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IX. Mario Rapisardi

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IX.

Mario Rapisardi.

In Sicilia e precisamente sull’Etna c’è, pretendono, un castagno detto dei cento cavalli per le sue proporzioni colossali di tronco e di frasche. Questo ricordo vago del bel tempo in cui studiavo geografia mi è balenato fra un verso e l’altro del «Giobbe» di Rapisardi, il poeta cresciuto come quella sua pianta alle falde del Mongibello; nutrito come lei di fiamma e di sole. Ma qui l’aria, il suolo scottano. Come faremo mie gentili compagne?... L’albero è un fronzuto gigante, sì; forse troveremo in qualche punto un po’ di refrigerio.

Mario Rapisardi ha scritto anche dei versi lirici ma io preferisco darvi solamente qualche frammento di un suo poema, prima come opera di maggior entità, poi perchè rende meglio, mi pare, il michelangiolesco stile dell’autore. Un poema italiano moderno che non faccia ridere è una cosa tanto rara che bisogna proprio che lo conosciate anche imperfettamente.

Dunque il «Giobbe» secondo avverte l’autore, non è che l’ultima parte d’un ciclo al quale [p. 228 modifica]appartengono pure due poemi precedenti: «La palingenesi» ed il «Lucifero»; ed è a sua volta una trilogia. Sebbene nella prima parte vi siano colorite magistralmente e la vita patriarcale e le sciagure che fecero passare in proverbio la pazienza del virtuoso servo di Dio, Giobbe non è qui che un simbolo adombrante il pensiero umano nel suo faticoso e doloroso errare in cerca della pace.

Un fare largo, vigoroso, a rilievi, a sfumature; una sobrietà classica, un’elasticità di idee rivestite sempre opportunamente, un’arte delicata e insieme profonda, e su tutto un riflesso vivido del sole di mezzogiorno: quel mezzogiorno benedetto che ci dà i fiori più profumati e i frutti e gli ingegni più saporosi; — ecco la musa di Mario Rapisardi. Una Musa dalle forme opulente e dal profilo fine e pensoso, come certe figure del Guercino.

Leggiamo insieme la descrizione dei giardini di Giobbe:

.... E da un lato i giocondi orti feraci
Di molti erbaggi festeggianti il sole
Con lor varie verdure, offrian sovente
Se non lauto, alle cene ampio tributo;
Fiorivano dall’altro i bei giardini
Delle case delizia. Ivi precoce
Mandorlo accanto il zèfiro blandisce
L’odorato albicocco; in tra le scure
Foglie nevate di recenti fiori
S’impiattano le arance; dipende
Dal torto ramo il languidetto fico,
Che lacero la buccia e in bocca il miele
Primo seduce il passerel furtivo.
Vedi su l’orlo delle pale irsute
Schierar le frutta l’indico banano,
Dolci frutta alla lingua, orride al tatto.
Di cui tanto il nativo Etna s’allegra;

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Noderoso ingiallir presso ai vermigli
Grappi del mite tamarindo il forte
Pomo cidonio, che serbato il verno
Rustici alberghi e vestimenti odora.
Ecco non lungi dal cireneo olivo,
Il sesamo oleoso; ecco l’opimo
Alve di Socotôra, che la sete
Smorza del sobrio camello; il sicomoro
Dalle bacche turchine e il tamerice,
A cui flessili e folti a par di crini
Piovono i rami dall’amaro tronco,
Che le febbri cocenti in fuga volge.
Nè te, ritrosa sensitiva, a cui
La vereconda vergine somiglia,
Avea pure scordato il buon cultore:
Nè voi, piante felici, ond’uom distilla
Manne vitali e preziosi aromi;
Con l’acacia del Nil sorgon confusi
I cinnami fragranti; si pompeggia
Nel color aspro delle sue corolle
Il selvatico grogo: odora il nardo
Dalle storte radici, in quel che presso
Agli olibani pii gemon le rame
Del balsamo superbo e i provocati
Pianti avviva di dolci iridi il sole.
. . . . . . . . . . . . . . .


Dopo questa evocazione d’un cantuccio fortunato della biblica Arabia, dopo gli aromi e il fogliame, eccovi un quadretto asiatico di genere.

