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Flaubert, del povero Maupassant ci sono rimaste vive e nette nella memoria non tanto per quello che fanno per quello che pensano, quanto per un loro modo speciale di esprimersi: o un laconismo, o una parola insistente, o un giro di frasi, o un’esclamazione, o un vizio di pronuncia, che li rappresenta a noi autonomi e fuori affatto della lente dello scrittore! Qui in Italia, invece, sia per la difficoltà grande della lingua che si piega a stento ai capricci della nostra fantasia, o perchè l’idioma regionale non è ancor fuso in un disinvolto parlar italiano, nello scoglio danno anche i sommi — non eccettuato il D’Annunzio, il grande incantatore; e Matilde Serao, la fiamma viva.
Ma il «Re» mi aspetta, ed è proprio una cosa nuova far aspettare un re.
Bando dunque alle minuzie, tanto più che l’intento principale di Alberto Cantoni non fu di fare un romanzo, ma di guardare il mondo da un punto di vista diverso dal comune e con un paio di lenti lievemente affumicate. Molte cellule racchiudenti il germe dei grandi problemi della morale e della vita si susseguono sotto i suoi occhi: molte, non tutte; ed anche su queste indugia la lente più per afferrarne l’ironia e la vanità che per analizzarle o colmarle del suo pensiero. Raramente questo re espone un concetto suo, ben definito, e qui somiglio quell’amabile brontolone a certuni che non sanno che crollare il capo e sindacare e sofisticare colle mani alla cintola e col cervello soffuso di vaporosità inutili quanto leggiadre.
Condotta con arte delicata è la progressione di quel leggero pessimismo che forma il fondo dell’humor in generale e di queste regie memorie in particolare: appena trasparente dapprima, si addensa coll’ammon-