Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XXXV
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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXV.
Che tratta della valorosa e smisurata battaglia che fece don Chisciotte con alquanti otri di vino rosso; e dove si dà fine alla Novella del Curioso Indiscreto.
Chi mai poteva contenersi dal ridere trovandosi presente agli spropositi del padrone e del servitore? Tutti ne facevano il più grande schiamazzo, eccetto l’oste che si dava al diavolo. In fine tanto fecero il barbiere, Cardenio e il curato, che con molto sudore riposero in letto don Chisciotte, il quale fiacco e rifinito ripigliò un sonno profondo. Lo lasciarono dormire, e si recarono alla porta dell’osteria a consolare Sancio che disperavasi di non aver trovata la testa del gigante: ma ebbero poi assai più che fare per acchetar l’oste desolatissimo della repentina morte degli otri suoi: e la ostessa gridava con voce disperata: “In mal punto e in mal’ora entrò in casa mia questo cavaliere errante; che mille demonii se lo avessero portato via! ahi quanto caro mi costa! l’altra volta se n’è partito senza pagarmi lo stallaggio, la cena, il letto, la paglia e la biada per lui e pel suo scudiere con un ronzino e un giumento, e tutto col bel pretesto di essere un cavaliere venturiero. Venga il malanno a lui e alle tariffe della cavalleria per le quali questi signori non pagano mai un maravedis. Per colpa di costoro è venuto qua quest’altro signorino che mi portò via la mia coda, e me la restituì sì mal concia e dipelata, che mio marito non potrà più valersene come soleva; e finalmente, per compir l’opera mi ha rotto gli otri e versato il vino: che versato io possa vedere tutto il suo sangue! Oh non si pensi ora di scapparla netta, chè giuro per le ossa di mio padre e per gli anni di mia madre che me l’hanno da pagare maravedis sopra maravedis, o non mi chiamerei come mi chiamo, nè sarei figlia di chi sono„. Queste ed altre cose diceva l’ostessa inviperita, ed era in ciò secondata dalla sua buona serva Maritorna; la figliuola sola taceva sorridendo di tanto in tanto.
Il curato rimediò ad ogni cosa, promettendo di compensare i danni il meglio che avesse potuto sì degli otri come del vino, e singolarmente del pregiudizio della coda di cui ella faceva tanto gran conto. Dorotea consolò Sancio dicendogli che quando fosse provato a tutta evidenza che il suo padrone ammazzato avesse il gigante, e si vedesse ella pacifica posseditrice del suo regno lo investirebbe della maggior contea che fosse al mondo. Sancio si sentì rinascere, ed assicurò la principessa ch’egli aveva veduta la tronca testa del gigante, ed in prova di ciò che asseriva, dichiarò che avea una barba che gli arrivava fino alla cintola, e che se questa benedetta testa non si trovava, era perchè quanto succedeva in quella osteria era tutto un’incantagione, di che protestava di aver avute certissime prove l’altra volta che vi si fermò ad alloggiare. Dorotea disse di credergli, ma che non se ne pigliasse fastidio mentre tutto sarebbe andato a dovere e al modo da lui desiderato. Tranquillizzato che fu ognuno, il curato bramò di terminare la lettura della novella, vedendo che vi mancava assai poco. Cardenio, Dorotea e gli altri tutti lo pregarono che la finisse, ed egli per contentare gli altri ad un tempo e sè stesso continuò come segue:
“Accadde pertanto che la piena fiducia che riponeva Anselmo nella bontà di Camilla, lo facea vivere una vita contenta e senza pensieri, mentr’ella per dar colore all’inganno facea mal viso a Lotario, acciocchè Anselmo credesse il contrario dell’amore che gli portava: e perchè la finzione avesse sempre più apparenza di verità, facea Lotario scorgere la sua ripugnanza di recarsi a lei perchè le sue visite non erano gradite: ma il tradito Anselmo teneasi molto raccomandato affinchè questa cosa non succedesse; ed in tal guisa era egli stesso il fabbro del suo disonore quando credeva di avere assicurata la propria felicità. Frattanto il contento che provava Leonella nel veder favoriti gli amori suoi, giunse al segno di abbandonarvisi senza riserbo alcuno, fidandosi di essere protetta dalla padrona. Finalmente sentì Anselmo una notte camminare per la stanza di Leonella, e recandosi per veder chi fosse, si accorse che qualcuno gl’impediva di aprirne la porta; ma tanto si adoperò che riescì a vedere un uomo che dalla finestra saltava in istrada. Voleva correre per raggiungerlo e riconoscerlo, ma non gli riuscì nè l’una nè l’altra cosa, perchè Leonella lo trattenne dicendogli: — Calmatevi, signore, non