Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/16
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16.
Onde sia l’eccellenza e la varietà degl’Ingegni:
ed onde le diverse inclinazioni del Genio.
Per vie affatto contrarie a’ sopradetti, vanno coloro, che ponendo tutta l’energia dell’ingegno nella forza dell’as nima, e l’uso suo migliore independente da gli strumenti del corpo, negano da veruna sua apparenza sensibile potersi prendere argomento di quale o quanto sia in altrui l’ingegno. Hanno l’anime, dicono essi, fra loro differenza non solo nell’esser proprio, ma ancora ne’ gradi d’accidentali eccellenze, che le fanno l’una più o meno dell’altra perfette. Lode è questa di quel grande artefice, che lo forma; e ornamento del mondo niente minore di quello, che sia in tanti volti d’uomo, pur composti di poche membra, tanta varietà di sembianti, che trovarne due simili è maraviglia, due stampati con la medesima impronta quasi miracolo. Così nascendo la diversità degl’ingegni da diversi gradi di perfezione dell’anime, a che cercarne indicj dal corpo, come se (conforme all’errore di quel gran Protomedico) l’anima altro non fosse, che consonanza di qualità, e armonia d’umori? Argomentar dalla voce, dal colore, dalle fattezze finezza d’ingegno, è come da’ pennelli indovinar l’eccellenza dell’arte d’un grande Apelle, o dalla spada il valore del braccio d’un fortissimo Scanderbeg. Un Bue con un solo fendente diviso per mezzo; un’Alessandro dipinto sì, che il braccio rilevato col fulmine gli usciva della tela: questi sono veri argomenti d’arte e di forza. L’ingegno anch’egli non altrimenti che dall’opere si conosce; altre vestigie non lascia da cui s’indovini di qual forma sia, altr’ombra non ha da cui se ne prendano le misure.
E se ciò non è vero, mirisi la diversità degl’ingegni, che, quasi stelle di differente genio e natura, variamente inclinano; e poi, se v’è, si truovi nella tempera del corpo il principio onde deriva.
Altri sono di mente si presta, che sembrano avere i pensieri di luce, a cui il partirsi, il correre, l’arrivare, tutto è in un momento. Aquile rapidissime, alle quali appena da’ Maestri si mostrà un segno, che lo trapassan col volo; onde, come del suo Aristotile diceva Platone, ha di mestieri spuntar loro l’ali,,acciochè vadano non per impeto ma per elezione.
Altri all’opposto, come Senocrate, Mercurio senz’ali al piè nè al capo, sono sì lenti e sì pigri, che vi bisognan gli sproni non perchè corrano ma perchè vadano. Sono stelle; ma di quelle dell’Orsa, alle quali la vicinanza del Polo fa lentissimo il giro, e, come se provassero i freddi del Settentrione, pigrissimo il moto.
Alcuni banno l’intendere com’è lo stampare nell’acqua: subito ricevono l’impronta, e subito ancora la perdono. Sì veloci al dimenticarsi, come lo furono all’imparare.’ Ingegni similissimi o alle Colombe, quarum omnis inclinatio in colores novos transit1, ma colori, di cui mentre l’uno si fa, l’altro si perde; o a gli specchi, ne’ quali æque cito omnis imago aboletur, ac componitur2.
Al contrario, in altri l’intendere è scolpire porfidi e macigni. Un’imagine non vi si forma, se non a forza di scarpelli e con lunga pazienza; ma durevole è sì, che cancellarla non vi può dimenticanza nè tempo. Uno di questi era Cleante, chiamato per burla l’Ercole delle Scuole, perchè a lui diventar Filosofo non costò minor fatica di mente, che all’altro di corpo il diventar Semideo. Oris angustissimi vas (così lo chiama Plutarco.) difficillime admittens, sed semper retinens quod admisit.
Ve ne ha di quegli, che fanciulli son tutto spirito, uomini tutto feccia. Ne’ primi anni, pare che in bocca loro, come, del bambino Stesicoro, cantino i Rosignuoli; fatti più grandi, mugghiano come Buoi. Simili a quell’antico Ermogene, che fu senex inter pueros, inter senes puer.
Ad altri per contrario l’ingegno matura lentamente con gli anni; onde quegli che prima parevano uno sterile tronco, rotta a poco a poco la buccia, cacciarono a grande stento un germoglio, e aprirono alcune foglie; e in fin poi si veggono carichi più di frutti, che gli altri non hanno frondi. Eccovi un Baldo Giurista, che stette, per dir così, come le Palme, cento anni a metter frutto; onde nacque lo scherno, che, mentr’egli era scolare, avea da tanti, che gli dicevano: Doctor eris Balde, sed præterito sæculo.
Che si dirà di quelli, che per ogni professione di Lettere portano un’ingegno ugualmente perfetto; onde, come a tutti i colori la luce, così la lor mente ad ogni materia bassa o sublime, d’ampia o di profonda misura, si adatta? Pochi ve ne sono: pur ve ne sono; e loro dir si può, per un’intero panegirico, quella gran lode:
Sparguntur in omnes
In te mista fluunt; et quæ divisa beatos
Efficiunt, collecta tenes3.
