Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo III
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Capitolo Terzo
Della paura.
I romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell’uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala dea, le assegnavano sacerdoti e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me paiono una viva imagine di questo culto antico, benché per tutt’altro fine instituite. Il tempio è la reggia, il tiranno n’è l’idolo, i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertá nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtú, l’onor vero, e noi stessi, son queste le vittime che tutto dí vi s’immolano.
Disse il dotto Montesquieu che base e molla della monarchia ella era l’onore. Non conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico e spero di provare che base e molla della tirannide ella è la sola paura.
E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sí nella cagione che negli effetti; la paura dell’oppresso e la paura dell’oppressore.
Teme l’oppresso, perché oltre quello ch’ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l’assoluta volontá e l’arbitrario capriccio dell’oppressore. Da un cosí incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l’uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler piú soffrire: e questa appena verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei piú, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al contrario, nell’uomo schiavo ed oppresso dal continuo ed eccessivo temere nasce vie piú sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno che non si possono aver maggiori mai per un Dio.
Ma teme altresí l’oppressore. E nasce in lui giustamente il timore dalla coscienza della propria debolezza effettiva, e in un tempo, dell’accattata sterminata sua forza ideale. Rabbrividisce nella sua reggia il tiranno (se l’assoluta autoritá non lo ha fatto stupido appieno) allorché si fa egli ad esaminare quale smisurato odio il suo smisurato potere debba necessariamente destare nel cuor di tutti.
La conseguenza del timor del tiranno riesce affatto diversa da quella del timore del suddito; o, per meglio dire, ella è simile in un senso contrario; in quanto né egli né i popoli non emendano questo loro timore come per natura e ragione il dovrebbero: i popoli col non voler piú soggiacere all’arbitrio d’un solo; i tiranni col non voler piú sovrastare a tutti per via della forza. Ed in fatti, spaventato dalla propria potenza, sempre mal sicura quando ella è eccessiva, pare che dovrebbe il tiranno renderla alquanto meno terribile altrui, se non con infrangibili limiti, almeno coll’addolcirne ai sudditi il peso. Ma, nella guisa stessa che i sudditi non diventano disperati e feroci, ancorché altro non resti loro da perdere se non una misera vita; cosí neppure il tiranno diventa mite ed umano, ancorché altro non gli rimanga da acquistare se non la fama e l’amore dei sudditi. Il timore e il sospetto, indivisibili compagni d’ogni forza illegittima (e illegittimo è tutto ciò che limiti non conosce) offuscano talmente l’intelletto del tiranno, anche mite per indole, che egli ne diviene per forza crudele, e pronto sempre ad offendere e a prevenire gli effetti dell’altrui odio meritato e sentito. Egli perciò crudelissimamente suole punire ogni menomo tentativo dei sudditi contro a quella sua propria autoritá, ch’egli stesso conosce eccessiva; e non lo punisce allorquando eseguito sia o intrapreso, ma quando egli suppone, o finge anche di supporre, che un tal tentativo possa solamente essere stato concepito.
La esistenza reale di queste due paure non è difficile a dimostrarsi. Di quella dei sudditi, argomentando ciascuno di noi dalla propria, non ne dubiterà certamente nessuno; della paura dei tiranni assai ne fan fede i tanti e cosí diversi sgherri che giorno e notte li servono e custodiscono.
Ammessa questa reciproca innegabile paura, esaminiamo quali debbano riuscire questi uomini che sempre tremano; e parliamo da prima dei sudditi, cioè di noi stessi, che ben ci dobbiamo conoscere; parleremo dei tiranni, per congettura, dappoi. E scegliamo nella tirannide quei pochi uomini a cui e la robustezza delle fibre, e una miglior educazione, e una certa elevazion d’animo (quanta ne comportino i tempi) e in fine una minor dipendenza, dovrebbero far conoscere piú il vero, e lasciarli tremare assai meno che gli altri: investigati quali siano, e quali possano e debbano esser questi, dal loro valore argomenteremo per induzione quali siano ed esser debbano poi gli altri tutti. Questi pochissimi, degni per certo di miglior sorte, veggono pure ogni giorno nella tirannide il coltivatore, oppresso dalle arbitrarie gravezze, menare una vita stentata e infelice. Una gran parte di essi ne veggono estrarre per forza dai loro tuguri per portar l’armi; e non giá per la patria, ma pel loro e suo maggiore nemico e contro a se stessi: veggono costoro il popolo delle cittá, l’una metá mendico, ricchissimo l’altra, e tutto egualmente scostumato; veggono inoltre la giustizia venduta, la virtú dispregiata, i delatori onorati, la povertá ascritta a delitto, le cariche e gli onori rapiti dal vizio sfacciato, la veritá severamente proscritta, gli averi, la vita, l’onore di tutti nella mano di un solo; e veggono essere incapacissimo di tutto quel solo, e lasciare egli poi il diritto di arbitrariamente disporne ad altri pochi, non meno incapaci e piú tristi: tutto ciò veggono palpabilmente ogni giorno quei pochi enti pensanti, che la tirannide non ha potuti impedire; e in ciò vedere, sommessamente sospirando, si tacciono. Ma perché si tacciono? per sola paura. Nella tirannide, è delitto il dire non meno che il fare. Da questa feroce massima dovrebbe almeno risultarne, che in vece di parlare si operasse; ma (pur troppo!) né l’uno né l’altro si ardisce.
