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Or’udiste voi mai finzione più poetica, cioè menzogna più solenne di questa? I distruttori della vita moràle vogliono che si creda, loro esserne veri maestri;

          Et simulant Curios, cum Bacchanalia scribant.

Ben riuscì una cotal menzogna a Pompeo; mentre nel suo teatro, che ad uso de’ più lascivi spettacoli avea fabricato, perchè non glie lo atterrassero, quasi morum lanienam, vi dedicò una cappelluccia a Venere, Cui subjicimus, inquit, gradus spectaculorum. Ita damnatum et damnandum opus templi titulo prætexuit, ac disciplinam superstitione delusit1. Ma oggi non è sì privo di senno il mondo, che non sappia, che certe allegorie, che altri (sua mercè) attaccò a queste poesie ( allegorie, che, quantunque si stirino, non arrivan però a coprire le vergogne che in esse si leggono), non furono il disegno, sopra di cui si lavorò il poema. Si trovarono poscia fuor d’ogni pensiero dell’Autore. Chimere, non allegorie, e sforzi inutili di chi vuol mutare le libidini in misterj.

Altra cosa è la Tavola di Cebete, per isvolgere gli andamenti del cui laberinto ci voglia il filo d’an’Interprete vecchio; perchè un forestiero non intendendo, com’egli disse, gli enimmi di quella Sfinge, morte non abbia onde utile attendeva: altra i moderni poemi, che avrebbero di bisogno più d’una Sfinge che li mettesse in enimma, che d’un’Edipo che gl’interpretasse.

Nè con ciò niego io, che alcuni Antichi, per ritorre da gli occhi del volgo i misterj della loro Teologia, nascondessero, come i tesori dentro a’ Sileni, sotto le favole quelle che credevano verità. Benchè, come de’ misterj de’ Savj Egizj altro non è rimaso che le imagini loro, Nottole, Scimie, Gufi, allora dotti Geroglifici, oggi infelici reliquie, che sole dalle antiche piramidi si ritranno; così dell’antica Teologia de’ Gentili non è restato alla memoria del mondo altro che gli adulterj, i furti, gli omicidj degli Dei, imagini troppo indegne ad usarsi, per ispiegare con esse misterj di Divinità. Ma i Poeti d’ora non hanno nè occasione, nè pensiero di questo. E quando l’avessero,

  1. Tert. de spect. c. 10.