vi alterate nè inseguite colui che saltò dalla finestra: egli è mio sposo„. Non volle Anselmo prestarle fede, chè anzi accecato dalla collera trasse un pugnale per ferire Leonella, intimandole di palesargli il vero o l’ucciderebbe. Essa fuori di sè per timore e senza sapere ciò che si dicesse, così parlò: — Non mi uccidete, o signore, chè vi rivelerò cose d’importanza più grandi assai di quello che voi non credereste. — Palesale all’istante, disse Anselmo, o tu sei morta. — Sarà impossibile il farlo subito, disse Leonella, poichè io sono fuori di me stessa; datemi tempo sino a dimani, e sentirete un racconto che resterete preso di maraviglia: assicuratevi intanto che colui che saltò dalla finestra è un giovine di questa città da cui io ebbi promessa che sarà mio sposo„. Si acchetò Anselmo ciò udendo, e le concesse il termine chiesto, non immaginando mai di sentire colpevole Camilla, poichè riposava con piena fiducia e tranquillità sulla sua virtù. Lasciò pertanto chiusa Leonella nel suo appartamento, da cui egli partì, avendole intimato che uscita non ne sarebbe se prima svelato non avesse ogni cosa. Si recò sul fatto a vedere Camilla, ed a farle sapere l’avvenuto con la cameriera, e la promessa di lei di palesargli cose grandi e importanti. Non è mestieri dire se siasi o no turbata Camilla: sì grande fu lo spavento che la colse, credendo veracemente (ed era da crederlo), che Leonella volesse scoprire ad Anselmo la sua mancanza di fede, che non ebbe cuore di attendere per vedere se vero o fallace si fosse il sospetto di lei; e quando le parve che Anselmo si fosse addormentato, in quella notte medesima pose in un involto le sue gioie e i danari, e senza essere veduta da chicchessia fuggì di casa e si recò a quella di Lotario. Lo informò del successo, gli chiese asilo di sicurezza e gli propose una fuga con lui per condursi in luogo fuori di pericolo di essere smascherati da Anselmo. La confusione in cui Camilla pose Lotario fu tale ch’egli non seppe risponder parola e nemmeno risolversi a verun partito: ma si decise in fine di condurre Camilla ad un monastero in cui era abbadessa una sua sorella. Piacque a Camilla il partito, e colla celerità ch’esigeva la circostanza, Lotario le fu scorta, ed egli medesimo uscì subito della città senza dar conto ad alcuno della sua partenza. Venuto il giorno nè essendosi Anselmo accorto che Camilla gli s’era tolta da lato, pel gran desiderio di sapere ciò che Leonella gli avea a dire, si alzò e recossi dov’ella stava rinserrata. Entrò nella stanza, ma non rinvenne più la donzella; bensì due lenzuola annodate alla finestra, prova evidente ch’erasi calata in istrada e fuggita. Tornò sconsolatissimo per far palese a Camilla l’avvenimento, ma non trovandola nè in letto nè per tutta la casa, ne rimase fuori di sè. Chiese di lei a tutti i domestici, e nessuno gliene seppe dar conto, e cercando di Camilla gli venne fatto di vedere ch’erano aperti gli armadii suoi, e che vi mancava il meglio delle sue gioie. Allora si persuase che Leonella non era altrimenti la cagione della sua disgrazia: e tal quale egli si ritrovava e senza terminare di vestirsi, dolente e tapino recossi dal suo amico Lotario per metterlo al fatto di ciò ch’eragli occorso; ma quando non lo trovò, ed invece intese dai domestici ch’erasi tolto di casa nella scorsa notte seco portando quanto avea di danaro, fu sul punto di perdere affatto il sentimento. Per dir breve, ritornandosene a casa non vi trovò pur uno dei domestici suoi, ma ogni cosa abbandonata e deserta. Non sapea che pensare, che dirsi, che fare, ed era sul punto di dare in follia. Si vedeva in un istante senza moglie, senz’amico, senza domestici, abbandonato, a parer suo, dal cielo che lo copriva, e quello che peggio era, senza onore, perchè la fuga di Camilla gli distruggeva anche questo. Si determinò alfine, dopo lunga irresoluzione, di recarsi alla villa appresso quel suo amico dove avea fatto soggiorno, quando aveva dato campo egli stesso agli altri di macchinare la sua disavventura. Chiuse le porte di casa, montò a cavallo, e con affannoso respiro si pose in viaggio: ma non giunse alla metà del cammino, quando oppresso dall’affanno gli fu forza smontare per legar ad un arbore il suo cavallo, al cui tronco lasciossi cadere mettendo i più dogliosi sospiri; e qui si trattenne fino al declinare del giorno, quando vide venire dalla città un uomo a cavallo, e pregatolo a soffermarsi un istante, lo domandò quali nuove correvano in Firenze. “Le più strane, rispose il cittadino, che da molto siensi intese in quella città; perchè