Se dunque a tal segno avviliti sono i migliori, quali saranno in un tal governo poi gli altri? qual nome inventar si dovrá per distinguerli da coloro che nei ragguardevoli antichi governi cotanto illustravano il nome di uomo? Si affaticano tutto dí gli scrittori per dimostrarci che il caso e le circostanze ci vogliono sí fattamente diversi da quelli; ma nessuno ci insegna in qual modo si possano dominare il caso e le circostanze, né fino a qual punto questa diversitá intendere e tollerare si debba. Si affaticano per altra parte i tiranni, e i loro tanti fautori piú vili di essi, nel persuaderci che noi non siamo piú di quella generosa specie antica. E, certo, finché sopportiamo il loro giogo tacendo, ella è quasi minore infamia per noi il credere piuttosto in ciò ai tiranni che non ai moderni scrittori.
Tutti dunque, e buoni e cattivi, e dotti e ignoranti, e pensatori e stupidi, e prodi e codardi; tutti, qual piú qual meno, tremiamo nella tirannide. E questa è per certo la vera universale efficacissima molla di un tal governo, e questo è il solo legame che tiene i sudditi col tiranno.
Si esamini ora se il timor del tiranno sia parimente la molla del suo governare, e il legame che lo tiene coi sudditi. Costui, vede per lo piú gli infiniti abusi dello informe suo reggere; ne conosce i vizi, i principi destruttivi, le ingiustizie, le rapine, le oppressioni e tutti in somma i tanti gravissimi mali della tirannide, meno se stesso. Vede costui che le troppe gravezze di giorno in giorno spopolano le desolate provincie; ma tuttavia non le toglie, perché da quelle enormi gravezze egli ne va ritraendo i mezzi per mantenere l’enorme numero de’ suoi soldati, spie e cortigiani; rimedi tutti (e degnissimi) alla sua enorme paura. E vede anch’egli benissimo che la giustizia si tradisce o si vende; che gli uffizi e gli onori piú importanti cadono sempre ai peggiori; e queste cose tutte, ancorché ben le veda, non le ammenda pur mai il tiranno. E perché non le ammenda? Perché, se i magistrati fossero giusti, incorrotti ed onesti, verrebbe tolto a lui primo ogni iniquo mezzo di colorare le sue private vendette sotto il nome di giustizia. Ne avviene da ciò, e da altre simili cose, che dovendo egli mal grado suo, e senza avvedersene quasi, reputare se stesso come il primo vizio dello stato, traluce all’intelletto suo un fosco barlume di veritá, che gl’insegna che se alcuna idea di vera giustizia si venisse ad introdurre nel suo popolo, la prima giustizia si farebbe di lui; appunto perché nessun altr’uomo (per quanto sia egli scellerato) non può mai in una qualunque societá nuocere sí gravemente ed a tanti, come può nuocere impunemente ogni giorno quest’uno nella propria tirannide. Ciascun tiranno dunque, al solo nome di vera giustizia, trema; ogni vero lume di sana ragione gli accresce il sospetto; ogni veritá luminosa lo adira; lo spaventano i buoni, e non crede mai sicuro se stesso, se egli non affida ogni piú importante carica a gente ben sua, cioè venduta e simile a lui e ciecamente pensante al suo modo; il che importa una gente piú assai ingiusta, piú tremante e quindi piú crudele e piú mille volte opprimente ch’egli nol sia.
