Dal mio verziere/Narcisi e Poeti
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Narcisi e Poeti.1
Spessissimo, leggendo gli ultimi versi d’un volumetto di rime elegante, attraente, mi sorprendo a pensare ai narcisi come per un’evoluzione naturale di pensiero — come se una china dolcemente irresistibile obbligasse le mie idee a scendere dai seguaci d’Apollo ai leggiadri fiori reclinati sulla riviera tersa a contemplarsi amorosamente. Suppongo ciò accada perchè la similitudine è press’a poco esatta e perchè non sono rari i poeti-narcisi nel fiorito giardino d’Italia... I toscani specialmente — poeti o no — s’inebriano tutti volentieri di quella lor vena facile, scintillante, gemmata, che zampilla inesauribile, che scorre armoniosa allietando e carezzando l’orecchio; ma dopo, eccoli puniti della pena inflitta al re che amò troppo la ricchezza: ogni cosa si cangia in oro al tocco della loro mano, in oro freddo, inutile, inanimato.
Un tesoro, uno splendore; ma la vita cessa — e di questa gelidezza aurea rifulge il volumetto di Giovanni Marradi.
Il Marradi è senza dubbio uno dei nostri migliori poeti contemporanei. I suoi versi hanno una delicatezza soave, una purezza di forma, una fluidità melodiosa non comune. Molti di questi «Nuovi Canti», i più belli, non erano ignoti agli ammiratori del suo ingegno: essi ricordano di aver esultato scoprendoli nelle riviste o nei giornali, giudicandoli gioielli.
Ora, rilegati tutti insieme, non sembrano più gli stessi. Perchè? Forse è la monotonìa che li sbiadisce; forse ciò che formava l’intimo pregio d’ognuno: una purezza radiosa e tranquilla, diffonde sul gruppo troppa pace, la bianca pace delle altezze, la pace delle cose morte.
Alle volte, qua e là, da qualche iridescenza più vivace, da qualche raggio saettante, da qualche luminosa Morgana si è tratti a sperare di sentirsi riscaldati da un’ondata di sole meridiano; d’udire un’eco, un singhiozzo, una voce, e si trepida nell’attesa del miracolo desiderato.
Invano; le iridescenze si cancellano, le saette dei raggi illanguidiscono, il giorno tramonta nel silenzio fresco e vergine d’un mondo novello ancora inabitato. Giovanni Marradi nel suo grandioso ed alto panteismo non aspira che ad identificarsi coll’azzurro del suo cielo e del suo mare, coi suoi colli boscosi, coi suoi giardini fragranti, colle sue foreste, colle sue primavere di cui nulla turba il perpetuo sereno, e in cui vuol cullarsi e fantasticare colla superiorità olimpica d’un dio. Quindi è naturale che le tempeste, gli uragani, le lotte, le tenebre del mondo dei viventi gli giungano affievolite e sfumate come un’eco, come una nebbia, come un sogno. Ed egli canta così senza palpiti, senza lagrime, senza dolore e senza gioia; canta librato in alto simile all’allodola, tutto assorto nel suo gorgheggio sapiente e melodioso.
Tra questi «Canti» mi sembrano bellissimi i sonetti primaverili intitolati «Matelda»; quelli compresi sotto l’unico titolo di «Sabato Santo» in cui spira una letizia lustrale; quelli del «Calendimaggio» tutti odorosi delle rose fiorentine; quelli di «Montenero» scultorei: trovo mestamente leggiadra la «Ballata d’Autunno»; creata da un’ispirazione assai felice la «Quercia abbattuta». Molte bellezze s’incontrano pure nell’«Epistola Senese» in cui il Medio Evo è evocato efficacemente in un’ottava sola:
O sogni! o poesia! Sazie di stragi |
Stupenda anche — sopratutto perchè è forte e vibrante d’un non so che di pietoso per l’irrequietezza umana — l’ode «Varcando gli Appennini». Altre due poesie, due sonetti, emergono pure dalla raccolta perchè trasfigurati da un turbamento gentile che dona loro una beltà tutta spirituale. Sono nel ciclo «D’oltremare». Eccone uno:
III.
Ma io, di notte, quando la campana |
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Questo spirito insolito di sentimento e di vita nuova dimostri l’ideale di perfezione a cui potrebbe assurgere la lirica dal Marradi purchè palpitasse di qualche tumulto, purchè la bellezza marmorea e fredda si solcasse delle lagrime della passione. Per ora non sono che emozioni fuggevoli, dopo le quali egli affonda di nuovo nel suo giaciglio di fiori e ricomincia a fantasticare. Ora pensa a un’isola per conto proprio all’isola dei beati:
laggiù dov’io vorrei, lunge da tutti, |
Ma io non gli auguro di trovarla, poichè il nirvâna non è la vita; io, se osassi, augurerei invece alla sua splendida Musa solitaria che sogna fra il rezzo nel bel castello incantato, il principe amoroso della leggenda che allontanando le fronde la destasse con un bacio.