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l’essenza saporosa dei Paradossi di Nordau. Nè intendo con questo di sminuire la sua personalità di scrittore che si delinea spiccata come poche — tanto spiccata da impedirgli perfino di modificarla, quando entrano in ballo altri personaggi che a rigor di legge non sarebbe troppo verosimile trovare tutti, e sempre, in vena di far dell’umorismo come il protagonista o come lui. Per esempio, quella cortigiana d’ordine molto inferiore, che il re per un caso fortuito rapisce di notte dalla via, si esprime come la regina e come il presidente del consiglio: i due interlocutori che parlano di più. E dallo spunto dei discorsi di quelli che parlano di meno, si capisce che, se la loro loquacità fosse maggiore, manifesterebbero il loro pensiero allo stesso modo, che è quello del re. Ciò dà al volume una tinta di monotonia e un’intonazione di leggerezza che logorano la trama già lieve della narrazione.

Vero è che essendo memorie scritte da una persona sola, questa avrebbe potuto colorire del suo stile i discorsi che ripeteva; ma è verosimile che li infiorasse anche dei suoi sinonimi, dei suoi paragoni, dei suoi tratti di spirito?

Scoglio rude, questo del soggettivismo; contro il quale è così facile urtare specialmente nel dialogo — dramma o romanzo che sia — scoglio che pochissimi evitano, perchè mentre quasi tutti si occupano a donare ad ognuna delle proprie creature intellettuali una fisonomia propria, un’individualità, un tipo insomma, pochissimi si curano di darle anche una sfumatura di linguaggio proprio e distinto, come ognuno di noi ha nella vita a complemento e ad affermazione di sè. In questo i francesi possono esserci maestri. Quante larve di Zola, di Daudet, del