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Agitando lo staccio e i colmi fianchi,
La farine scernea, candido monte
Facevane nel centro, ad esso in cima
Aprìa con pronta mano ampio cratere,
Con pingue latte di camella il caldo
Fonte commisto vi versava, e tutto
Rimenando e intridendo e con gagliarde
Nocche pigiando e con sonanti palme,
Dùttili ne facea biondi pastoni:
Indi, raschiato della madia il fondo
E sgrumate le dita, in picce uguali
Distingueali; con dolce olio d’oliva
Le careggiava, e su convessi forni
Le disponea con vago ordine in giro.
. . . . . . . . . . . . . . .


Vorrei che un pittore s’innamorasse di questo soggetto di un’antica semplicità. Vorrei vederle vive di colore e di forme questa vecchia grinzosa, questa giovine schiava nel bel costume di Sara e di Rachele, intente all’opera faticosa e buona, a cui l’ambiente dovrebbe dare una maestà rozza, ma quasi rituale. Che forte e sapiente contrasto la gioventù rigogliosa dell’ancella, tutta appariscente in quell’atto di domare la pasta con le fresche braccia accanto alla vecchia accoccolata nei bagliori rossastri ravvivando il fuoco! Come questa scena nella sua umiltà secolare ci riposerebbe dalla sequela di paesaggi, dalle modernità scipite o sguaiate che adornano le pareti delle mostre di pittura!...

Ma mi accorgo che ho la lingua un po’ troppo lunga qualche volta, e non è un buon esempio che vi do, signorine. Torniamo piuttosto al poema.

Il fantasioso e nutrito poema è in endecasillabi sciolti, ma poi quando la materia quasi lo richieda, cangia improvvisamente metro ed andamento con un effetto stupendo. Le giovinette amate dai figli