Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/5
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5.
Le colpevoli discolpe de’ Poeti lascivi.
Ma udiamo ciò, che per loro discolpa, e in difesa de+ gl’impuri libri che stampano, sanno dire cotesti, che dalla fiaccola di Cupido prendono il furore poetico. Ecco la prima difesa:
Che le poesie festevoli e allegre (così apud vos tota Impuritas vocatur Urbanitas1), come che trattengano col diletto della favola e con la dolcezza del verso in pensieri d’amore chi legge, in fine però altro non isvegliano che pensieri: onde il piacere, che se ne ha da chi legge, è tutto della mente, nulla del senso.
Io qui per risposta vorrei farvi sentire, non dico solamente quelle due infelici sorelle, le prime che lessero upa tal famosa Tragicomedia, publicata pur’allora alle stampe, fatte alla prima lezione si buone maestre d’impurità, che ne aprirono subito scuola, mutando la casa in postribolo e publicando se per meretrici: non le tante maritate, che udita recitare la medesima Pastorale (ed è osservazione di molto tempo), dove pudiche andarono, di là si partirono impudiche; e praticando quella sciolta scienza d’amar chi piace (di che udiron colà i precetti), scoperta l’infedeltà, e con gli adulteri uccise, dalle finte lascivie d’una Tragicomedia riportaron per sè il vero riuscimento d’una tragedia: ma tutta Europa e tutto il Mondo, fin dove cotai libri son giunti; quante mutazioni di scena, quante lagrimose catastrofi ha vedute; mentre animi, che per lo pregio di vergine onestà gareggiavano in candidezza con gli Angioli, bevuto dalla tazza d’oro dell’impudica poesia l’incantesimo e ’l veleno, hanno dipoi sempre avuti sotto sembiante umano costumi di bestie. Perderono nella prima lezione la verginità degli occhi, e, come disse, non so chi appresso Plutarco2 degli svergognati, verterunt pupillas virgines in meretrices; indi quella dell’anima; dietro a cui la carne, come perduto.
Si duole Sant’Agostino del primo padre delle poetiche menzogne Omero, che avendo finti i Dei chi micidiale, chi ladrone, chi adultero, avea fatti i peccati proprietà divina, e con ciò persuasili al mondo senza volerlo; poichè quisquis ea fecisset, non homines perditos, sed coelestes Deos videbatur imitatus3. Ma questi, che mettendo la lingua loro in bocca a poetici personaggi insegnano esser troppo imperfetta la natura ch’è sì inchinevole a’ piaceri d’amore, mentre la Legge vieta il procurarli; o troppo dura e ingiusta la Legge, che repugna alla natura. Questi, che, per espugnare la costante onestà delle Vergini, raccordano loro che la bellezza sfiorisce con gli anni, e che col bella si perde l’amabile onde altri le cerca: che indaro canuto si sospira ciò, che biondo si ricusò: che a una vita sì brieve un solo amore non basta: che l’onestà altro non è, che un’arte di parere onesta ecc.; che quasi tutta è pestilenza tratta dal Novelliere. Questi pestiferi dogmi, questi veleni spremuti dall’ingegno, stillati dalla mano, sparsi dalla penna d’un’uomo cristiano, qui soli uxori suae masculus nascitur (disse Tertulliano); et cupiditate procreandi, aut unam scit, aut nullam, disse Minuzio Felice4; qual’altro effetto hanno, che rendere tanto più facile il peccare, quanto più lo persuade il credere, che questo sia anzi colpa per non dir legge di natura, che vizio di volontà? Volerlo l’età, insegnarlo l’esem pio, persuaderlo l’occasione, scusarlo la fiacchezza; bastare, che la circospezione lo cuopra. E questo è dilettare solo i pensieri, e svegliare amori astratti, amori platonici, e non epicurei? Parlerebbe altrimenti, non dico un’Elia Vero adoratore degli scritti d’Ovidio de Arte amandi, ma un’animale, se avesse scuola di Lettere e arte di poetare?
Nè vale, che questi insegnamenti e questi esempj si diano da personaggi finti. Quello che persuade, non è la qualità del consigliere, ma la ragione; non la persona, ma il fatto. E poi, chi sono i personaggi della poesia, senon come le caverne de’ monti che rendono l’Eco? La voce è dell’Autore, benchè altri la porga; sì come la scrittura è della mano, ancorchè il foglio la mostri. Amore travestito da Ascanio niente meno accendeva l’infelice Reina, che se fosse comparito nella sua vera sembianza; non sotto abito forestiere.
