Edipo Coloneo (Sofocle - Giusti)/Atto primo/Scena V
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SCENA V.
EDIPO ANTIGONE CORO.
edipo.
Son io quel desso;
Che per le orecchie, non per gli occhi scorgo
Quel che voi dite.
coro.
Ahi! come è nell'aspetto
E nella voce orribil!
edipo.
Deh! ven prego,
Me, quale un empio, non guardate.
coro.
O Giove
De’ mali fugator, chi fia costui?
edipo.
Un mortale, o vegliardi di cotesta
Terra, un mortale, che non è felice.
E ciò chiaro si par, ch’io non andrei
Cogli occhi altrui la via tentando, e antico,
Qual io mi son, da tenera fanciulla
Guidato non sarei.
coro.
Oh sventurato!
Per quanto lice giudicar, tu cieco
Nascesti, e di molt’anni carco sembri.
Ma non far che su noi le tue sventure
Ricadano; fa senno ed il temuto
Non appressare erboso bosco dove
Onda mista con miele si raccoglie
In piena conca; di evitarlo cura
Misero passeggier, trapassa, vanne.
Troppo di quì ti dilungasti. Intendi
Peregrino infelice? Ancor tel dico,
Parti dal sacro loco, o te ne scosta;
Se alcuna cosa ne vuoi dir favella
Dove licito sia, nè in altra guisa
Movi la voce.
edipo.
Che faremo, o figlia?
antigone.
Agli usi del paese è duopo, o padre,
Di buon grado ubbidir.
edipo.
La mano dunque
Porgimi.1
antigone.
Prendi: ecco la mano.
edipo.
Offesa
Deh! voi non fate a chi in voi fida, e move.
coro.
Null’uomo trarti, da cotesto seggio
Oserà con ingiuria, o vecchio.
edipo.
Andarne
Degg’io più oltre?
coro.
Sì, più oltre.
edipo.
Ancora?
coro.
Sì, fanciulla, procedi un altro poco,
Tu, che ben vedi dove siam.
antigone.
Mi segui,
Seguimi, o padre, col mal fermo piede
Fin dove io ti conduco; e forastiero
In forastiera terra odia tu pure
Ciò ch’ella à in odio; e ciò che di rispetto
Degno ella tiene, tu pure rispetta.
edipo.
Guidami dunque, o figlia, ove n’è dato
Di rimaner; così parlare e udire
Potrò a vicenda: cedasi alla dura
Necessità.
coro.
Ferma: passar non dei
Oltre la soglia di bronzo.
antigone.
Così?
coro.
Sì; basta.
edipo.
E dove poserò?
coro.
Su quella
Pietra inchinando il corpo lentamente.
antigone.
A me misera, a me, padre, si addice
Placidamente regolar tuoi passi.
Sovra di questa mia mano declina
L’antica salma.
edipo.
O mia cruda sventura!
coro.
Or che assiso ti stai narra qual padre
Ti generò? Chi te rese cotanto
Misero? e quale è la tua patria?
edipo.
Io sono
Rammingo, ma non già....
coro.
Perchè sì parli?
edipo.
Deh! non curate di saper chi sono:
Non chiedete di più.
coro.
Perchè?
edipo.
O infelice
Stirpe!
coro.
Prosegui.
edipo.
O figlia, e che degg’io
Mai dire?
coro.
Parla, il padre tuo palesa.
edipo.
Me lasso! o figlia, che farò?
antigone.
Su dillo,
Che più scampo non v’è.
edipo.
Dirollo adunque,
Da che celarmi più non posso.
coro.
Or via
Perchè tanto indugiar? Parla.
edipo.
Di Lajo
Conoscete la prole?
coro.
Oh Dio!
edipo.
La schiatta
De’ Labdacidi?
coro.
O Giove!
edipo.
Il miserando
Edipo?
coro.
E tu lo sei?
edipo.
Sinistro evento
Non temete però.
coro.
Che intesi?
edipo.
Ahi lasso!
coro.
Cielo!
edipo.
O figlia, che fia?
coro.
Sgombrate uscite
Di questo loco.
edipo.
E le promesse tue?
coro.
Le ingiurie vendicar colpevol opra
Chiamar non dessi: frode a frode opposta
Di chi prima l’ordiva in danno torna.
Queste sedi abbandona, esci veloce
Di questa terra, onde per te non senta
Alte sciagure la mia patria.
antigone.
O voi
Ospiti, che l'onesto in pregio avete,
Poi che di questo cieco padre mio 2
Nè la vista soffrir nè la dolente
Storia di sue involontarie colpe
Ascoltar tollerate, almen vi prenda
Di me infelice vergine pietate
Di me, che sol pel mio padre vi prego,
E miro voi con non spente pupille,3
Quasi io mi fussi pur del vostro sangue,
Onde vi piaccia avere alcun riguardo
Per questo sventurato. In voi ripongo,
Come in braccio d’un Nume, ogni fidanza.
