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cosmopolita e gli arrivano poi per la posta dall’Inghilterra ben suggellate e scritte in francese (perchè non in volapùk, la lingua universale?).
E lungo le memorie, divise in cinque fascicoli, non un raggio, non un filo, non la più piccola velleità d’una qualunque bandiera. Se l’intenzione della satira ci fosse, il Cantoni non avrebbe messo, mi pare, tanta cura per infiltrarci nella mente quasi a nostra insaputa la tranquilla persuasione che ciò non sia.
Un umorismo fine si diffonde per tutto il libro, a volte arguto, a volte un po’ dilavato, di buona lega sempre.
Leggendolo di seguito, me ne rimase l’impressione d’una di quelle polle d’acqua leggermente ferrugginosa sgorgante di continuo con un gorgoglio di dolcezza brontolona. Il sapore non piace a tutti, nè sempre; ma quando il palato ci si abitua, si prova un certo piacere ad affrontarlo. «Un re umorista» non è un romanzo nè un libro nato da un pensiero profondo; egli appartiene a una categoria assai scarsa in Italia, ma che non per questo ha la sua ragione di essere come altrove, specialmente poi se i mezzi adoperati sono sapienti, come ad esempio, qui, la snellezza dello stile di una prodigalità veramente toscana. Anzi qualchevolta se ne abusa, e allora l’agilità diventa acrobatismo, il quale, se da un certo punto di vista può costringere all’ammirazione, cessa in pari tempo d’esser arte vera.
Anche di quello spirito incisivo, motteggiatore, ch’è una delle attrattive del libro, il Cantoni si compiace troppo, di quando in quando a danno dell’efficacia, della finezza e delle linee generali del lavoro. Talora si stempera in tutta la vanità delle Storielle di Camillo Boito, tal’altra si condensa invece nel-