Che se poi alla sperienza, gran maestra del vero, se ne richiama la pruova; ella con la pratica d’ogni giorno mostra, che, mentre si leggono gli amori altrui, s’imparano i proprj: che la compassione alle sventure de non curati diventa facilità per arrendersi a somiglianti richieste: che quella, che ne’ finti personaggi si condanna come crudeltà d’anima troppo ritrosa verso chi ama, in sè si pruova morbidezza di cuore a somiglianti occasioni. Con che disposta bastevolmente l’esca al focile, altro non manca, che un colpo d’un’incontro, d’un saluto, d’uno sguardo, per concepirne fuoco.
Si rammollisce nell’altrui fuoco il proprio cuore, s’impronta nell’anima il suggello de gli affetti che altri in se fintamente esprime; nè v’è solo un’Agostino5 che abbia con vere lagrime piante le finte sciagure dell’abbandonata Didone: sono questi effetti ordinarj, che ogni giorno cagiona la poesia con le scene e co’ libri. E benchè tal volta non si sappia chi invogli ad amare l’altrui amore; s’ama però un non so che d’incognito in altrui: s’ama come quel pazzo fanciullo delle favole, che, da un’imagine vana veri amori prendendo,
Quid videat nescit, sed quod videt uritur illo6.
Mi vergogno con Clemente Alessandrino7 di raccordar qui le due Veneri di Cipro e Gnido; quella d’a vorio, questa di marmo; statue morte per sè, ma per l’altrui lascivia troppo vive. Solo v’aggiungo l’epifonema di questo Autore, perchè della poesia s’intenda ciò, che dell’arte dello scolpire simili statue lascivamente ignude egli disse: Tantum ars valuit ad decipiendum, quæ homines amori deditos illexit in barathrum!
L’altra difesa del compor lascivo è, che tali poesie non hanno altro di male che il parerlo. Queste esser maschere d’allegorie, che cuoprono sensi di purissima Filosofia morale, conditi col mele di favolose invenzioni, perchè più facilmente si prendano mentre riescono più gustosi. Cosł per antico costume le leggi in Candia s’insegnavano a’fanciulli non altrimenti che in musica; e una gran parte della Legge divina, fu posta da David in versi nelle poesie de’ Salmi: Ut dum suavitate carminis mulcetur auditus ( disse S. Agostino8), divini sermonis pariter utilitas inferatur. Per tanto, potersi scrivere in fronte a’ lore Poemi quel terzetto di Dante9:
O voi che avete gl’intelletti sani,
Mirate la dottrina, che s’asconde
Sotto il velame delli versi strani;
e con questo i Poeti, a chi ben li mira, essere Philosophos re, nomine Poetas, qui invidiosam rem ad eam artem perduxerunt, quæ maxime populum demulceat10.
Or’udiste voi mai finzione più poetica, cioè menzogna più solenne di questa? I distruttori della vita moràle vogliono che si creda, loro esserne veri maestri;
Et simulant Curios, cum Bacchanalia scribant.
Ben riuscì una cotal menzogna a Pompeo; mentre nel suo teatro, che ad uso de’ più lascivi spettacoli avea fabricato, perchè non glie lo atterrassero, quasi morum lanienam, vi dedicò una cappelluccia a Venere, Cui subjicimus, inquit, gradus spectaculorum. Ita damnatum et damnandum opus templi titulo prætexuit, ac disciplinam superstitione delusit11. Ma oggi non è sì privo di senno il mondo, che non sappia, che certe allegorie, che altri (sua mercè) attaccò a queste poesie ( allegorie, che, quantunque si stirino, non arrivan però a coprire le vergogne che in esse si leggono), non furono il disegno, sopra di cui si lavorò il poema. Si trovarono poscia fuor d’ogni pensiero dell’Autore. Chimere, non allegorie, e sforzi inutili di chi vuol mutare le libidini in misterj.
Altra cosa è la Tavola di Cebete, per isvolgere gli andamenti del cui laberinto ci voglia il filo d’an’Interprete vecchio; perchè un forestiero non intendendo, com’egli disse, gli enimmi di quella Sfinge, morte non abbia onde utile attendeva: altra i moderni poemi, che avrebbero di bisogno più d’una Sfinge che li mettesse in enimma, che d’un’Edipo che gl’interpretasse.
