Dal mio verziere/Dal mio Verziere/III
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III.
In un volumetto abbastanza dozzinale sui poeti bolognesi trovo però questa felice similitudine, o meglio, questa giusta intuizione di due caratteri diversi in poesia: «Il Carducci è armonioso, il Panzacchi melodioso, il primo è il poeta classico per eccellenza, il secondo è il poeta romantico, ma questi due aggettivi nel senso alto, vero, esatto della parola». L’essenza, se non la frase, era questa. Di mio vorrei aggiungere che Enrico Panzacchi canta sempre in tono minore come l’usignolo e come usò di preferenza il Bellini. Le sue liriche sono tutte come i fiori del pensiero, bellezze meste e memori — tutte — anche quelle che non ricordano, poichè rievocano non so quali voci dolorose e antiche di naufraghi; tutte le voci che pregarono e piansero e disperarono e si sommersero in un infinito di azzurro e di passato. È come una resurrezione fittizia e melanconica di parvenze a cui sia permesso, come in certe ballate d’oltr’Alpe, di animare di biancori e di sospiri un parco boscoso per un’ora di una mite notte d’estate. Sono spettri di pensieri, di fedi, d’illusioni, di giovinezze, di speranze, di virtù... spettri sui quali ha penetrato dalle fessure del sepolcro un raggio di luna e la possente parola che tutto vince, nel canto che li piange, li chiama.
Il Panzacchi possiede inoltre una qualità essenziale ad un poeta: il senso squisito della misura. Non dice mai troppo nè troppo poco; ha la valentìa somma dei tocchi maestri che lasciano indovinare più che non rappresentino, e non sfatano il mistero eloquente delle ombre. Su i suoi bei versi aleggia sempre un non so che d’inafferrabile e di dolce, come un fluido che carezzi invisibilmente, o meglio come un’aria montanina di cui non si avverte ma si respira la purezza. È poi di una semplicità refrigerante, o culli accanto al fuoco i suoi sogni, o fantastichi d’angeli, di cavalieri e di re, con una freschezza colorita e gentile.
Anzi questo carattere, che secondo il mio modesto parere è il migliore della sua poesia, trovo che in Italia non si è rilevato nè ammirato abbastanza. Pochissimi dei nostri, quasi nessuno, lo supera nella ballata e nella leggenda. Udite, ecco per me il capolavoro in versi del Panzacchi:
I TRE CAVALIERI
Canti di galli uscian d’ogni cascina
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La delicatezza, la vigorìa, la sobrietà, il simbolo, lo sfondo del paesaggio e gli aspetti della natura così bene armonizzati cogli ideali dell’anima che vi si rispecchia trovando sempre l’immagine sua nelle ore, nelle cose, ci possono far paragonare e forse anche preferire questa ballata a qualche ballata di Bürger, di Uhland, di Platen, di Heine, se non a quelle del gran Goethe. La cavalcata di quei tre cavalieri taciturni, estranei, ignoti, in ciascuno dei quali arde una diversa fiamma roditrice, ognuno dei quali è sospinto al suo destino fatalmente, assurge a una potenza drammatica meravigliosa, appunto per l’assenza dell’elemento macabro che dà l’efficacia alla maggior parte delle fantasie di questo genere. Qui l’efficacia viene tutta dall’umano, dal simbolo, dalla semplicità di quegli echi ineffabilmente dolorosi più che di dolore, di vanità. Voi, signorine, che più o meno traete tutte fila d’argento da una conocchia d’oro nell’olezzo della flora primaverile, voi forse preferite il primo cavaliere che si appaga di una giovinezza inghirlandata di fiori; o anche, se siete vivaci e fiere, può sorridervi nella fantasia il guerriero che si slancia alla conquista della gloria per rendersi più degno dell’amore; ma che numerosa schiera di anime dolenti e ferite, quelle che tollerate male nella vostra compagnia, signorine, perchè v’annoiano o v’immalinconiscono, quelle che passano silenti nella vita senza gloria e senza amore, si sentono baciate da quell’anima solitaria che si dilatava sconsolatamente nell’ombra!...
Affrettiamoci un poco, ora, a riguadagnare il tempo speso, non perduto. Ecco due sonetti che vi daranno un’idea esatta della vaghezza melodiosa e lieve della poesia del Panzacchi, che mi par sempre cantata fra il verde melanconico del purgatorio dantesco da voci spirtali e penitenti:
PAESAGGI
I Non sussurrava un alito di vento
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Come che s’aspettasse un grande avvenimento. Avete sentito tutta la verità della sensazione colta a volo dal poeta? Quell’attesa muta della natura a certe ore, a certe stagioni, quando ci sentiamo tristi o rimpiccioliti come se fosse troppo bella per noi! E quell’occhio della luna dietro il pioppo, chi non l’ha veduto, chi non lo rivede di voi, fanciulle della mia regione Emiliana, riflesso blandamente in questi versi come in sogno?
Ecco il secondo sonetto ad effetto di nebbia, sfumato sapientemente. La chiusa poi è bellissima:
II.
Quando i tetti s’ascondon nella volta |
Vi narrerò una fiaba prima di dirvi addio per questa settimana. Vi piacciono le fiabe? Jolanda le adora:
Il bellissimo re ferito in guerra |
Dormi, bellissimo re. È difficile addormentarsi quando si rimase feriti; è più difficile che destare le belle assopite nei boschi incantati. A destare, basta un bacio; ma a procurare un riposo e un sogno, abbisogna tutto un sacrifizio di riposo e di sogni. E di ciò non poteva esser capace che una donna... Che ne dite, signorine?..
Piccolo intermezzo in prosa.
«Il faut toujours parler comme si l’on devait être entendu, êcrire comme si l’on devait être lu, e penser comme si l’on devait être médité».