Dell'uomo di lettere difeso ed emendato/Parte seconda/15
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15.
Segni d’uomo ingegnoso, presi dalla Fisonomia,
sono di poca fede.
Gli antichi Architetti, per legge più di giudicio che d’arte, nel fabricare un tempio a qualche Dio, de’ tre Ordini greci, Dorico, Ionico, e Corinzio, sceglievano quello, che alla natura del Dio a cui fabricavano il tempio meglio si confaceva1. Perciò il Dorico, Ordine grave e severo, usavano per li Dei guerrieri, Ercole, e Pallade; il Gorinzio, molle e lascivo, per Venere, Flora e Proserpina, e le Ninfe de’ fonti; l’Ionico, moderato, per Giunone, Diana, Bacco, ed altri lor somiglianti.
Questa legge medesima sono di parere alcuni Platonici e tutti i Fisionomi, che la natura abbia rigorosamente osservata nel fabricare i corpi, che sono i tempj dell’anima: sì che essendovi altre anime guerriere, ed altre vili; queste svegliate e ingegnose, quelle stupide e insensate; molte servili, alcune quasi reine, nate a comandare; confacevoli ancora a gl’interni lor genj e. alle for tempre abbia disegnate l’esterne fattezze del volto, e usata tale l’architettura del corpo, qual’era l’inclinazione dell’animo. Quindi ha presi l’arte del conghietturare i suoi principj; onde, da ciò che in altrui si vede, quello che sta nascoso ritrae e argomenta. E come che della qualità de’ costumi buoni e rei, molti e varj, e bene spesso fra loro repugnanti, diano gl’indicj dell’ingegno in chi stupido, e in chi penetrante e acuto si truovi; tanti per saperlo ne danno, come se un Proteo nelle naturali fattezze della sùa faccia, e non un’ingegno nelle sue qualità, conoscere si dovesse.
Ma perchè molti di questi maestri indovini, più alle fattezze e alla tempra d’alcuni pochi ingegnosi che all’universali occultissime cagioni dell’ingegno attendendo, hanno fatto i volti di pochi stampa commune di tutti, tanto che dicon del Porta, che, come s’egli fosse l’Alcibiade onde ricavar si dovessero le fattezze d’un vero Mercurio, copiando sè stesso, da’ particolari suoi segni formò le universali e quasi uniche conghietture d’un’eccellente ingegno; quindi è, che si fallace riesce, dalla sembianza e da’ lineamenti del corpo indovinare la vastità, la sottigliezza, la velocità, la profondità d’un’ingegno. Riferirò io qui, ma senza grande sforzo per rifiutarli, i più communi segni, che di questa materia si danno dalla scuola del conghietturare. E prima:
Negano i Platonici2 potere star’in uno stesso uomo bellezza d’ingegno e deformità di corpo. Quel trino di Venere con la Luna, ch’è il suggello con che le stelle stampano i più bei volti, aver consonanza co’ numeri che contemprano l’anima, e l’accordano al moto della prima Mente. Pitagora, quell’anima di luce, essere stato di sue fattezze sì bello, che gli scolari suoi, altri lo chiamavano, altri lo credevano Apollo vestito da Pitagora, o Pitagora copiato da Apollo. Nè manca la sua ragione al detto: conciosiecosachè la bellezza altro non sia, che un certo fiore, che su questa terra del corpo dall’anima, quasi seme nascoso, si produce. Sì come il Sole, se una nuvola lo ricuopre, per essa traluce co’ più sottili suoi raggi; e sì bella la rende, che non più vapore colto da terra, sordido e oscuro, ma oro infocato, e quasi un’altro Sole rassembra. Non altrimenti un’anima, che sia come un Sole di luce, dentro alla nuvola di questo corpo che la ricuopre e nasconde, traluce co’ raggi di sua bellezza, sì che bello ancor lui oltre misura lo rende: e questa è quella, che Plotino chiamò Signoria, che la Forma ha sopra la Materia.
Che se poi si conceda, che senon in corpi a sè somiglianti, non vengano l’anime, nè si faccia nodo di sì stretta amistà, senon dov’è somma similitudine; chi non vede non potersi unire anima bella a corpo deforme?
Nè state loro a dire, Esopo, nato, se mai verun’altro, con la Luna ne’ Nodi, essere stato un Tersite; Crate non un cittadino di Tebe, ma un mostro d’Africa; Socrate si mal fornito di bellezza, anzi di stampa sì grossa, che Sopiro Fisionomo lo diede per Idea d’uno stupido e insensato: Alcibiade lo chiama un Sileno; così dichiarandolo di fuori mezzo fiera, ma dentro più che uomo: e Teodoro, descrivendo nel Tecteto3 un giovane di felicissimo ingegno, favellando col medesimo Socrate, potè dirgli: Non est pulcher: similis tui est: simo naso, et prominentibus oculis; quamvis minus ille quam tu in his modum excedat. Negano essere stata in essi cotal deformità intenzione di Natura, ma disavventura di caso; non difetto di forma, ma peccato di disubbidiente materia.