Nè con ciò niego io, che alcuni Antichi, per ritorre da gli occhi del volgo i misterj della loro Teologia, nascondessero, come i tesori dentro a’ Sileni, sotto le favole quelle che credevano verità. Benchè, come de’ misterj de’ Savj Egizj altro non è rimaso che le imagini loro, Nottole, Scimie, Gufi, allora dotti Geroglifici, oggi infelici reliquie, che sole dalle antiche piramidi si ritranno; così dell’antica Teologia de’ Gentili non è restato alla memoria del mondo altro che gli adulterj, i furti, gli omicidj degli Dei, imagini troppo indegne ad usarsi, per ispiegare con esse misterj di Divinità. Ma i Poeti d’ora non hanno nè occasione, nè pensiero di questo. E quando l’avessero, sarebbero non meno imprudenti che viziosi, prendendo un mezzo contrarissimo al fine preteso; cioè usando, per istillare buoni costumi, favole impudiche, attissime a distruggere in cui sono i buoni costumi: che sarebbe (come disse il Teologo Nazianzeno12) Per scopulos ducere ad littus. Dunque non accade voler vestire i Lupi da Pastori, ei Poeti lascivi da Filosofi morali.
La terza difesa è, che dicono di non pretendere ne’ Joro scritti il danno altrui, ma l’onor proprio. I loro libri portare in fronte scritto a lettere d’un palmo il detto d’Ausonio13 Cui hic ludus noster non placet, ne legerit; aut cum legerit, obliviscatur; aut non oblitus, ignoscat. Altrimenti, chi cade, si lagni di sè come debole, non del Poeta, che non compose il libro nè lo publicò per chi leggendolo poteva cadere. Che colpa v’hanno i sassi, se chi è di vetro, si va a cozzar con essi? Chi non sa schermire, non armeggi: chi non ha buona marinaresca, non s’ingolfi dov’è pericolo di tempesta. Il Lettore dover’essere un’Ape, che colga il mele delle ingegnose maniere di scrivere, delle imitazioni, delle poetiche forme di dire; non un Ragno, che succi veleno di lascivia. Anche nelle divine Scritture contarsi l’incesto d’Ammone, l’adulterio di David, le puzzolenti immondezze di Sodoma. Il dito di Dio le scrisse; nè condannevoli sono, perciochè altri possa trarne esempio di peccare, gustando più del fatto che atterrendosi del castigo. Dunque perchè altri peggiori i suoi costumi leggendo un libro composto solo a fine di ’migliorare l’ingegno, colpa esser cotesta non dell’innocente Autore, ma del poco avveduto Lettore.
Quam sapiens argumentatrix sibi videtur ignorantia humana! disse, in altro simil proposito, Tertulliano. Vedeste voi mai sofismi meglio travestiti da sillogismi? Io m’aspettava, che di più ancora mi persuadessero, che, poichè quello che direttamente non si pretende non può rendere altrui colpevole, it peccare non sia peccare; non si pretendendo mai la malizia della colpa, ma solo il gusto o l’utile dell’azione. In quale scuola hanno imparato costoro, non volersi quello che si dice di non volersi, mentre in tanto avvedutissimamente si prendono tutti i mezzi onde quello si ha; si che, se altro non si pretendesse altri non se ne prenderebbero? Se il fine d’alcuni Poeti fosse stato quest’uno di svegliare col diletto della favola e del verso in altrui stimoli di lascivia, potevano farlo più acconciamente, più efficacemente? E quando componevano, erano o si stupidi o sì ciechi, che non s’avvedessero? e può dirsi che non volessero quello, che in sì gagliardi mezzi efficacemente volevano? Non potrà egli dirsi a loro proposito ciò, che delle femine lascivamente acconce disse Tertulliano14? Quid alteri periculo sumus? quid alteri concupiscentiam importamus? Perit ille tuq forma, si concupiscit; tu facta es gladius illi.
Ancor ne’ primi secoli della Chiesa certi Cristiani, che prima di battezzarsi erano di professione Scultori, volevano che fosse lor lecito intagliare come prima e vendere statue di Giove, di Marte, di Venere; e difendevano il fatto con dire, che non pretendevano l’altrui peccato, ma il proprio guadagno di sustentare sè in vita, non di fare che altri cadesse. Che le loro statue s’adorassero, esser malizia dell’idolatria, non colpa della scultura. Noi viviamo secondo la Legge di Cristo, e lavoriamo secondo i precetti dell’arte: in che dunque pecchiamo? I nostri Poeti, per difendere sè in una causa commune, sentenzierebbero a favor di questi. Ma e questi e quelli condanna, e giustamente, Tertulliano15; e le loro mani, convinte d’essere manus Idolorum matres, dichiara essere manus præcidendas. Li fece rei di sacrilegio, Sacerdoti d’idolatria, anzi più che Sacerdoti; cum per te (disse) Dii habeant Sacerdotes.