Edipo Coloneo (Sofocle - Giusti)/Atto primo/Scena VI
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SCENA VI.
ISMENE e detti.
ismene.
O dolcicissimi nomi
Di padre, e di sorella! In quanti affanni
Io vi ritrovo!
edipo.
O figlia, e tu pur meco?
ismene.
O Padre miserabile a vedersi!
edipo.
O nata meco dello stesso mio
Sangue!
ismene.
O latte infelice che ne crebbe!
edipo.
E tu giungesti pur?
ismene.
Non senza stento.
edipo.
Stringimi, o cara.
ismene.
A un tempo stesso due
Ne stringo.
edipo.
Questa, e me pur, non è vero?
ismene.
Ed io terza fra due miseri.
edipo.
Dinne
A che venisti, o figlia?
ismene.
A prender cura
Di te, padre.
edipo.
E me dunque bramavi
Vedere?
ismene.
A disvelarti alte novelle
Quì mi recai col mio servo fedele.
edipo.
E qual menano vita gli odìosi
Fratelli?
ismene.
Or son nelle paterne case;
Ed ora dove reo destin li tragge.
edipo.
Come l'indole lor ben si conforma
Co’ molli Egiziani! i quai, sebbene
Del miglior sesso, seggon per le case
Tessendo tele, e ne van fuor le donne
Per alimento della vita; e a voi
Tocca, o mie figlie, ad affrontar fatiche,
Mentr'essi badan quasi verginelle
Entro le stanze. Voi, la mia cagione,
In vece lor siete in disagio. — Antigone
Sua dura vita cominciò dal punto
Che la sua bocca si spiccò dal latte:
E appena il corpo le si fè robusto
Me seguì sempre nell’esilio mio,
E me digiuna per selvagge selve
Veglio infermo guidò scalza durando
Alla ferza del sole ed alle pioggie,
Posti gli agi domestici in oblìo,
Per cercar vitto al padre. E tu, mia figlia
Ismene, di nascosto de’ Tebani,
A recarmi or quì vieni i vaticìni
Su questo corpo pronunciati, e, quando
Io fui divelto dalla patria terra,
Scorta pietosa mi ti festi e fida.
Ed or che rechi al padre tuo? Qual forza
Te, lontanar potè di nostre case?
Non è senza cagion la tua venuta,
Certo ne son, tu vieni annunziatrice
Di non grate novelle
ismene.
Io non vo’ dire
Quanta pena durai per rintracciarti:
Che si rinova il già passato affanno
Rammemorando; ben vo’ dirti or cose
Orribili de’ tuoi miseri figli.
Primamente fra lor sano consiglio
Stimaro di lasciar Creonte in trono;
Nè la città contaminar, membrando
La macchia dell’antica origin loro.
Macchia, che tutta per la sciagurata
Tua stirpe si diffuse. Ora agitati
Da qualche avverso Nume, o da funesta
Cupidigia si fan novella guerra,
Onde il regno occupare. Ed il minore
Nato rapisce al maggior nato il soglio;
E della patria il caccia. Polinice,
Come suona la fama, esul si reca
D’Argo alle mura; e là nuovi di sangue
Legami stringe, e si fa nuovi amici,
Onde affligger di dure aspre percosse
I Tebani, e acquistar nome di forte
Vincendo. — Non son queste, o padre mio,
Vane voci ma fatti. Quando poi
De’ Numi la pietà voglia por fine
A tanti mali tuoi lo ignoro.
edipo.
E pensi,
Che una volta di me di mia salvezza
Avran cura gli Dei?
ismene.
Per fermo il tengo,
Anzi ten reco i vaticinj.
edipo.
E quali?
Parla; mi svela i lor responsi, o figlia.
ismene.
Tempo è vicin, che i Tebani terranno
Gran beneficio averti o vivo, o estinto.
edipo.
E che sperar da un tanto sventurato?
ismene.
Dicon: che lor fortezza in possederti
Sarà riposta.
edipo.
In possedermi? E come
S’io non sono più nulla?
ismene.
I Numi stessi,
Che ti prostraro in prima, insino al cielo
T’innalzeranno.
edipo.
Rialzare un vecchio,
Che giovin cadde, inutil opra.
ismene.
Eppure
Sappi, che, a quest’effetto, a te fra poco
Verrà Creonte.
edipo.
E a che?
ismene.
Per ritenerti
In sul confin di Tebe, e impadronirsi
Di te chè nol trapassi.
edipo.
E ciò che importa?
ismene.
San che in terra straniera il tuo sepolcro
Lor sarebbe funesto.
edipo.
E senza un Nume
Chi può questo saper?
ismene.
Voglion fermarti
Al confine di Tebe onde signore
Tu non sia di te stesso.
edipo.
E copriranno
Forse quest’ossa di tebana polve?
ismene.
Lo vieta il sangue che versasti.
edipo.
Mai
Non avran dunque questo corpo.
ismene.
A Tebe
Grave un giorno ciò fia.
edipo.
Chi potrà tanto?
ismene.
L’ira tua quand’avrai straniera tomba.
edipo.
E donde il sai?
ismene.
Da que’, che fer ritorno
Dagli altari di Delfo.
edipo.
E queste cose
Di me Febo predisse?
ismene.
Appunto.
edipo.
E alcuno
De’ miei figli le seppe?
ismene.
Ambi le sanno.
edipo.
Le san perfidi! e il regno osan preporre
Al genitor?
ismene.