pubblicamente si dice che Lotario, quel grande amico di Anselmo, il ricco abitante a San Giovanni, se ne fuggì nella passata notte con Camilla moglie del detto Anselmo, la quale in fatti è sparita. Questo disse una servente di Camilla che fu colta nella stessa notte dalla giustizia nell’atto che calavasi giù da una finestra della casa di Anselmo con due lenzuola aggruppate. A me non è noto per disteso come sia passato l’affare, e so soltanto che la maraviglia è universale nella città per tale avvenimento, poichè nessuno poteva attendersi un simil fatto dalla grande amicizia che passava fra quei due, e che giunta era a sì alto grado, a quanto ne dicono, ch’erano chiamati i due amici. — Sapreste per avventura, disse Anselmo, a qual parte siansi avviati Lotario e Camilla? — Neppure per sogno, disse il cittadino, tuttochè la giustizia per trovarli abbia fatte le più diligenti perquisizioni. — Andatevene pur con Dio, signore, gli disse Anselmo. — E con Dio restatevi„, soggiunse il cittadino partendo. Ricevute a questo modo sì dolorose novelle, trovossi Anselmo in procinto di perdere non pure il cervello, ma ben anche la vita. Si levò come potè, e giunse a casa dell’amico, il quale era ignaro tuttavia della sua disgrazia; ma come lo vide venire così spossato e sparuto, si avvisò che qualche grave sciagura gli fosse accaduta. Chiese Anselmo senz’altro di essere posto a letto, e che gli si desse l’occorrente per iscrivere; fu servito del tutto, e lasciato solo (perchè così volle) e colla porta della camera serrata. In tale solitudine cominciò il pensiero della sua sventura ad accendergli talmente la fantasia, che chiaramente conobbe dai sintomi mortali che lo assaltavano, d’esser vicino a perdere la vita, e si decise allora di render a tutti palese la causa della strana sua morte: ma datosi appena a scrivere, prima di stendere sulla carta quanto bramava gli mancò il respiro e rimase morto, vittima del dolore prodottogli dalla sua indiscreta curiosità.
“Vedendo la seguente mattina il padrone di casa ch’era già tardi, e che Anselmo non chiamava, si determinò di entrare nella sua stanza per sapere se erasi liberato dalla piccola indisposizione. Così fece, ma con ispavento lo vide steso colla bocca all'ingiù, colla metà della persona sul letto e coll’altra metà sul tavolino sopra il quale stava la carta scritta ed aperta, tenendo egli tuttavia in mano la penna. Si accostò l’amico avendolo prima chiamato, e preso per mano; ma non sentendosi rispondere, e trovandolo freddo freddo conobbe che già non era più in vita. Stupito e doglioso all’estremo chiamò i suoi servitori per riconoscere la disgrazia avvenuta ad Anselmo, e tolto quel foglio che riconobbe di pugno del suo amico, vide ch’era così concepito:
“Un folle ed indiscreto desiderio mi ha privato di vita. Se le nuove della mia morte perverranno a Camilla le sia noto che le perdono, non essendo essa obbligata a cosa soprannaturali, nè io avrei dovuto esigerle da lei. Poichè sono stato io medesimo il fabbro del mio disonore, non ho di che...„.
“Fin qui scrisse Anselmo: dal che si ebbe a dedurre che a quel punto, senza poter compire lo scritto, mancata gli fosse la vita. Nel giorno seguente diede lo sconsolato amico ragguaglio del tragico fine di Anselmo ai parenti suoi, i quali seppero altresì qual era il monastero in cui si trovava Camilla. Anche questa sciaurata era quasi giunta al punto di accompagnare lo sposo nel suo viaggio all’eternità; e ciò non per le nuove ricevute della morte di lui, ma per aver risaputo che il suo amico Lotario se n’era fuggito. Dicesi che quantunque rimasta vedova, non volle però uscire dal monastero; e non volle nemmanco farsi monaca, finchè dopo alquanti mesi le giunsero nuove che Lotario era morto in una battaglia data in quel tempo dal signor di Lautrec al gran capitano Gonzalo Fernandez di Cordova nel regno di Napoli, dove erasi recato il troppo tardi pentito amico. Quando ciò pervenne a notizia di Camilla si determinò a fare la sua professione, ma terminò in breve la esistenza in seno alla più cupa tristezza e malinconia. Questa fu il fine della luttuosa istoria, fine causato da un insensato principio„.
— Mi è piaciuta moltissimo questa novella, disse il curato, ma non so darmi a credere che il fatto sia vero: ma se poi è finzione, male immaginò l’autore, non essendo verisimile che siavi marito sì sciocco da cimentarsi a sì disgustosa sperienza come fece Anselmo. Sarebbe probabile il caso tra un amante ed un’amata, ma tra marito e moglie è impossibile: non mi dispiace però il modo con cui è stata scritta„.