Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/4
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LASCIVIA
4.
L’indegna professione del poetar lascivo.
San Girolamo, quel bravo Lione, che dalla spelonca di Betleem fece sentire per tutto il mondo i ruggiti della sua voce a spavento dell’eresia e terrore de’ vizj, non lasciò di dare il mal pro alla licenziosa lascivia de’ Poeti, che immascherando le stelle con imagini impudiche, calunniatori invidiosi, e mille volte peggiori de’ Giganti di Flegra, aveano data la batteria al Cielo non con le rupi, ma colle sceleraggini della terra1. Non debemus sequi fabulas Poetarum, ridicula ac portentosa mendacia; quibus etiam coelum infamare conantur, et mercedem stupri inter sidera collocare.
E a dire il vero, meritevoli sono dello sdegno del Cielo e della Terra costoro,
Quorum carminibus nihil est nisi fabula Cœlum2.
Non erano con altri lumi bastevolmente chiari al mondo i lascivi furti di Giove, se anche non isplendevano fra le stelle? Non bastava che fossero ne’ marmi, ne’ bronzi, nelle pitture, ne’ plausi delle publiche scene noti a tutta la Terra, se ancor di più non si dava loro per teatro il Cielo, per imagini le stelle, per ispettatore il Mondo? E poi insegnano costoro, che Giove di colasù scaglia i ful mini contro alla Terra, colpevole di que’ vizj, de’ quali il Cielo è maestro? Una Calisto adultera ha le stelle del Polo, e fa doppiamente la scorta, perchè si viaggi in mare, e perchè si naufraghi in terra; mentre da colasù rilucendo, pare che insegni alle caste ad esser felicemente lascive, quando si truovi un Giove, che paghi l’adulterio con le stelle.
Sic Ariadneus stellis coelestibus ignis
Additur. Hoc pretium noctis persolvit honore
Liber, at æthereum meretrix illuminet axem3.
Una parola meno che modestissima, che doveva dire in publico Archita, nel richiamarla alle labbra, gli parve sì indegna d’essere scolpita con lingua d’uomo, che, per non imbrattarsi d’essa, prese per lingua un carbone, come più confacevole a materie degne di fuoco, e con esso non tanto serivendo quanto cancellando sul piano d’un muro o l’espresse o l’accennò. Ahi! le lingue d’oro delle stelle, mentre la notte mette silenzio a tutto il mondo perchè vi s’attenda, di che parlano, e che c’insegnano? Publicano con favella di luce in cielo i misfatti, che per vergogna cercano le tenebre in terra.
Ma fosse egli solo rea di questo l’antica poesia del Gentilesmo, e non vinta dalla moderna de’ Cristiani, che non in dipingere con imaginate figure d’impudiche memorie le stelle, ma in esprimere nelle carte, e, quel che peggio è, imprimer negli animi i fatti medesimi, sì felicemente, anzi si infelicemente s’adopera.
Non mancano alla poesia d’oggidì i suoi Ovidj, che posponendo Parnaso ad Ida, i Lauri a’ Mirti, i Cigni alle Colombe, e a Cupido Apollo, fanno le vergini Muse publiche meretrici. Così a questi Ovidj non mancassero Augusti per Mecenati, e per rinfresco de’ loro troppo çaldi amori le nevi di Scizia e i ghiacci di Ponto. Ed è in questo oramai sì ordinario il male, che dall’antecedente d’esser Poeta pare che ne venga la conseguenza d’esser lascivo; sì come Antistene dalla professione d’Ismenia cavò quella conseguenza,
Si bonus Tibicen est, ergo malus homo est.
Chi non avrebbe giurato, che la poesia, venendo da’ Gentili a’ Cristiani, avesse a fare lo stesso che la Venere degli Spartani, che passando l’Eurota, dicevano essi, per entrare ne’ loro Stati, rotti gli specchi, scatenate le maniglie, gittati gli abbigliamenti da meretrice, non solo s’era vestita per modestia, ma di più armata per bravura, e sembrava anzi una Pallade guerriera che una Venere impudica? Appunto. Anzi tanto è fatta peggiore, che a quella libertà di scriver lascivo, a cui già si dava l’esilio per pena, ora si danno le corone per mercede. S’inalzano fino al cielo, e fra le stelle s’adorano quelle Lire de’ moderni Orfei, che hanno aperto l’inferno, non per trarne un’Euridice condannata, ma per condurvi un mondo d’innocenti. Ne vanno per tutta terra i libri, sparsi per ogni clima, fatti cittadini d’ogni paese, e a gran cura tradotti, perchè parlino, in tutte le lingue; come se, per timore che il Mondo vergine non finisca, s’avessero spargere per tutto il mondo stimoli di lascivia.
Portano in fronte titoli di Grandi al cui nome da gli Autori furono consagrati; e con ciò vanno tanto più liberi, quanto più difesi. Così divengono molte volte Protettori d’impurità quegli che ne dovrebbero esser Giudici, concedendo l’autorità e ‘l nome loro ad usi indegni; come i barbari della Scizia, che mentre stanno ne’ loro carri lascivamente occupati, suspendunt do jugo pharetras indices, ne quis intercedat: ita nec armis erubescunt4.
Or vada Ippocrate5 a lamentarsi delle publiche leggi, che, non determinando pena a’ Medici ignoranti, hanno lor data licenza d’essere omicidi. Discunt enim (disse quell’altro6) periculis nostris, et experimenta per mortes agunt. Medicoque tantum hominem occidisse impunitas summa est. Che dee dirsi, dove l’essere publico artefice di veleni, tanto peggiori quanto più soavi, non fa reo della testa, ma meritevole della corona?
Che se nella guisa che Luciano fece sentire l’infame lingua del Pseudologista raccontare con isdegno e dolore gli scelerati ufficj in che colui sì indegnamente l’usava, udir si potessero le penne omicide di tanti lascivi Scrittori raccontare ad una ad una le sceleraggini, per cui commettere esse furono stimoli al cuore di chi i loro velenosi scritti troppo avidamente leggeva; vi sarebbe egli chi le indorasse con lodi pari solo al merito di sovrumana eccellenza?
Meno colpevole era quell’impurissimo Ostio, che adoperando in uso d’abbominevol veduta gli specchi, ea sibi ostentabat, quibus abscondendis nulla satis alta nox est7. Ma alla fine, sibi ostentabat. Per velenosi che sieno i dragoni, se stanno ne’ loro covi sotterra, non si giudican sì colpevoli, che debba irsi fin colà giù per cercar d’essi e ammazzarli. Quando escono ad appestare l’aria col fiato, non v’è chi, potendoli uccidere, li voglia vivi. Publicare a gli occhi di tutto il mondo ea quibus abscondendis nulla satis alta nox est, e ciò tanto peggio, quanto più isquisita è la penna che lo ritrà, e l’arte sembra di maestria maggiore, mentre all’usanza della greca antica pittura s’adopera nihil velando8; e trovar premio di quello, a cui non v’è pena che basti; non è questo un miracolo dell’umana, non so s’io dica per minor male stoltezza, o con più ragione malizia?
Pur’è infamia ad un’ nomo vestire abito feminile, e prendere sembiante di donna. E trasformarsi un’uomo non nell’abito ma nella professione d’una vecchia meretrice, sensale d’ogni più sconcia lascivia, questa è onorevolezza, questa è vita meritevole di statue e d’allori?