Anna la vecchia nutrice di una delle nuore di Giobbe, e un’ancella, s’accingono a fare il pane. Mi pare una scena dell’Odissea:

.... Mentre in queste memorie s’avvolgea
La vecchiarella, e dava esca alla fiamma
Che sorgea scoppiettando e le nodose
Braccia arrossiale e la rugosa guancia,
Una serva robusta entro capace
Madia su quattro saldi piedi eretta,

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Agitando lo staccio e i colmi fianchi,
La farine scernea, candido monte
Facevane nel centro, ad esso in cima
Aprìa con pronta mano ampio cratere,
Con pingue latte di camella il caldo
Fonte commisto vi versava, e tutto
Rimenando e intridendo e con gagliarde
Nocche pigiando e con sonanti palme,
Dùttili ne facea biondi pastoni:
Indi, raschiato della madia il fondo
E sgrumate le dita, in picce uguali
Distingueali; con dolce olio d’oliva
Le careggiava, e su convessi forni
Le disponea con vago ordine in giro.
. . . . . . . . . . . . . . .


Vorrei che un pittore s’innamorasse di questo soggetto di un’antica semplicità. Vorrei vederle vive di colore e di forme questa vecchia grinzosa, questa giovine schiava nel bel costume di Sara e di Rachele, intente all’opera faticosa e buona, a cui l’ambiente dovrebbe dare una maestà rozza, ma quasi rituale. Che forte e sapiente contrasto la gioventù rigogliosa dell’ancella, tutta appariscente in quell’atto di domare la pasta con le fresche braccia accanto alla vecchia accoccolata nei bagliori rossastri ravvivando il fuoco! Come questa scena nella sua umiltà secolare ci riposerebbe dalla sequela di paesaggi, dalle modernità scipite o sguaiate che adornano le pareti delle mostre di pittura!...

Ma mi accorgo che ho la lingua un po’ troppo lunga qualche volta, e non è un buon esempio che vi do, signorine. Torniamo piuttosto al poema.

Il fantasioso e nutrito poema è in endecasillabi sciolti, ma poi quando la materia quasi lo richieda, cangia improvvisamente metro ed andamento con un effetto stupendo. Le giovinette amate dai figli [p. 231 modifica]di Giobbe cantano. Leggiadrissime canzoni cantano. Udite questa di Zilpa, l’invincibile;

Un paese conosco ove non ride
Caldo e raggiante il sole;
Ma quanto infido è il Sol, tanto son fide
L’anime e le parole.

Ivi oceani non son, non son vulcani,
Nè abissi il suol nasconde;
Non fiamme d’amorosi impeti umani
Non mar d’ire profonde:

Ma deserti di fiori entro una blanda
Fascia di nivea luna,
Laghi a cui fan gli azzurri ampia ghirlanda
Senz’onda ed aura alcuna.

In palazzi d’opale e di coralli,
Avvolte in roseo velo
Pallide giovinette intesson balli
In fra la terra e il cielo.

In fra la terra e il ciel, come fragranza
Che il freddo aere molce,
S’alza un canto di pace e di speranza
Monotono ma dolce.

Oh fratel mio, tal rigido paese
È qui dentro il mio core:
O amico e difensor bello e cortese,
Io non conosco amore.

La seconda parte del poema è tutta occupata da una visione di Giobbe. È rigidamente ascetica. Simboleggia, parmi, il periodo di cieca fede del pensiero umano — l’età dei martiri, dei crociati, dei santi. C’è un intermezzo composto di laudi — le laudi sacre che, nel secolo decimoterzo, pie compagnie d’uomini e di fanciulli, di nobili e di plebei, accesi [p. 232 modifica]dallo stesso ardore spirituale cantavano nell’Umbria ricordandosi del fraticello di Assisi. Queste laudi del Rapisardi sono una sapientissima imitazione di quelle. Par di sentirvi l’estro religioso di Iacopone da Todi. Eccovene un saggio:

LAUDA DI ANACORETA.

Patria, amici, parenti, famiglia abbandonai
E in questo solitario antro mi ricovrai:
Dio che alla terra oscura manda del sole i rai
Porse alfine un conforto a’ miei terrestri guai.

Il mondo è una gran selva d’alberi velenosi
Dove fra l’erbe e i fiori stan biscie o serpi ascosi,
Dragoni e basilischi dagli occhi sanguinosi
Insidian la salute dei giusti e dei pietosi.

Son l’erbe, a chi le calchi, più che rasoi taglienti,
Le fragranze de’ fiori producon febbri ardenti:
E di quei mostri occulti son così aguzzi i denti,
Che squarciano le viscere delle smarrite genti.

