nell’arnese più strano del mondo. Stava in camicia, con in testa un berrettino dell’oste rosso, unto e bisunto; teneva ravvolta al braccio sinistro la coperta del letto, quella stessa che Sancio odiava non senza il suo gran perchè; portava la spada sfoderata nella mano diritta colla quale tirava colpi spietati, esprimendosi come se realmente fosse venuto alle mani con qualche gigante: e il più bello si è che non avea ancora gli occhi aperti, e dormendo sognava di essere alle prese col gigante. Era sì riscaldata la sua immaginazione nell’avventura alla quale credeva di andare, che gli fece sognare di essere pervenuto al regno di Micomicone, e di essere già impegnato nel conflitto col suo nemico: e così freneticando aveva dati tanti colpi contro gli otri, credendo di averli drizzati contro il gigante, che tutto quello stanzone si era fatto un lago di vino. Vedendo l’oste come andava la cosa, ne pigliò sì gran rabbia che andò colle pugna serrate alla volta di don Chisciotte, e gli diede tanti sorgozzoni, che se Cardenio e il curato non lo avessero distaccato con violenza, egli finiva di buon senno la guerra del gigante. Ad onta di tutto ciò non risvegliavasi il povero cavaliere; ed allora il barbiere, cavata dal pozzo una gran secchia di acqua fredda, gliela buttò addosso tutto ad un tratto, con che don Chisciotte cominciò ad aprire gli occhi; ma non ancora tornò in cervello per modo che potesse conoscere lo stato in cui si trovava. Dorotea non volle restar presente al combattimento del suo campione nè a quello del suo nemico. Sancio andava cercando la testa del gigante da per tutto, e non trovandola mai disse: — Per fermo che questa è