Deh! mie preci appagate, e a noi cortesi
Concedete un favor, che mal disposti
A concedermi siete. Io vi scongiuro
Per quante cose son più al mondo care,
Per gli averi, pe’ figli, per le spose,
E per gli Eterni dei: chi ben ragiona
Sa che nissun mortale al suo destino
Sottrar si può, se a lui fa un Nume forza.
coro.
Figlia di Edipo, sappilo, te noi
Piangiamo, e lui per sue tante sciagure;
Ma de’ Numi il timor più oprar ne vieta.
edipo.
Che val perchè in voi sia tanta di gloria
E di onestà la fama? E a me che giova
Avere Atene di pietosa il grido
E d’aitar gli infelici ospiti? quando
Me discacciate, del mio solo nome
Paurosi, non già del fragil corpo,
O dell’opre: che, quanto all’opre, io nullo
Altrui danno recai; me solo offesi.
Che, se del padre e della madre, ond’io,
Ben lo veggio, cotanto orror v’ispiro,
Narrar dovessi, chi può reo chiamarmi
Se provocato vendicai l’offesa?
Di che niuno me conscio anco del fatto
Redarguir potria: ma nulla io seppi,
E que’ soli il sapean che in tanto abisso
Mi strascinar. Per queste Dive adunque
Di salvarmi vi prego, or che m’avete
Tratto del loco ov’io mi stava; e, mentre
Temer vantate i Numi, ai Numi stessi
Più non fate contrasto; e vi rammenti
Ch’essi sul giusto al par, che sull’iniquo,
Volgon gli sguardi; nè trovò mai scampo
Lo scellerato: e quindi al lor cospetto
Non vogliate con empie opre la fama
Contaminar della felice Atene.
E, se la fede a me supplice vostro
Deste, la stessa fede or m’assicuri.
Nè questo capo mio, quantunque orrendo
A rimirarsi, ingiusta onta riceva.
Puro e sacro a voi vengo, e a vostra gente
D’alto vantaggio apportatore. E, quando
Davanti mi starà, chiunque sia,
Il Signor vostro, da me tutto allora
Saprà; niun danno or mi recate.
coro.
È forza,
O cieco vecchio, avere un pio riguardo
A quel che dici: che le tue parole
Lievi non sono, e fia buon che le ascolti
Il Signor nostro.
edipo.
E dove, ospiti, è il Rege
Di questa terra?
coro.
Entro le patrie mura,
E già per lui n’andò quel nunzio stesso,
Che a noi venne.
edipo.
E credete alcun pensiero,
Avrà d’un cieco, o alcun rispetto; e grave
Non gli fia quì recarsi?
coro.
Inteso appena
Il tuo nome verrà.
edipo.
Da chi saprallo?
coro.
Lunga è la strada e le molte parole
De’ passeggleri van d’attorno; ed egli,
Se fia che t’oda nominar, lasciato
Il grave e lento passo, a te veloce,
Credi, verrà.
edipo.
Ben venga; e il venir suo
Sia fausto alla Cittade e a me. Tra i buoni
Chi amico non gli fia? 4
antigone.
Oh Dio! che dire,
O padre, e che pensar?
edipo.
Figlia, che ài?
antigone.
Sopra nobil destriero una donzella
Scorgo appressarsi a noi: le cerchia il volto
Tessalico cappel, che ai rai del sole
Le fa riparo. È forse dessa, o forse
Mi vaneggia il pensier? Parmi, non parmi...
Non so più che mi dir misera! Eppure
Per certo è dessa, e più mi s'avvicina,
Dolcemente mi guarda, e manifesto
Fammi che quelli della sola Ismene
Sono i sembianti.
edipo.
Antigone, che dici?
antigone.
Dico, ch’io veggo la cara tua figlia,
La mia sorella, e tosto la sua voce
Ten farà certo.
Note
- ↑ [p. 157 modifica]Così legge Stefano, e così forse in tutte le antiche edizioni. Il Brunk ritiene le stesse parole, ma le fa dire ad altri personaggi.
- ↑ [p. 157 modifica]Il Brunk omette l'epiteto cieco. Si è seguìto il testo di lui per non ripeter tante volte la parola cieco, che in questa tragedia forse è ripetuta anco troppo.
- ↑ [p. 157 modifica]Alla lettera: con occhi non ciechi. L’autore à forse voluto con questa espressione render più efficace la preghiera di Antigone che si mostra pura a differenza del padre che [p. 158 modifica]i Coloniati riguardavano quasi un testimonio dell’ira celeste.
- ↑ [p. 158 modifica]Benché i testi e lo Scoliaste intendano: e chi fra i buoni non è amico di se stesso? pure, fatta osservazione, che cambiando lo spirito di una voce in questo passaggio si ottiene il senso indicato nella traduzione, si è adottata questa correzione, da cui risulta una sentenza plausibile a differenza dell'altra, che è ridicola. In fatti come può sostenersi: Quis enim bonus non est sibi ipsi amicus? Lo Scoliaste stesso si avvide dell’assurdità di questa sentenza e cercò di emendarla così: l'uomo dabbene è utile a se stesso e agli amici. Vedasi anco in Brumoy dove il traduttore francese ha stimato bene di darci una [p. 7 modifica]