la guardò.
La misera prostrata
gli era davanti ad aspettar.
— Chi siete?
Che cercate da me? —
Levò tremando
175Edmenegarda la consunta faccia,
e — Guardatemi! — disse. — Un dolce nome
io portava una volta; a voi dinanzi
piú recar nol poss’io!... Ma ho fame, Arrigo!
Sí, guardatemi!... ho fame!
— Ah! che i sepolti
180non han piú desidèri; ed è gran tempo
ch’ella è sotterra, e disertati e soli
qui restiam noi. Vedete quelle stanze?
Lá mi venne rapito, ahi ! cosí presto
quel mio tenero fiore. E questi cari...
185li vedete?... Appressatevi, infelici
orfani miei! —
La disperata madre
stese le braccia; ma li strinse Arrigo
forte sul petto, come per salvarli
da quell’amplesso.
— Sono miei! Non sono
190d’altri che miei! Partitevi: alle vostre
gioie fate ritorno; e non turbate
questa dimora ove obliar si tenta. —
Cosí dicendo, e accortosi che i figli
eran vicini a rannodar le sparse
195reminiscenze dell’amato aspetto,
li strappò seco; e si perdea nel vuoto
aere il romor dei concitati passi.
Quella larva s’alzò; segno non fece;
non proferse parola; uscí piú ratta,
200qual s’ella avesse il suo vigore antico.
Gelido un riso le movea dai labbri;
sotto l’urto precipite del sangue,
non vedea piú le cose; e camminava,
camminava convulsa e strascinata
205da un’orribile idea.
Vide una striscia
d’acque terse e lucenti. Era il canale,
la mèta sua. Con un’ebbrezza intensa
girò lo sguardo, misurò quell’acque,
doppiò le forze, si cacciò sull’orlo,
210v’inarcò la persona... e giá il mortale
tratto mancava. Quando ai disperati
occhi una luce balenò; dischiusa
vede una bianca soglia; ode un soave
salmodiar di voci; un infinito
215scoramento la vince; una speranza
vien come lampo: quel disegno orrendo
torna, cede, rincalza, è dileguato!
Inneggiate, o celesti! Elia è nel tempio
col suo dolce Pastor l'agna perduta;
220rifiutata dal mondo, ella è raccolta
nelle braccia di Dio.
Godi, infelice,
questo bene supremo. Ogni vivente,
ch’oggi stolto scendesse a contristarti,
senza misura irriteria l’Eterno.
225E lá, dinanzi al piú remoto altare,
non turbata pregò; pregò pei figli,
per Arrigo, per sé, per quel ramingo
ch’era lunge, per tutti; e, non potendo
quel ramingo scordar, chiedea dal cielo
230che gli desse fortuna; indi pentita,
il periglio sentía di quella prece;
e, pensando ad Arrigo, in sé chiudendo
qualche rancor pel rifiutato pane,
non finiva di piangere, e col pianto
235dimandava che Dio le perdonasse.
Indi, tornata alle deserte case,
trovò dell’oro. Il generoso ignoto,
arrossendo, conobbe.
— Or dunque estinta
son io per lui, senza riparo? Estinta
240sarò per tutti. —
Ma venía frequente
quell’amor tenebroso a conturbarla,
e pensava al lontano, e aver novelle
pregava sempre, e sempre era delusa.
Piú sperar non volea; dopo un istante
245ritornava a sperar.
Misera! acqueta
la tormentata anima tua; da lui,
se ti è concesso, ogni pensier distogli.
Amor che nasce e si matura in colpa,
che col rimorso e col terror s’annoda,
250senza voto né legge, infausto fiore,
lungamente non dura. Aprir le foglie
alla vampa del sol, chiuderle ai baci
rugiadosi dell’alba, abbandonarle
non vigilate ai venti, ed una sera
255inchinarsi e morire, ecco la sorte
di quell’infausto fiore.
Egli, il cui nome
t’è rimprovero al cor, d’ogni allegrezza
essiccate ha le fonti, e intensi amori
piú custodir non puote. Egli oggi oblia
260quel che ieri adorava, ed oggi adora
quel che domani oblierá.
Malvagia
e steril landa è di costor la vita.
Solitari la passano; e l’estrema
necessitá di morte li sorprende
265nudi d’affetto; e non han figli o sposa,
non un caro superstite, che doni
lagrimando alle fredde ossa una croce!
Edmenegarda umiliar la fronte
tra le genti non seppe. E se talvolta
270qualche compagna dei giocondi tempi
spiò da lunge, in altra parte mosse
delicata e superba.
