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36 | dell’uomo di lettere |
costoro, non volersi quello che si dice di non volersi, mentre in tanto avvedutissimamente si prendono tutti i mezzi onde quello si ha; si che, se altro non si pretendesse altri non se ne prenderebbero? Se il fine d’alcuni Poeti fosse stato quest’uno di svegliare col diletto della favola e del verso in altrui stimoli di lascivia, potevano farlo più acconciamente, più efficacemente? E quando componevano, erano o si stupidi o sì ciechi, che non s’avvedessero? e può dirsi che non volessero quello, che in sì gagliardi mezzi efficacemente volevano? Non potrà egli dirsi a loro proposito ciò, che delle femine lascivamente acconce disse Tertulliano1? Quid alteri periculo sumus? quid alteri concupiscentiam importamus? Perit ille tuq forma, si concupiscit; tu facta es gladius illi.
Ancor ne’ primi secoli della Chiesa certi Cristiani, che prima di battezzarsi erano di professione Scultori, volevano che fosse lor lecito intagliare come prima e vendere statue di Giove, di Marte, di Venere; e difendevano il fatto con dire, che non pretendevano l’altrui peccato, ma il proprio guadagno di sustentare sè in vita, non di fare che altri cadesse. Che le loro statue s’adorassero, esser malizia dell’idolatria, non colpa della scultura. Noi viviamo secondo la Legge di Cristo, e lavoriamo secondo i precetti dell’arte: in che dunque pecchiamo? I nostri Poeti, per difendere sè in una causa commune, sentenzierebbero a favor di questi. Ma e questi e quelli condanna, e giustamente, Tertulliano2; e le loro mani, convinte d’essere manus Idolorum matres, dichiara essere manus præcidendas. Li fece rei di sacrilegio, Sacerdoti d’idolatria, anzi più che Sacerdoti; cum per te (disse) Dii habeant Sacerdotes.