Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro IV/Capitolo V
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO QUINTO
§ I.
La magnificenza del sito, la sua commodità, l’abbondanza dei viveri, le disposizioni amichevoli degli isolani non potevano però ingannare la chiaroveggenza dell’Ammiraglio. Egli conosceva la mobilità di spirito de’ selvaggi, e la loro profonda dissimulazione. Queste popolazioni, ora soccorrevoli, potevano la dimane essere nemiche. Già due volte Colombo aveva potuto giudicare delle loro bellicose disposizioni1. Esse possedevano importanti flottiglie di canotti: riusciva lor facile affamare i naufraghi, o bruciarli insiem colle navi. Gli equipaggi estenuati dalle fatiche della subita navigazione parevano avere perduta ogni energia. Non si potevano rimettere in acqua le caravelle, nè costruirne altre; non rimanevano sufficienti operai per intraprendere un tal lavoro: inoltre tutti i mastri falegnami erano periti nella funesta giornata del 6 aprile.
Cristoforo Colombo si trovava naufrago senza tempesta; senza essere nè in mare nè in terra; esposto in prossimità della riva e privo dei vantaggi dei flutti; abbandonato all’immobilità ed all’impotenza. Situazione desolante perchè non v’avea modo ad uscirne. Come ottenere soccorso? Per qual via e per mezzo di chi far sapere alla Regina la scoperta delle miniere d’oro di Veragua, e l’esistenza di un mare inesplorato dall’altro lato del Nuovo Continente? L’Ammiraglio non aveva più nè scialuppa nè nave che potesse tentare il viaggio dalla Giammaica alla Spagnuola, quaranta leghe di un mare fortunoso, e contro la forza delle correnti e dei venti d’est, che spesso obbligano una nave perfettamente equipaggiata a più di un mese di lotta continua. Egli era mesto a motivo di questo suo stato quasi umiliante pel vincitore del mar tenebroso; era mesto per la sua lunga privazione dei Sacramenti della Chiesa e de’ conforti spirituali; mesto, sopratutto, perchè questo esilio ignorato, il cui termine era indefinito, ritardava viemaggiormente la liberazione de’ Luoghi Santi, tanto sospirata dalla sua pietà.
Nelle incertezze di questo suo stato, ad ogni buon conto scrisse ai Re cattolici il riassunto della sua esplorazione, chiedendo soccorsi che lo traesser di là.
Che Colombo abbia approntato un messaggio, non ostante l’impossibilità di farlo pervenire ai Re, è cosa che deve parer singolare: nessun altr’uomo in simile condizione avrebbe pensato a ciò2, perocchè il mezzo di trasmetterlo trascendea le forze umane: perciò, quantunque avvezzo a’ favori celesti, nello scrivere la sua lettera ai Re, Colombo diceva che se lor perveniva sarebbe stato un miracolo3.
E, infatti, unicamente per miracolo giuns’ella nelle loro mani;
Questa lettera, per lungo tempo obliata, sebbene sia stata stampata in Ispagna4, menò gran romore quarantacinque anni addietro nelle società scientifiche; Venezia, Bassano, Pisa, Firenze, Genova, Torino, Milano, Pavia, Roma e Parigi se ne occuparono: il dotto Morelli, bibliotecario a Venezia, la fece ristampare, accompagnata da note, sotto il titolo di Lettera rarissima.
Questa lettera è sommamente importante sotto i varii aspetti dei fatti marittimi, non meno che delle scoperte, degli avvenimenti raccontati e delle osservazioni raccolte. Ella ritrae sopratutto uno strano interesse dalle paurose circostanze in cui Colombo la scrisse, e dal modo, anche più sorprendente, con cui fu spedita. A dir vero questo documento non è una lettera: è una relazione, un riassunto di viaggi, una comunicazione del Rivelatore del Globo ai Re cattolici.
Alla semplicità sempre nobile dell’Ammiraglio si aggiunge qui un non so che di commovente ed antico, di superiore e divino, che sembra la suprema consacrazione della virtù mercè la sciagura. Come in tutti gli scritti di Colombo, qui spicca l’impronta della spontaneità: solamente la potenza del genio vi s’innalza e cresce per effetto della sublimità del cristiano in mezzo a prove estreme. Nondimeno l’araldo della croce pare non vi espanda più il suo amore per la creazione. Da poi che una penna straniera, quella del suo implacabile nemico, il vescovo Fonseca, è stata incaricata di rispondergli, diremmo ch’ei volle salvare da ogni profanazione la confidenza del suo ardente amore della natura e del suo inesauribile entusiasmo delle bellezze del Verbo. Un sentimento di scoramento traspira dalle sue parole, non ch’ei dubiti della Provvidenza o di sè; ma indovina che la salute della Regina, consumata dalle afflizioni, darà nelle mani ai consiglieri di Ferdinando gli affari delle Indie: perciò tace, vela o abbrevia certe particolarità; ha riservatezze di cuore e di effusion religiosa. Capo di un’impresa cristiana, sente che le sue parole saranno giudicate unicamente secondo il mondo, dallo Spirito del mondo, coi rigori dell’inimicizia segreta, e col disfavore delle pubbliche preoccupazioni. .