Uscian le turbe
agli allegri tumulti? Ella nell’orto
restava, ore con ore, contemplando
275una viola del pensier, diletto
fiorellin ad Arrigo. O di feroci
note di sdegno o d’armonie d’amore
sonavano i teatri? Ella con mesta
voce sommessa modulava un canto,
280che ad altri tempi in calda estasi Arrigo,
Arrigo suo rapí. Poi, quando i raggi
languían nell’occidente, e qualche stella
scintillava nel ciel, sulla solinga
finestretta venía guardando al mare;
285perché ogni sera alla medesim’ora
una barca radea l’eremo lido,
non a’ suoi dolorosi occhi straniera.
Ella da lunge la vedea sull’acque
avvicinarsi, le tremava il core,
290le rivolgea qualche romito accento,
la seguía sospirando; insin che il breve
suo fanaletto si perdea tra l’ombre.
Un dí, scendendo a visitar nell’orto
quella viola del pensier, curvata
295sul tenue gambo e pallida la vide
presso a esalare i moribondi incensi
nell’etere materno. Anche quel caro
memore fior languiva! Al vedovato
vasellino lo tolse, in cor pensando
300di lasciarlo cader sull’aspettata
navicella fuggente.
— O tu, pietoso
messaggio almen, sulla corolla estinta
recherai loro questi caldi baci! —
Aspettando ella sta. Che roseo sogno
305le si dipinge nel pensier! Non sempre
volgon dure le sorti, e il duolo in parte
fu riscatto alle colpe, e la memoria
di quel lontan si discolora e passa.
Chi sa che un giorno la pietá non parli
310all’anima d’Arrigo, ed ei non voglia
dimenticar, e le riapra il seno,
e monda dalle lacrime la chiami
novellamente sua! Dio, che perdona
piú che l’uom non fallisca, eternamente
315lascerá l’odio nella sua fattura?
Aspettando ella sta. L’acume intende
delle pupille ad esplorar le vaghe
lontananze; non ode urto di remo.
L’ora è trascorsa; ancor silenzio. Addoppia
320gli occhi e l’udito; e il navicel non giunge.
Ahi! la viola del pensier, funesto
vaticinio è di mali.
Una pedata
ode; si volge; un sigillato foglio
le si reca; lo guarda, impallidisce;
325la man d’Arrigo lo vergò; tremante
l’apre e vi legge... Misera! dagli occhi
quante lacrime ancor ti gronderanno!
«Edmenegarda! I tuoi miseri falli
rimetta Iddio! Ma non sperar parole
330di perdono da me. Tu mi rapisti
tutte le gioie; maledir m’hai fatto
questa tua bella Italia, ov’io sperava
viver lieto e morir; privi di madre
tu rendesti i miei figli. Alla natale
335Inghilterra io mi reco a seppellirvi
il dolor, se m’è dato; e pensa come
lieta avrò l’alma nell’udir taluno
che di te mi dimandi. Ahi! sará duro
il dover dirgli: — La mia donna è morta. —
340E quando il guardo io volgerò dagli erti
miei colli al sito ove si spande questa
terribil terra, imagina se gli occhi
avrò giocondi! Oh sí, fibra per fibra
tu m’hai lacero il core, e piú non posso
345parlar di pace. Ma per tutti un’ora,
Edmenegarda, arriva; ed io la sento
piú di tutti vicina. All’appressarsi
di quell’ora di Dio, fuggon dall’alma
i corrucci e le offese, e bisognosi
350di perdono siam tutti. O Edmenegarda,
spera in quell’ora. Io non dimando al cielo
che d’obliar, di crescermi vicini
sempre i miei figli, e sostenere in pace
le agonie della morte... e perdonarti!».
355Di man le cadde il foglio; alla parete
s’appoggiò; le grondò larga una stilla
giú pel pallor del volto, e senza speme
tra le genti si vide; e allor l’acerba
coppa sentí d’aver vuotato intera.
360Sí! la vuotasti. Ma il divino Amico
ti vestí di coraggio, e del tuo lungo
patir l’offerta, festeggiando, accetta.
Sola e pensosa il cammin novo imprendi,
come chi parta da dilette cose
365per un lungo viaggio.
Incontrerai
sterpi e tenebre e gel; ma non ti colga
scoramento né téma!
In lontananza
s’apre una dolce, una serena plaga,
dove la pace i combattuti accoglie
370come una madre, e della vita il sogno
lene si solve in una santa luce.