— Ma, un tal principe si può dare (dirammi taluno) il quale ami gli uomini, abborrisca il vizio e non lasci trionfare né rimuneri altro che la sola virtú. — Al che rispondo io, col domandare: — Può egli esistere un uomo buono ed amico degli uomini, il quale, non essendo stupido, si creda pure, o finga di credersi, per diritto divino, superiore assolutamente non solo ad ogni individuo, ma alla massa di tutti riuniti; e stimi non dover dar conto dell’opere sue e di sé fuorché a Dio? — Io mi farò a credere che un tal ente possa essere un uomo buono, allorquando avrò visto un solo esempio per cui, avendo costui voluto veramente il maggiore bene di quegli altri enti suoi, ma di una minore specie di lui, egli avrá prese le piú efficaci misure per impedire che in quella sua societá dove egli solo era il tutto, e gli altri tutti il nulla, un qualche altro eletto da Dio al paro di lui, non potesse d’allora in poi commettere, illimitatamente e impunemente, quel male stesso che egli sapea certamente essersi commesso in quello stesso suo stato prima che ei vi regnasse; e che egli certamente sapea, attesa la natura dell’uomo, dovervisi poi commettere di bel nuovo dopo il suo regno. Ma, come potrá egli chiamarsi buono quell’uomo che, dovendo e potendo fare un cosí gran bene a un sí fatto numero d’uomini, pure no ’l fa? E per qual altra ragione no ’l fa egli, se non perché un tal bene potrebbe diminuire ai suoi venturi figli o successori quel suo illimitato orribil potere, del nuocere con impunitá? E si noti di piú che costui potrebbe con un tal nobile mezzo acquistare a se stesso, in vece di quell’infame illimitato potere di nuocere ch’egli avrebbe distrutto, una immensa e non mai finora tentata gloria, e la piú eminente che possa cadere mai nella mente dell’uomo: di avere, colle proprie legittime privazioni, stabilita la durevole felicitá di un popolo intero. Ora, ch’è egli dunque codesto buon principe di cui ci vanno ogni giorno intronando gli orecchi la viltá ed il timore? Un uomo, che non si reputa un uomo; (ed infatti non lo è); ma, in tutt’altro senso ch’ei non l’estima, un ente che forse vuole il bene del corpo degli altri, cioè che non siano né nudi, né mendici; ma, che volendoli ciecamente obbedienti all’arbitrio d’un solo, necessariamente li vuole ad un tempo e stupidi e vili e viziosi, e assai men uomini in somma che bruti. Un tale buon principe (che buono altramente non può esser mai chiunque possiede una usurpata, illegittima, illimitata autoritá) potrá egli giustamente da chi ragiona chiamarsi meno tiranno che il pessimo, poiché gli stessi pessimi effetti dall’uno come dall’altro ridondano? e, come tale, si dovrá egli meno abborrire da chi conosce e sente il servaggio? Il conservare, il difendere ad ogni costo, il reputare come la piú nobile sua prerogativa lo sterminato potere di nuocere a tutti, non è egli sempre uno imperdonabil delitto agli occhi di tutti, ancorché pure chi è reo di tal pregio in modo nessuno mai non ne abusi? E si può egli creder mai che codesto sognato buon principe possa andare esente dalla paura, poiché egli pure persiste nel rimanere, per via della forza, maggior delle leggi? E può egli costui, piú che gli altri suoi pari, esimere i sudditi dalla paura, poich’essi all’ombra di leggi in nulla sottoposte a soldati, non possono sicuramente mai ridersi di niuno de’ suoi assoluti capricci, che volesse (anco istantaneamente) usurparsi il titolo sacro di legge? Io crederei all’incontro che per lo piú quei tiranni che hanno da natura una miglior indole riescano, quanto all’effetto, i peggiori pel popolo. Ed eccone una prova. Gli uomini buoni suppongono sempre che gli altri sian tali; i tiranni tutti per lo piú niente affatto conoscono gli uomini, presi universalmente; ma niente affatto poi certamente conoscono quelli che non vedono mai, e pochissimo quelli che vedono. Ora non v’ha dubbio che gli uomini che si accostano a loro sono sempre i cattivi, perché un uomo veramente buono sfuggirá di continuo, come un mostro, la presenza d’ogni altro uomo, la cui sterminata autoritá, oltre al poterlo spogliar di ogni cosa, può anche, per l’influenza dell’esempio e della necessitá, costringerlo a cessar di esser buono. Ne avviene da ciò che, al tiranno cattivo accostandosi i cattivi uomini, vi si fanno l’un l’altro pessimi; ma i ribaldi accostandosi all’ottimo tiranno, si fingono allora buoni e lo ingannano. E questo accade ogni dí; talché la tirannide per lo piú non risiede nella persona del tiranno, ma nell’abusiva e iniqua potenza di lui, amministrata dalla necessaria tristizia de’ cortigiani. Ma dovunque risieda la tirannide, pe’ miseri sudditi la servitú riesce pur sempre la stessa; e anzi, piú dura riesce per l’universale sotto il tiranno buono, ancorché forse alquanto meno crudele riesca per gl’individui.