Primieramente l’Ammiraglio narra i patimenti e le infelicità inudite di quella navigazione. Annunzia l’esistenza dell’Oceano Pacifico, indica le miniere d’oro di Veragua, e delle contrade adiacenti; si distende particolarmente su questo soggetto, che sa essere l’unico che stia a cuore del Re, e dice: «io fo maggior caso di quella scoperta e delle miniere d’oro di questa terra, che di tutto ciò ch’è stato fatto sin qui nelle Indie5.
Prima di parlare di se si occupa de’ suoi equipaggi, della loro paga scaduta; invoca in loro favore l’interesse dei Re. La miseria degli uomini che hanno servito e sofferto gli ricorda che i disertori dalla colonia, i quai fuggirono il lavoro e calunniarono la sua amministrazione, avevano ricevuto impieghi; la quale cosa, dice, è di cattivo esempio. Questo difetto di giustizia lo riconduce al difetto di gratitudine a cui soggiace la liberazione del Santo Sepolcro, pensiero costante della sua vita. Pare che per dignità cristiana egli non voglia accennare nuovamente un disegno già stato sacrificato dall’ambizion di Ferdinando ad in certi ingrandimenti in Italia: ei non si diffonde a parlarne e nemmeno lo nomina, tanto è noto ai Re; ma il suo pensiero nodrito del pane quotidiano delle Sante Scritture, lo espone per via di una figura biblica: riveste la quistione de’ Luoghi Santi, che stanno attendendo la loro liberazione, della imagine del Salvatore medesimo, il quale aspetta colle braccia aperte, durante tutto il giorno, il popolo incredulo6. «L’altro affare, dice, ben più importante giace trasandato colle braccia aperte: fu tenuto sinora in conto di straniero7.»
Diciam di volo che questa magnifica imagine, evidentemente ispirata dal principe de’ Profeti Isaia, è sfuggita all’attenzione dei biografi di Colombo: nessuno di essi ne comprese il senso: nessuno dei dotti editori e traduttori della Lettera rarissima ne penetrò il significato, e andò conscio qual era quell’affare così importante, che, chiamando indarno a sè colle braccia aperte, aspettava8.
In conseguenza del suo sublime pudore, che gli vieta esporre più oltre ai dispregi ed alle dilazioni della corte ciò che serra in cuore, il Rivelatore del Globo vedendo chiaro che gli sarà d’uopo liberare co’ suoi soli mezzi il Santo Sepolcro senza il sostegno di Ferdinando, dimanda il dovuto a sè, come la parte di Dio medesimo. Egli dice ai Re: «è giusto dare a Dio ciò che è di Dio;» come se la sua parte fosse quella della Chiesa: riclama che gli siano restituiti i beni ed onori; e dimanda il castigo di coloro che lo hanno derubato e calunniato. «Adoperando in questa guisa, dice, le Vostre Altezze mostreranno una grandissima virtù, e lasceranno alla Spagna un grande esempio, e una memoria gloriosa siccome principi giusti e riconoscenti9.»
Quantunque la sua ragione e la sua equità non siano meno indegnate del suo cuore pel modo con cui furono ricambiati i suoi servigi, pur non emergono dalle sue lamentanza nè amare reticenze, nè vendicatrici ironie: si scusa, anzi, di avere risvegliato memorie che avrebbe voluto seppellire nel silenzio. Ma l’enormità dell’ingiustizia, e l’eccesso dell’ingratitudine a cui soggiacque lo commovono sulla sua propria sorte. Il carattere epico delle sue sciagure, la gigantesca poesia delle sue prove di mare, l’iniquità che patisce, la più incomparabile sicuramente dopo quella di cui gli Ebrei fecero segno il Salvatore, lo trasportano al di là del tempo; e il Rivelatore del Globo considerandosi ricordato dai posteri, deplora il destino mortale di Cristoforo Colombo, e sclama: «io ho pianto sinora sugli altri; ora, che il cielo mi faccia misericordia, e, che la terra pianga sopra di me!... che pianga sopra di me colui che ama la carità, la verità e la giustizia10.» Non la Castiglia e nemmeno l’Europa il messaggero della croce invita a piangere sopra di sè, ma il mondo che ha scoperto: «la terra pianga sopra di me!»
