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capitolo xxxv. 389

novelle, trovossi Anselmo in procinto di perdere non pure il cervello, ma ben anche la vita. Si levò come potè, e giunse a casa dell’amico, il quale era ignaro tuttavia della sua disgrazia; ma come lo vide venire così spossato e sparuto, si avvisò che qualche grave sciagura gli fosse accaduta. Chiese Anselmo senz’altro di essere posto a letto, e che gli si desse l’occorrente per iscrivere; fu servito del tutto, e lasciato solo (perchè così volle) e colla porta della camera serrata. In tale solitudine cominciò il pensiero della sua sventura ad accendergli talmente la fantasia, che chiaramente conobbe dai sintomi mortali che lo assaltavano, d’esser vicino a perdere la vita, e si decise allora di render a tutti palese la causa della strana sua morte: ma datosi appena a scrivere, prima di stendere sulla carta quanto bramava gli mancò il respiro e rimase morto, vittima del dolore prodottogli dalla sua indiscreta curiosità.

“Vedendo la seguente mattina il padrone di casa ch’era già tardi, e che Anselmo non chiamava, si determinò di entrare nella sua stanza per sapere se erasi liberato dalla piccola indisposizione. Così fece, ma con ispavento lo vide steso colla bocca all'ingiù, colla metà della persona sul letto e coll’altra metà sul tavolino sopra il