Ma se ciò è, gran vantaggio ne hanno le donne, a cui la bellezza fu data per dote; e si vede, che fatica continova della Natura è lavorare quella molle e morbida terra, sì che questo fiore vi metta più felicemente. E pure, per la suggezione a cui furono condannate, portano st poco senno in capo, come molta avvenenza mostrano in volto. Onde delle più d’esse potrebbe dir la Volpe d’Esopo ciò che del capo di marmo d’una statua di bellissimo volto: O bella testa! ma non v’è cervello.
E veramente, se alla sperienza s’attende, chiaro si mostra, che la Natura non s’è obligata a coteste leggi, di non legare le perle senon in oro, e di non porre ingegni d’eccellente sapere senon in corpi d’esquisita bellezza. Potest ingenium fortissimum ac beatissimum sub qualibet cute latere. Potest ex casa vir magnus exire. Potest ex deformi vilique corpusculo, formosus animus ac magnus; disse vero il Morale4. Membra contadinesche cuoprono molte volte dilicatissimi ingegni. Stanno bellissime anime sotto una ruvida pelle, come colei sotto l’ispida spoglia del Lion Nemeo. Galba grande Oratore pareva un tronco di sasso informe, ma dentro v’avea una vena d’oro d’un prezioso e chiaro ingegno: onde scherzando di lui M. Lollio solea dire: Ingenium Galbæ male habitat5. Così tanti altri, che lungo sarebbe ridire, si deformni, ma sì ingegnosi, che parea che in essi, come nella Calamita, andasser di pari la bellezza dello spirito e la bruttezza del corpo.
Altri poi vi sono, che le grandezze dell’ingegno misurano dalla mole del capo; e non credono che possa essere una grande Intelligenza quella, che non ha una grande sfera. Non intendono, come un piccol capo riesca ventre abile a concepire una gran Pallade; come un’ingegno gigante possa racchiudersi nell’angusta nicchia d’un piccol cranio.
Non sanno, che la Mente è il centro del capo, e il centro non cresce per la grandezza del circolo. L’occhio non è egli poco più d’una gocciola di cristallo? e non ha egli in tanta piccolezza un seno sì capace, che per la porta d’una pupilla ricetta senza confonderlo mezzo un mondo?
Parvula sic totum pervisit pupula cælum:
Quoque vident oculi minimum est, cum maxima cernunt6.
Spesse volte avviene, che come un piccol cuore naturalmente serra un grand’animo, così in un capo di poca mole una mente di grande intendimento si chiuda.
Dalla pallidezza del volto argomentano altri, come dalle ceneri, fuoco di vivace ingegno; e appunto il Nazianzeno7 chiamò la pallidezza pulchrum sublimium virorum florem. E pare che la ragione lo persuada; conciosiecosachè il più bel fiore del sangue stillandosi nelle opere della mente, lasci esangue e smarrita la faccia. Che però la stella di Saturno, padre de’ profondi pensieri, porta in un lume semimorto, quasi macilento e pallido il volto.
Molti, da gli occhi brillanti il giorno e scintillanti la notte, dicono potersi conoscere quali sieno le vere Nottole di Pallade. Altri sono, a cui nel carattere imbrogliato par leggere la velocità degl’ingegni; i cui pensieri mentre la mano col volo della penna non può seguire, avviene che male scolpisca i caratteri, tronchi le parole, e confonda i sensi. Così le fiere più veloci stampano l’orme del piè più disformate; mentre all’incontro il pigrissimo Bue fa i solchi con pazienza, e forma ad una ad una le pedate con flemma.
Ma non ho io preso a riferire non che a ributtare tutti i segni, onde ingegno s’argomenta da questi sottilissimi indovini: gli omeri e’l collo asciutti e scarni; la tempra della carne morbidamente impastata; la fronte ampia; la pelle sottile e dilicata; la voce mezzana fra l’acuto e’l grave; i capelli nè troppo mollemente prostesi, nè, come aridi, inanellati e crespi; le mani magre; le gambe sottili; la corporatura mezzana; il colore amabile; e che so io?
Conghietture sono queste per lo più di due volti e prospettive fallaci. Anzi a contrarj non che differenti principj ugualmente s’acconciano. Almeno certo è, che, o s’attenda per istabilirli la sperienza coll’osservazione d’uomini ingegnosi, o la ragione tratta dalla tempera e disposizione degli organi che sono ad uso della facoltà imaginatrice e della mente, e la sperienza da chi ne fa osservazione si truova a ogni tre fallace in due, e la tempera degl’interni strumenti non ha tanta eonnessione con questi segni che di fuori compajono, che da essi se ne possa trarre ordinario non che infallibile argomento.