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i. della tirannide
 



Capitolo Terzo

Della paura.

I romani liberi, popolo al quale noi non rassomigliamo in nulla, come sagaci conoscitori del cuor dell’uomo, eretto aveano un tempio alla Paura; e, creatala dea, le assegnavano sacerdoti e le sagrificavano vittime. Le corti nostre a me paiono una viva imagine di questo culto antico, benché per tutt’altro fine instituite. Il tempio è la reggia, il tiranno n’è l’idolo, i cortigiani ne sono i sacerdoti; la libertá nostra, e quindi gli onesti costumi, il retto pensare, la virtú, l’onor vero, e noi stessi, son queste le vittime che tutto dí vi s’immolano.

Disse il dotto Montesquieu che base e molla della monarchia ella era l’onore. Non conoscendo io, e non credendo a codesta ideale monarchia, dico e spero di provare che base e molla della tirannide ella è la sola paura.

E da prima, io distinguo la paura in due specie, chiaramente fra loro diverse, sí nella cagione che negli effetti; la paura dell’oppresso e la paura dell’oppressore.

Teme l’oppresso, perché oltre quello ch’ei soffre tuttavia, egli benissimo sa non vi essere altro limite ai suoi patimenti che l’assoluta volontá e l’arbitrario capriccio dell’oppressore. Da un cosí incalzante e smisurato timore ne dovrebbe pur nascere (se l’uom ragionasse) una disperata risoluzione di non voler piú soffrire: e questa appena verrebbe a procrearsi concordemente in tutti o nei piú, immediatamente ad ogni lor patimento perpetuo fine porrebbe. Eppure, al contrario, nell’uomo schiavo ed oppresso dal continuo ed eccessivo temere nasce vie piú sempre maggiore ed estrema la circospezione, la cieca obbedienza, il rispetto e la sommissione al tiranno; e crescono a segno che non si possono aver maggiori mai per un Dio.

Ma teme altresí l’oppressore. E nasce in lui giustamente il timore dalla coscienza della propria debolezza effettiva, e in un