Ingegni beati, in cui si vede ciò che Plinio vide in un’albero, che solo era un’orto intero; poichè avea innestate le frutte di tutti gli alberi: e quello che Ausonio ebbe in una statua di Bacco, che teneva un non so che di tutti i Dei; onde lo chiamò non un Dio solo, ma un Panteon. Ciò molto più felicemente, e in materia di maggiore ammirazione e invidia espresso si vede in questi ingegni. Sono soli; ma vaglion per molti eccellenti, e meritano, che di loro si dica, come del gran Colosso di Rodi: Majores sunt digiti ejus, quam pleræque statuæ4. Sono soli; ma si trasformano in tanti, quante professioni hanno le Lettere: nè sapete in qual di loro sieno più eccellenti; poichè in tutte sono pari a sè stessi, non son minori di verun’altro, e possono trovare più facilmente chi gl’invidii che chi gli uguagli. Finalmente di qualunque forma d’intendere li vogliate, potranno dire come appresso i Poeti Vertunno:
Opportuna mea est cunctis natura figuris;
In quamcumque. voles verte, Decorus ero5.
In tanto altri vi sono sì determinati ad una sola materia di studj, e ciò nọn per elezione di volontà ma per istinto di genio, che torli da essa è torre loro affatto l’ingegno. Chi vuol vedere la loro eccellenza, convien che riguardi da un punto, ch’è quello, ove tutte le linee del loro sapere s’uniscono; altrimenti nulla hanno di riguardevole, e anzi sembrano mostruosi.
Questi e più altri a gran numero sono i caratteri e le forme diverse, onde sì varj di genio e di talento sono fra di loro gl’ingegni. Or qual tempera di cape, quai’armonia di qualità, qual disposizione d’amori obliga l’anima sì, che in alcuni alle cose della mente insensata, alle più semplici e materiali agilissima; in altri nelle astratte eccellente, nelle pratiche inutile; qui ad una, qui ad un’altra, altrove a tutte, altrove a niuna opera di discorso o fatica d’ingegno sia disposta? Se le azioni dell’anima intendente da lei si fanno e si ricettano in lei; ehe vi può il corpo comunque sia temperato, o il celabro, in qualsivoglia maniera disposto? è se nulla ci può; resta che la diversità degl’ingegni sia diversa perfezione dell’anima, non varia disposizione del corpo.
Ma se ciò è vero; se dall’organo per operare, se dalla tempera degli umori per bene operare non dipende la mente; ond’è, che altri, o per improvisa percossa di capo, o per istrana malattia, hanno chi repente chi a poco a poco smarrita la memoria e perduto l’ingegno, sì che il lor capo, come il vaso di Pandora aperto e l’utre d’Ulisse sventato, è stato poi sempre senza spirito, senza senno?
Onde dall’eccessivo caldo del celabro lo sconcerto della ragione, il ribollimento delle specie, il disordine del discorso, il delirio, la pazzia? Perchè chi fanciullo era ingegnoso e pronto, crescendo con gli anni, avvien tal volta che ingrossi di mente; tanto dipoi stupido, quanto era inanzi svegliato? Pur l’anima è la stessa; chi dunque le spennò l’ingegno, chi le spuntò i pensieri, chi la rendè così altra da quella che una volta fu?
Ma i paesi? de’quali alcuni fertilissimi di grandi ingegni; come in Attica quella famosa Atene, nido e patria delle scienze, e, quanto la cerchiavan le mura, tutta un tempio di Pallade, tutta un’Academia di Letterati: all’incontro la Beozia abitata non dirò da uomini vivi, ma da statue morte, in cui la ragione non mostrava fra gli altri maggior discorso di quello, che s’abbian moto i Zoofiti fra gli animali. Fra Città e Città, anche in Provincie vicine, non si vede egli sì gran differenza d’ingegno, che alcune sembran d’avere, come l’Alessandria d’Egitto6, disegnate le prime loro fondamenta con la polenta; altre, poste su i gioghi dell’Olimpo, aver più alto il piè che l’altre non portano il capo? E donde questo, se nè il cielo, nè l’aria, nè il paese, nè gli spiriti, nè gli umori, che da essi si temperano, hanno punto di forza in quelle azioni, che, proprie dell’anima come principio del discorso, da lei sola si producono, e in lei si ricevono?
Per tanto più provata e certo più ricevuta opinione è, che la tempera della complessione, ond’è lo stato del corpo, serva così all’ingegno e alla diversità del suo gerio, come all’armonia d’una cetera l’aggiustamento delle sue corde, e a diversa armonia, Frigia, Dorica, Lidia, diverso concerto di voci, intervallo di suoni, misure di tempi, ordine e disposizione d’interi e dimezzati tuoni, proprj e aggiunti; onde variissima nasce la musica, grave, Jasciva, guerriera, malinconiosa, allegra. Veggansi i varj, diremo Tuoni e Modi d’ingegno, che dal vario concerto delle prime qualità in nove maniere di corpi umani descrisse Cardano7; veggansi le misure d’otto parti di sangue, due di bile, e due di melanconia, che all’armonia d’un grande ingegno prescrisse il Ficino; e credane ognun quel che vuole, ancor se fosse non ne creder niente.