O dolce solitudine, tu di virtù sei scola,
Da te la pellegrina anima a Dio sen vola,
In te la mia tristezza s’aqueta e si consola,
Beata solitudine, beatitudin sola.
. . . . . . . . . . . . . . .

Cito qui per il contrasto un canto di Goliardi. La poesia goliardica nel suo rudimentale tentativo di rinascimento dell’arte, fu a quei tempi di penitenza come una spera di sole dardeggiante attraverso la mistica e fredda ombra di una cattedrale: [p. 233 modifica]

CANTO DI GOLIARDI.

Sulla terra già Venere scende,
Vengon seco le grazie e gli amori,
Sul suo capo il cheto aere s’accende,
Sotto il piè le germogliano i fiori.

Madre e dea d’ogni cosa gentile
Orna i rami, gli augelli ridesta;
L’aria, l’acqua, la terra è una festa:
O l’aprile, l’aprile l’aprile!

O fanciulla che languida giaci
Fra le piume, e sognando sorridi,
E il ciel suona di canti e di baci,
Freme il bosco d’amplessi e di nidi.

O fanciulla, son rapide l’ore
Della gioia, a te mormora il rio;
Sorgi, vieni ti dice il cor mio:
O l’amore, l’amore, l’amore!
. . . . . . . . . . .

L’ultima parte della trilogia è scientifica e un po’ faticosa agli indotti. Pure scorre tutta così tersa, così, direi, lieve, nella sua profondità che se ne ricevono ugualmente impressioni luminose. È un viaggio nell’ètere, di Giobbe guidato da Iside che raffigura ad un tempo la Scienza ed il Mistero. È una ideale peregrinazione da stella a stella, da luce a luce, durante la quale Giobbe ascolta dalla sua guida il racconto della formazione del mondo, età per età; — è il viaggio del pensiero attraverso l’abisso dell’infinito. Egli scopre, esulta, s’inebria, finchè arrivato al limite la natura gli dice; Arrestati! Icaro cade...

Intanto Giobbe s’esalta dei nuovi orizzonti che gli si schiudon dinanzi, della virtù nuova che s’è [p. 234 modifica]fusa al suo spirito e che lo fa avido di comprendere, di spaziare, d’innalzarsi:

In alto, in alto! all’etere
Padre al fecondo sole
Sorge ed inconscia palpita
Ogni vivente prole;
O che da germe cieco
Sbocci o da grembo, o come verde smalto
Erbeggi in prato, o induri in selva: o libera
Discorra e voli, o bosco abiti o speco,
Sempre dovunque un’intima
Legge la chiama e la sospinge in alto.
Manda la terra gli umidi
Fumi dal seno, ond’hanno
Nubi di vita gravide
Gli astri al mutar dell’anno.
Desti al gagliardo attrito
Di secchi tronchi e resinose tede
Guizzan dal foco gl’inquieti spiriti
Ubbidienti ad un supremo invito;
E, fiamma anch’essa, l’anima
Lingueggia ardente ad un’eterea sede
. . . . . . . . . . . .

Ho finito per oggi, amabilissime. Non crediate però ch’io abbia inteso di farvi una rassegna del bel libro, nè che vi abbia comunicato tutte le mie impressioni. Mi mancano il sapere e lo spazio; due cose, vedete, essenziali. Ho solamente desiderato che conosciate un po’ più del titolo d’un’opera che fa onore all’Italia. Vi ho attinto per voi delle gemme, sì, ma molte altre ricchezze riposano nel fondo di quel piccolo mare. Un vero mare, con le sue glauche trasparenze, i suoi scogli, i suoi mostri, le sue perle, le sue falangi di deità invisibili, e le sue carcasse umane, la sua sinfonia di voci, e il gemito eterno d’un titanico dolore... [p. 235 modifica]

Piccolo intermezzo in prosa.

«.... Quando ero un garzonetto di circa nove anni, — mio zio mi fece domandare, — per cacciar il falco, cavalcare con lui, — e tenergli compagnia.

E soffiò il vento del Nord, — il vento del Nord nell’uragano — e un sonno di morte piombò su di me, ed io caddi dal mio cavallo.

La regina delle fate or mi tiene, nella sua collina verde per rimanerci; e sono un elfo leggiero e sottile, bionda fanciulla, non lo vedi tu?!...»

(Frammento d’una ballata Scozzese).