De mulieribus claris/LVI
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CAPITOLO LVI.
Virginia, figliuola di Virginio.
Virginia per lo nome e per lo fatto fu una romana vergine da farne menzione con pietosa memoria, perchè la fu di maravigliosa bellezza, e fu figliuola di Virginio, uomo di popolo, ma onesto; la quale benchè fusse di ottima onestà, non è sì famosa per sua con tinenzia, quanto per la scellerata nominanza del suo amante, e per quello che fece lo suo padre, e per quella libertà romana che seguì. Questa per certo, signoreggiando in Roma i Decemviri, fu promessa per moglie da suo padre a Icilio Tribuno, ed aspro giovane; e a caso erano indugiate le sue nozze, perchè erano i Romani ad Algida1 contro agli Equi2, e perchè Virginio era in quella milizia. Le quali cose stando così, avvenne per isciagura di Virginia, che Appio Claudio Decemviro, lo quale era rimaso solo a guardare Roma con Ispurio Appio di tutti i compagni, s’innamorò sì della bellezza di quella, che egli moriva. E non piegandosi la tenera Virginia per sue lusinghe e gran doni, nè per prieghi, nè per minaccia, salvando ella il suo petto pieno di santità; accesosi Appio di matto furore, e volgendosi l’animo vago a diverse cose3, non pensando essere assai sicuro isforzarla pubblicamente; volse l’animo a inganno, e dispose che Marco Claudio, suo servo, uomo di gran presunzione, come più tosto quella fanciulla passasse per piazza, pigliasse quella come sua serva fuggitiva, e menassela a casa; e se alcuni gli contraddicessero, incontanente gli facesse citare innanzi a Appio. Dopo pochi di con presuntuoso ardire, passando ella, lo servo la prese, dicendo: Ch’ella era sua serva: ma gridando la Fanciulla, e facendo resistenza allo malvagio uomo, ajutandola le donne con le quali ella andava; subito la gente cominciò a correre, tra i quali corse Icilio: e dette molte parole dall’una parte e dall’altra, avvenne che ella fu menata in palagio innanzi allo amante come giudice; e appena si potè ottenere dallo ardente giudice, che la sentenzia si fusse indugiata infino al di seguente: nel quale fatto non giovò lo inganno di Appio; il quale, perchè Virginio era al campo, avea ordinato agli capitani, che non fusse lasciato venire a Roma, se fusse mandato per lui. Ma subito come padre si presentò advocato della figliuola, e cogli amici e con Icilio, impolverato si presentò in palagio; dove dall’altra parte Marco Claudio domandando la serva, lo lussurioso giudice, non udito Virginio, sentenziò che Virginia era serva fuggitiva; e volendola pigliare Marco, e Virginio avendo dette molte belle parole indarno contro a Appio, appena ottenne potere favellare alquanto con la balia, acciocchè fusse trovata la verità dello antico errore, e egli lasciasse la serva con minore sua indegnazione e essendo uscito fuori in luogo pubblico, nondimeno presso al palazzo presso alle taverne Cloatine, piglio un coltello da beccaro, e disse: Figliuola mia cara, io difendo la tua libertà per quel modo ch’io posso; e lo ficcò nel petto della figliuola con grandissimo dolore di quegli che erano presenti. Della quale ferita la infelice Fanciulla in presenza di quegli cadde morta, e così fu vana la vituperosa speranza del lussurioso Appio. Per la morte di quella innocente e per opera di Virginio e di Icilio avvenne che partendosi la seconda volta lo popolo, i Decemviri furono costretti a rifiutare la signoria, e che egli lasciassero la libertà, che eglino aveano occupato, al popolo. E non molto dappoi per procurazione di Virginio, Tribuno del popolo, fu citato Appio Claudio; lo quale andando al palazzo a rispondere, di cómandamento di Virginio fu tratto in prigione, e fu legato con catene; e acciocchè nocente fuggisse la vergogna, della quale egli era degno, e purgasse l’ingiuria dell’innocente Virginia; in quel luogo finì sua vita con uno coltello, o con uno laccio, o di veleno. Ma lo presentuoso famiglio Marco Claudio non per la debita via pianse lo peccato commesso, perchè egli fuggi; e i suoi beni e quelli del padrone furono pubblicati al comune. Non è niuna cosa più mortale che il malvagio giudice: e quante volte questo segue la signoria della scellerata mente, è necessario che tutto l’ordine della ragione si perverta, la possanza delle leggi si rompa, l’opera della virtù indebolisca suo stato, venga lasciatonota lo freno alle cose scellerate, e brievemente ogni bene comune vada in rovina. La qual cosa se non è assai ben manifesta, la scellerata impresa d’Appio, e le cose che seguirono di quello la chiariscononota. Affanno a dire, perchè, male 4 5 refrenando lo potente uomo la sua lussuria, poco meno fece per lo suo fraudolente liberto serva quella che era libera, adultera quella che era vergine, puttana quella che era maritata; per la sua vituperosa sentenzia, avvegnachè il padre prese le armi contro alla figliuola, la pietà si convertì in crudeltà: e acciocchè quello scellerato uomo non godesse di suo desiderio, acquistato con fraude, fu morta quella innocente Giovane, fu levato il romore in Roma, fatto tumulto nel campo, partissi lo popolo dal Senato, e quasi tutto il fatto di Roma fu posto in pericolo. O come quello era rettore glorioso, e nobile punitore delle genti! quello che egli doveva punire in altri con aspro tormento, egli non temeva commetterlo. O quante volte per questa pestilenzia periscono gli uomini! e quante volte senza colpa noi siamo tratti alla morte, siamo gravati di brutta servitù, siamo stretti, rubati, e morti, superchiando la crudeltà! Che è cosa di male che non si faccia? non temono i possenti convertire a licenza di crudeltà non atterriti da alcuno timore di Dio, quello che si trovò in temperanza di crudeltà6. E dovendo quello che è signore avere ugualmente gli occhi e l’animo allo parlare umile, i costumi gravi e santi, e al postutto avere le mani nette di fatti di donne, non solamente sono lascivi cogli occhi, ma con furiosa mente non seguono la sentenzia delle leggi, anzi quella de’ ruffiani. Diventano superbi e non umili, se qualche puttanella non lo comanda, e se loro non mitiga: e non solamente ricevono i doni, ma dimandano e fanno mercatanzia e inganno; e procedono infino alla forza accesi di furore, se non possono fare altrimenti quello che egli desiderano. E così essendo diventate ottime esponitrici di leggi la lussuria e la moneta, indarno si domanda ragione al banco, se quelle o alcuna di quelle7 non ajutino.
Note
- ↑ Cod. Cass. erano i Romani adostre. Test. Lat. expeditio a Romanis in Algidum.
- ↑ Cod. Cass. contro agli trinni. Test.Lat.adversus Æquos.
- ↑ Cod. Cass. e voggendosi lanimo vago averse cose. Test.Lat.cum in varia labentem volxisset animum.
- ↑ Cod. Cass. overo lasciato. Test.Lat.laxentur habenæ.
- ↑ Test.Lat.in lucem deducunt.
- ↑ Cod. Cass. che e cosa di male non si faccia nontemono ipossenti chonvertire adiligenza dicrudelta alchuno timore di ddio quello che si truova intemperanzia dicrudelta. Test.Lat.Quid hoc mali est? non verentur præfecti, quod in temperamentum libidinum adinventum est, ubi nullo Dei timore territi, in licentiam vertere scelerum.
- ↑ Cod. Cass. se quelle chonalcune diquelle non aiutorio. Test. Lat.nisi ab his vel ab earum altera suffragia impendantur.