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X. Lorenzo Stecchetti

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Dal mio Verziere - IX Dal mio Verziere - XI

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X.

Lorenzo Stecchetti.

Ancora un frutto vietato! Dio buono quanti! Di questa specie però ne avete assaggiati qualcuno ben mondo, ben inzuccherato, ben isolato in una coppa di cristallo, al giulebbe della musica di Rotoli e di Tosti.

Qualche altro ve lo sbuccerò io, ma pochi. «Anche senza leccornie si vive» ha detto l’altro giorno con filosofia semplice e profonda un vecchio medico a un golosino di mia conoscenza. Parole che possono essere fondamento di una regola di vita — parole da scriversi in oro su ogni camera di fanciulla.

Chi non conosce la gherminella ordita da Olindo Guerrini per dar maggior attrazione e pubblicità alle sue poesie? Chi non ha sentito intenerirsi il cuore [p. 236 modifica]pensando a quel povero tisico che scriveva, conscio della sua fine, versi così appassionati e soavi? Chi, vedendo sull’elzeviro quel titolo di «Postuma» e quell’avvertimento «Edito a cura degli amici» non ha riflettuto con un senso di sollievo che, dopo tutto, in questo mondaccio vi sono ancora degli animi nobili e disinteressati ne’ quali accanto allo sfolgoreggiante eroismo s’illumina e splende di luce propria la fiammella pallida e dolce della pietà? Oh gentile fratellanza di spiriti! Amicizia buona più forte de la morte! Povero Lorenzo Stecchetti, povera giovine vita falciata così! — E la melodia soave e triste di quei versi scendeva all’anima, e quei versi circonfusi da un’aureola di martirio, purificati, quasi, dalla morte, andavano a ruba, e alle imprecazioni, alle volgarità si applaudiva come al canone di una nuova scuola emancipata dalle ipocrisie, e le gemme poetiche si trasformavano in ghirlande per la tomba del grande e disconosciuto poeta.

Infatti una vaghezza fresca, gracile, melanconica come quella di certe adolescenze destinate a non varcare il limite che le separa dalla giovinezza — una promessa fittizia di energia per l’età matura, ricascante spesso in un languore dolce o nella disperazione, qualchevolta in un’ironia heiniana — la sensazione lucida dell’immensa vanità del tutto, più sentita che espressa, come spesso i predestinati hanno: una delicatezza acuta troppo per la vita: — nulla manca per la verosimiglianza di quell’anima artificiale che lagrima, o raggia nel verso.

Chi non ricorda il sospiro soavissimo: [p. 237 modifica]

Voi che salite questo verde monte,
E il silenzio cercate
Dov’è più folto il bosco e chiaro il fonte,
Anime innamorate,
Pietà di me! Sul margin della via
Seggo soletto e gramo,
Ahi! grave, amanti, è la sventura mia!
Pietà di me! non amo.

d’un lirismo così dolce, così dimesso, così fuso col sentimento quasi di vergogna per la triste impotenza che inaridisce il cuore? C’è un alito di frescura e di pena come in un limbo.

E questa di un’efficacia rappresentativa così sincera, così suggestiva:

Nell’aria della sera umida e molle
Era l’acuto odor dei campi arati,
E noi salimmo insiem su questo colle
Mentre il grillo stridea laggiù nei prati.
L’occhio tuo di colomba era levato,
Quasi muta preghiera al ciel stellato,
Ed io che intesi quel che non dicevi
M’innamorai di te perchè tacevi.

Tutta la sinfonia della sera, l’elevazione nello spazio, verso il bene infinito, dei profumi delle voci, dei cuori. E pensando questa delicata sfumatura scritta da un povero ragazzo malato, l’anima vibra d’una pietà che è quasi una tenerezza. Ahimè, infatti il poeta è forse morto davvero....

Lorenzo Stecchetti è uno scapestrato, pure è capace di dare dei buoni consigli alle fanciulle. La poesia che termina con la famosa terzina:


Quando ti specchierai ti dica il core
Che una perla rubata a’ tuoi capelli,
Solo una perla può salvar chi muore

[p. 238 modifica]è tutta di avvertimento amoroso e severo come di un amico eletto. Un altro finissimo sentimento di pietà riguardosa, lo Stecchetti mette nel cuore e sulle labbra della donna amata:

Questa notte in battello in alto mare
Del mondo ci eravam dimenticati;
Ci dicevamo le parole care
Che san soltanto dir gl’innamorati
. . . . . . . . . . . . . .

Quand’ella tacque, da un pensier colpita,
E dall’òmero mio la testa bionda
Improvvisa levò come atterrita,

E colla faccia stranamente fissa
Nella notturna tenebra profonda:
Taci — mi sussurrò — laggiù c’è Lissa!

Eccovi per ultimo un accento vigoroso e splendido di vita e di verità:

E pur mi sento nel cervello anch’io
Qualche cosa che vive e che lavora;
E pur quest’aura che il mio volto sfiora
L’alito par dell’agitante Iddio!

Talor, cedendo a’ sogni miei, m’avvio
Per floridi sentier che il mondo ignora;
Salgono i canti alle mie labbra allora
E spero e credo nell’ingegno mio.

Ma quando il dubbio mi risveglia, quando
Via per la nebbia del mattin tranquille
Sfuman le larve che seguii sognando,

Colle man mi fo velo alle pupille
E mi guardo nel core, e mi domando
Sono un poeta o sono un imbecille?

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Ah, gl’imbecilli non hanno mai di questi dubbi, Lorenzo gentile! gli imbecilli non sapranno mai che cosa sia una di queste indefinibili intime lotte di chi sente lo spirito tutto cangiato in una sottile e tremolante fiammella — così sottile e così tremolante e così sacra che la vertigine prende al pensiero che potrebbe spegnersi, e che noi ne morremmo di freddo e di buio come se si spegnesse il sole. È vero:

nessuno può toglierci i tesori dell’ingegno — ma li sentiamo così poco nostri! ma chi li possiede non può nemmeno solamente calcolarne il valore! non sa da che hanno avuto principio, se e come avran fine, se si rinnovellano, se si distruggono — e li sente ondeggiare in una paurosa fralezza, ed intuisce solo che sono una splendida somministrazione di una mano ignota e Divina, troppo splendida e troppo preziosa per noi giacchè quasi sempre si storpia nella forma della parola....

E se ne stanno, gli eletti, così a mani protese, come ciechi sotto una manna di rose. [p. 240 modifica]

Piccolo intermezzo in prosa.

«Quandion découvre des grandes taches dans l’âme de ceux qu’on aime, il faut se consulter, se consulter et savoir si on peut les aimer encore malgré cela. Le plus sensé est de cesser, le plus genereux est de continuer.»