Duro è l’udirlo; pure
Lo dei soffrir.
edipo.
No no la fatal lite
Non estinguano i Numi: a me sia dato
A me solo por fine all’aspra guerra
Onde sono in furore e vibran l’asta!
Quel d’essi, che in man stringe ora lo scettro,
Più nol sostenga; e l’altro ora in esiglio,
Non rivegga più Tebe. Essi me padre
Della patria proscritto indifferenti
Videro; ed, anzi che tenermi in seggio,
E vendicarmi, mi cacciar lontano,
Empj! ei medesmi e mi gridar bandito.
Diran: che la città quel ch’io bramava
Mi concedette, non è ver; ben vero
È che in que’ primi miei giorni funesti
Che il caldo animo mio bolliva, e dolce
M’era il morire, e vittima restarmi
Sotto lanciati sassi, alcun non venne
Ad appagar mia brama. E, quando poi
Dell’alma mia le angosce e le fatiche
Eran posate, e l’ira mia, tant’oltre
Corsa, mostrommi, ch’io de’ falli miei
M’era punito largamente, allora
A me grave d’etade i cittadini
Interdisser la patria; e que’, che il padre
Giovar potean, nol vollero; e non furo
Cortesi a me di pochi detti, ond’io 1
Sono mendico ed esule. Ben queste
Fanciulle, a quanto lo comporta il sesso,
Vitto che basta e securtà di asilo
Mi procaccian pietose. E gli spietati
Mei figli, in vece di pensare al padre,
Pensano al trono allo scettro all’impero
Della terra di Cadmo! Ma, da me
Nullo avranno favor; nè pace mai
In Tebe troveranno. Queste cose,
Udite or pe’ novelli oracoli, io
Con ciò raffronto che a me il divo Apollo
Vaticinava. Orsù mandino pure
Di me in cerca Creonte, o qual si sia
Altro possente cittadin. Se voi,
Ospiti, e queste venerande Dive
Servatrici di popoli vorrete
Aita darmi, voi, tutta salute
Alla cittade, ed infiniti affanni
Provocherete a’ miei nemici.
coro.
Edipo,
Ben se’ tu, degno, e le figliuole tue
D’alta pietade! e, da che far ti vuoi
Di questa terra il salvator, vo’ darti
Utile avviso.
edipo.
O a me tre volte caro!
Dammi consiglio, al tuo voler son presto.
coro.
Tu le Dive placar devi, il cui suolo,
Quando da prima quì giugnesti, ài tocco
Col tuo profano piede.
edipo.
Ed in qual modo?
coro.
Con pure mani in pria recar dovrai
I sacri libamenti alle pérenni
Fonti attignendo.
edipo.
E come prender l’onda
Inviolabile?
coro.
Anfore vi sono,
Opra d’industre fabbro; e tu di quelle
Gli orli ed i doppi manichi dovrai
Cinger....
edipo.
Di lana ovver di foglie, o d’altro?
coro.
Della recente lana di un agnello
Appena nato.
edipo.
Intesi. E che far poscia?
coro.
Libar rivolto all’oriente.
edipo.
Forse
Da quelle tazze?
coro.
Liberai da quelle
Delle tre fonti l’onda, e verserai
Tutto l’ultimo vaso.
edipo.
E di che deggio
Empirlo?
coro.
D’acqua mista a miele, e senza
Stilla alcuna di vino.
edipo.
E come alfine
Avrà bevuti la frondosa terra
I libamenti, che farò?
coro.
Tre volte
Nove rami di olivo ad ambe mani
Alle Dive offrirai con questa prece.
edipo.
Dilla, chè udirla assai rileva.
coro.
Il nome
D’Eumenidi diam loro, onde propizie
Ne sian. Tu pure, o alcun altro in tua vece,
D’accogliere le prega con benigno
Petto te supplicante in basso tuono
Per la salvezza tua; quindi ritratti
Senza volgerti indietro. — Ove tu faccia
Quanto narrai, ti assisterò. Se manchi
D’alcuna cosa, io per te tremo.
edipo.
Udiste?
ismene.
Udimmo; or dinne che oprar debbo.
edipo.
Io nulla
Posso da me: che lo contrastan due
Mali, fiacchezza, e cecità: di voi
Vada però una sola; un’alma sola,
Se da pietade è mossa, val per mille.
Ma presta l’opra sia; nè me lasciate
Così diserto, senza vostra guida
Strascinar non poss’io questo mio corpo
Sì travagliato.
ismene.
Io darò fine all’opra;
Pur ch'io conosca ove andar deggia.
coro.
All’altra
Parte opposta del bosco. Se tu poi
Di cosa alcuna ài duopo, ne richiedi
Gli abitatori.
ismene.
Io vado, — O mia sorella,
Abbi cura del padre: ciò che fassi
Pel caro padre mai non costa affanno.
Note
- ↑ [p. 159 modifica]Il Camerario nelle sue note a Sofocle indica la lezione che quì si è adottata. La comune però è ob parvum verbum. Per seguir questa, che d’altronde rimane oscura, conviene aver presenti i versi riferiti da Ateneo nel lib. II. cap. 14. di non so quale autore di una ciclica Tebaide, ne’ quali Edipo scaglia imprecazioni contro i figli, i quali, alla mensa, gli porsero bere in una coppa di cui egli avea vietato l’uso. Convien credere che questo avvenimento fosse comunemente noto agli Ateniesi.