Il tiranno buono forse non trema da principio in se stesso, perché la coscienza non lo rimorde di nessuna usata violenza; o, per dir meglio, egli trema assai meno del reo; ché infin ch’egli tiene un’autoritá illimitata, ch’egli benissimo sa (per quanto ignorante egli sia) non essere legittima mai, non si può interamente esimere dalla paura. Ed in prova, per quanto sia pacifico e sicuro al di fuori il tiranno, non annulla pur mai i soldati al di dentro. Ma, anche supponendo che il mite tiranno non tremi egli stesso, tremano pur sempre in nome di lui per se stessi quei pochi pessimi che, usurpata sotto l’ombra del nome suo l’autoritá principesca, la esercitano. Quindi la paura vien sempre ad essere la base, la cagione ed il mezzo di ogni tirannide, anche sotto l’ottimo tiranno.
E non mi si alleghino Tito, Traiano, Marc’Aurelio, Antonino e altri simili, ma sempre pochissimi, virtuosi tiranni. Una prova invincibile che costoro non andavano mai esenti dalla paura si è che nessuno di essi dava alle leggi autoritá sovra la sua propria persona; e non la dava egli, perché espressamente sapea che ne sarebbe stato offeso egli primo; nessuno di essi annullava i soldati perpetui, o ardiva sottoporgli a un’altra autoritá che alla propria; perché convinto era che non rimaneva la persona sua abbastanza difesa senz’essi. Ciascuno dunque di costoro era pienamente certo in se stesso che l’autoritá sua era illimitata, poiché sottoporla non voleva alle leggi; e che illegittima ell’era, poiché sussistere non potea senza il terror degli eserciti. Domando se un tale ottimo tiranno si possa dagli uomini reputare e chiamare un uomo buono? colui che, trovandosi in mano un potere ch’egli conosce vizioso, illegittimo e dannosissimo, non solamente non se ne spoglia egli stesso, ma non imprende almeno (potendolo pur fare con laude e gloria immensa) di spogliarne coloro che verran dopo lui; gente, a cui, per non esserne essi ancora al possesso, nulla affatto si toglie coll’impedir loro quella usurpazione stessa; e massimamente venendo loro impedita da quei tiranni che figli non lasciano. Né sotto Tito, Traiano, Marc’Aurelio e Antonino, cessava la paura nei sudditi. La prova ne sia che nessuno dei sudditi ardiva francamente dir loro che si facessero (quali esser doveano) minori delle leggi, e che la repubblica restituissero.
Ma facil cosa è ad intendersi perché gli scrittori si accordino nel dar tante lodi a codesti virtuosi tiranni, e nel dire che se gli altri tutti potessero ad essi rassomigliarsi, il piú eccellente governo sarebbe il principato. Eccone la ragione. Allorché una paura è stata estrema e terribile, il trovarsela ad un sol tratto scemata dei due terzi fa sí che il terzo rimanente si chiama e si reputa un nulla. Qual ente è egli dunque costui, che dalla sua spontanea e libera benignitá possa e debba dipendere assolutamente la felicitá o infelicitá di tanti e tanti milioni di uomini? Costui, può egli essere disappassionato interamente? egli sarebbe stupido affatto. Può egli amar tutti, e non odiar mai nessuno? può egli non essere ingannato mai? può egli aver la possanza di far tutti i mali, e non ne fare pur mai nessunissimo? può egli, in somma, reputar sé di una specie diversa e superiore agli altri uomini, e con tutto ciò anteporre il bene di tutti al ben di se stesso?
