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Ma le querele eran dal pianto rotte
E gli cadea sul petto il capo ardente,
L’anima sua per l’ombre della notte
Si dilatava sconsolatamente.

E pensava il dolor ch’è nelle cose
E vedea l’aridezza entro il suo core;
Un cammin senza lauri e senza rose,
La vita senza gloria e senza amore.

Allor lentò le redini al corsiero,
Com’uom cui brama nè pensier più tocchi,
E andò finchè d’un queto cimitero
Si vide la muraglia innanzi agli occhi.

Un poco riguardò, scese di sella
E al cavallo che lugubre nitrì,
Il cavaliero con fioca favella
Disse: «compagno, addio; mi fermo quì».


La delicatezza, la vigorìa, la sobrietà, il simbolo, lo sfondo del paesaggio e gli aspetti della natura così bene armonizzati cogli ideali dell’anima che vi si rispecchia trovando sempre l’immagine sua nelle ore, nelle cose, ci possono far paragonare e forse anche preferire questa ballata a qualche ballata di Bürger, di Uhland, di Platen, di Heine, se non a quelle del gran Goethe. La cavalcata di quei tre cavalieri taciturni, estranei, ignoti, in ciascuno dei quali arde una diversa fiamma roditrice, ognuno dei quali è sospinto al suo destino fatalmente, assurge a una potenza drammatica meravigliosa, appunto per l’assenza dell’elemento macabro che dà l’efficacia alla maggior parte delle fantasie di questo genere. Qui l’efficacia viene tutta dall’umano, dal simbolo, dalla semplicità di quegli echi ineffabilmente dolorosi più che di dolore, di vanità. Voi, signorine, che più o meno traete tutte fila d’argento da una conocchia