Questo universalmente par vero, che avendo l’opere dell’ingegno un non so che dell’igneo, sì come mostrano e il velocissimo moto de’pensieri e la natura degli spiriti ignei che lo servono, quegli umori che più tengono del focoso, più sono abili a servirlo, si come all’incontro la flemma lo rende stupido e quasi in un piccol letargo dormiglioso. Dunque la bile, ch’è in eccesso calda e dipoi secca, tutta è in acconcio dell’ingegno. Ma più di lei, come che meno il paja, la malinconia: non quella grossa e d’umor feccioso, che più simbolizza con la flemma nel freddo che con la bile nel secco ma una certa quasi parte più adusta della flava bile, fredda e secca per natura, come la terra; ma se abbia chi l’assottigli e chi l’accenda, si abile a concepir fuoco (come l’esalazioni sollevate dal Sole, che pur sono terra fredda e secca), e fuoco sì vemente e sì gagliardo, che tiene del fulmine nella forza, ma è più durevole e più costante. E di qui nasce il furore, e quella saggia frenesia della mente, che tutta fuori di sè la rapisce, e tutta in sè la concentra; che le dà velocissimi moti e la tiene stabilissima e fissa, tutti insieme spargendole e tutti raccogliendole i pensieri. Nè dee mancare, l’uno per alimento a gli spiriti, l’altra per tempera, il Sangue e la Flemma: acciochè o sterile il troppo secco non renda, o il soverchio caldo non istemperi l’organo, e porti più caligine che splendore. Il predominio però deve essere igneo, il restante del misto a proporzione de’gradi di questo.
E questa è, s’io mal non indovino, quella tanto famosa Luce secca d’Eraclito. Quell’igneus vigor et cœlestis origo, che dove più limpida ha la fiamma, e in più purgati umori meno torbida e fosca, ivi è cosa più di mente celeste che di terreno ingegno.
Questo è quel tanto difficile elettro, Ingegno insieme e Giudicio. L’Ingegno, il Mercurio, tutto istabilità e movimento; il Giudicio, la Chimica, medicina che lo fissa. L’Ingegno, il Lione e il Delfino, tutto furia, tutto corso; il Giudicio, il freno e l’ancora, che gli regola i furori, che gli rintuzza il moto. L’Ingegno, la vela; il Giudicio, la zavorra. Quello, l’ala; questo, il peso. Quello, il volto giovine di Giano; e questo, il vecchio e canuto.
Ma perciochè la tempera degli umori per servigio della mente non è una indivisibile; dalla loro varietà hanno principio le abilità, i genj, i talenti, che a varie professioni di Lettere inclinano. Imperciochè richiedendosi in alcuni studj più pazienza, e, come suol dirsi, più flemma, in altri maggior prestezza di mente; altrove imaginazione più ferma, altrove discorso più astratto; qui gran memoria, qui capacità d’abbracciare quasi in un’atto solo la cognizione di molti oggetti, e vederne la dipendenza senza confondersi; sì come gli umori e le loro qualità sono variamente insieme armonizzate, onde più o meno vi può il caldo, il freddo, l’umido, il secco; così più abile si ha la potenza ad una che ad un’altra professione di Lettere, secondo la tempera delle qualità, che ricercano gli strumenti, per essere più disposti ad operare. E questa abilità della potenza ben disposta verso tal sorte d’oggetti, è fondamento di quello, che chiamano Genio. Imperciochè essendo in ognuno per naturale istinto innata volontà di sapere; e non errando la Natura, consapevole di ciò che ha, in applicarsi a voler, come suo bene, cosa, per cui ottenere ella non abbia forze bastevoli; quindi è, che a quello ella ci porta col desiderio, per cui conseguire siamo abbastanza disposti. La proporzione dunque della potenza coll’oggetto, e la voglia che si ha di sapere, delle quali l’una applica, l’altra determina, cagionano quella proporzione e quella simpatia, che si può dir Forma del Genio.
Così non la disposizione, non la figura, non il colore, non la mole delle membra, come immediato o veritiero testimonio d’ingegno osservar si vuole per applicare altrui alle Lettere. Ma da gli atti, testimonj naturalissimi delle potenze, argomentare l’interna loro costituzione; indi trovare a qual dell’arti o delle scienze ella abbia più confacevole corrispondenza. Così, già che non si può corre il mele alla sua fonte, che sono le stelle (così parla Plinio); almeno s’adoprino per averlo più puro di que’ fiori, che più gli somigliano con la natura: Ibi enim optimus semper (ros mellis), ubi optimorum doliolis florum conditur8. Poichè non si può aver la scienza altrimenti che caduta dal cielo in questi corpi terreni; almeno vi si applichino a raccorla di quelli, che, di tempra simili al cielo ignea e sottile, ma stabile e regolata, con lei più simbolizzano e si confanno.