Non credo che alcun uomo al mondo vi sia che volesse dare al suo piú vero e sperimentato amico un arbitrio intero sopra il suo proprio avere, su la propria vita ed onore; né, se un tal uom pur ci fosse, quel suo verace amico vorrebbe mai accettare un cosí strano pericoloso e odioso incarico. Ora, ciò che un sol uomo non concederebbe mai per se solo al suo piú intimo amico, tutti lo concederebbero per se stessi e pe’ lor discendenti, e lo lascierebbero tener colla viva forza, da un solo, che amico loro non è né può essere? da un solo, che essi per lo piú non conoscono, a cui pochissimi si avvicinano, ed a cui non possono neppure i molti dolersi delle ingiustizie ricevute in suo nome? Certo, una tal frenesia non è mai caduta, se non istantaneamente, in pensiero ad una moltitudine d’uomini; o, se pure una tale stupida moltitudine vi è stata mai, che concedesse ad un solo una sí stravagante autoritá, non potea essa costringer giammai le future generazioni a raffermarla e soffrirla. Ogni illimitata autoritá è dunque sempre, o nella origine sua o nel progresso, una manifesta e atrocissima usurpazione sul dritto naturale di tutti. Quindi io lascio giudice ogni uomo, se quell’uno che la esercita può mai tranquillamente e senza paura godersi la funesta e usurpata prerogativa di poter nuocere illimitatamente e impunemente a ciascuno ed a tutti: mentre ogni qualunque onesto privato si riputerebbe infelicissimo di potere in simil guisa nuocere al miglior suo amico, per dritto spontaneamente concedutogli: e mentre, certamente, ogni amicizia fra costoro verrebbe a cessare, all’incominciare della possibilitá di esercitar un tal dritto.
La natura dell’uomo è di temere, e perciò di abborrire, chiunque gli può nuocere, ancorché giustamente gli nuoca; ed in prova, fra que’ popoli, dove l’autoritá paterna e maritale sono eccessive, si ritrovano i piú spessi e terribili esempi della ingratitudine, disamore, disobbedienza, odio e delitti delle mogli e dei figli. Quindi è che il nuocere giustamente a chi male opera, essendo nelle buone repubbliche una prerogativa delle leggi soltanto; e i magistrati, semplici esecutori di esse, elettivi essendovi ed a tempo; nelle buone repubbliche si viene a temer molto le leggi, senza punto odiarle, perché non sono persona; si viene a rispettarne semplicemente gli esecutori, senza moltissimo odiarli, perché troppi son essi, e tuttora si vanno cangiando; e si viene finalmente a non odiar né temere individuo nessuno.
Ma all’incontro la immagine dell’ereditario tiranno si appresenta sempre ai popoli sotto l’aspetto di un uomo che, avendo loro involato una preziosissima cosa, audacemente lor nega che l’abbiano essi posseduta giammai, e tiene perpetuamente sguainata la spada, per impedire che ritolta gli sia. Può non ferire costui; ma chi può non temerne? Possono i popoli non si curare di ridomandargliela; ma il tiranno, non potendosi accertar mai della lor noncuranza, non si lascia perciò mai ritrovar senza spada. Non è dunque coraggio contra coraggio, ma paura contro paura, la molla che questa usurpazione mantiene.
Ma, mentre io della paura sí lungamente favello, giá mi sento gridar d’ogni intorno: — E quando fra due ereditari tiranni si combatte, quei tanti e tanti animosi uomini che affrontano per essi la morte, sono eglino guidati dalla paura ovver dall’onore? — Rispondo che di questa specie d’onore parlerò a suo luogo; che anche gli orientali, popoli sempre servi, i quali a parer nostro non conoscono onore, e che riputiamo di sí gran lunga inferiori a noi, gli orientali anch’essi animosissimamente combattono pe’ loro tiranni e danno per quelli la vita. Ne attribuisco in parte la cagione alla naturale ferocia dell’uomo; al bollore del sangue che nei pericoli si accresce ed accieca; alla vanagloria ed emulazione, per cui nessun uomo vuol parere minore di un altro; ai pregiudizi succhiati col latte; ed in ultimo lo attribuisco, piú che ad ogni altra cosa, alla giá tante volte nominata paura. Questa terribilissima passione sotto tanti e cosí diversi aspetti si trasfigura nel cuor dell’uomo ch’ella vi si può puranco travestire in coraggio. Ed i moderni eserciti nostri, nei quali vengono puniti di morte quelli che fuggono dalla battaglia, ne possono fare ampia fede. Questi nostri eroi tiranneschi, che per pochi baiocchi il giorno vendono al tiranno la loro viltá, appresentati dai loro condottieri a fronte del nemico, si trovano avere alle spalle i loro propri sergenti con le spade sguainate; e spesso anche delle artiglierie vi si trovano, affinché, atterriti da tergo, codesti vigliacchi simulino coraggio da fronte. Senza aver molto onore, potranno dunque cotali soldati anteporre una morte non certa e onorevole ad una infame e certissima.