Qual mortale oso mai tenere un simile linguaggio? La sublimità di questa lamentanza corrisponde a quell’infortunio senza esempio. Qual poeta, qual profeta, qual eroe del Vangelo, parlando di sè, ebbe più potente ardimento d’imagini, e vestì di una più gran maestà l’accento sfuggito al suo cuore? Propriamente qui sentiamo che «lo stile è l’uomo;» la grandezza, la semplicità, la tristezza, l’ardimento vi si trovano naturalmente in armonia come una sola vibrazione dell’anima.» L’abbandono con cui questa lettera è scritta, dice l’illustre Humboldt, strana mescolanza di forza e di debolezza, di orgoglio e di umiltà commovente, c’inizia, per così dire, ai combattimenti interni della grand’anima di Colombo11.»
Scrivendo questa lettera, l’Ammiraglio annunziava che la manderebbe col mezzo d’Indiani. Diffatti, venturosi pirati si arrischiavano talvolta coi loro canotti, e a gran distanze, seguendo certe correnti e facendo scala su diverse coste: ma nessuno di essi era tanto stolto e noncurante della propria vita, per voler andare direttamente dalla Giamaica ad Haiti, navigando sempre contra le correnti e i continui venti dell’est. A qualsivoglia prezzo, nessun Indiano volle tentare l’impossibile, e provare i suoi remi contra una corrente di quaranta leghe di largo col vento avverso quasi continuamente.
Il messaggio rimase senza messaggero.
Meglio d’ogni altro, l’Ammiraglio giudicava di queste difficoltà, e di questi pericoli: sapeva l’impossibilità di percorrere quaranta leghe contro le correnti, e i venti sulle fragili navicelle de’ selvaggi.
Per nove giorni Colombo meditò tra sè e sè, e stette innanzi a Dio consultandolo; finalmente risolse di sapere ciò che l’Altissimo, secondo l’espressione di Pietro Martire, aveva deciso di lui12.
Unicamente un vero cristiano, cioè avvezzo alle annegazioni e pronto a sagrificarsi in onore di Dio e per l’altrui salute, poteva tentare questa impresa: ma chi sarebbe il magnanimo? Colombo aveva un bel cercarlo; egli non vedeva capace di un tal eroismo che il suo antico servo, il capitano di padiglione, Diego Mendez, ufficiale formato alla sua intima scuola, che amava Dio, la scienza, l’Ammiraglio e non era stato mai soggiogato da veruna disordinata affezione terrena. Sul decimo giorno l’Ammiraglio chiamò Diego Mendez ad una conferenza particolare, che, rimasta segreta per trentatrè anni, fu divulgata da Diego stesso il 19 giugno 1536, nell’atto solenne delle sue ultime disposizioni13. La grandezza d’animo richiesta necessariamente in un argomento sì delicato, e la gravità delle circostanze infondono a questo misterioso colloquio il più vivo interesse!
L’Ammiraglio e il suo capitano di padiglione erano soli davanti a Dio. Ecco le parole di Colombo:
«Diego Mendez, figlio mio, nessuno di quelli che sono qua, eccettuato tu ed io, conosce il pericolo in cui versiamo, a motivo del nostro picciol numero e della moltitudine degl’Indiani selvaggi, il cui carattere è incostante e capriccioso: quando venisse loro il ghiribizzo di arderci in queste due navi, che abbiam convertite in case di paglia, potranno farlo facilmente da terra, e bruciarci tutti. L’accordo che fermasti con essi, perchè ci portino viveri, può quando che sia non convenir loro più, e non v’avrebbe motivo di sorpresa in noi, se dimani non ci portassero più nulla: non siamo in istato di procurarci viveri a viva forza, e dovremo starcene a quello che vorranno. Ho pensato ad un mezzo per trarci d’impaccio, se tu lo trovi acconcio: e sarebbe che qualcuno si avventurasse sul canotto che hai comprato, per andare all’isola Spagnuola, e quivi procacciarsi una nave, la cui mercè uscire dallo stato pericoloso in cui ci troviamo. Dimmi su di ciò la tua opinione14.»
Diego Mendez rispose: «Signore, io vedo perfettamente il pericolo che ci minaccia, il quale è più grande assai che non si possa imaginare: considero il progetto di andar da qui all’isola Spagnuola con una navicella così piccola come quel canotto, non solamente cosa molto difficile, ma eziandio quas’impossibile, perche non conosco anima riva che fosse per osare avventurarsi15 a traversare un golfo di quaranta leghe, fra isole in: cui il mare e tanto impetuoso.»
Detto ciò v’ebbe un istante di silenzio.
Colombo non replicò, perchè non aveva nulla da opporre. Non si trattava più di ragionamenti, ma di sacrifizio: il suo sguardo, la sua attitudine dicevano abbastanza chiaro al suo scudiero che spettava a lui, uomo di fede e di coraggio, offrirsi nuovamente per la salute comune.
Diego Mendez comprese quel muto linguaggio del pensiero, e rispose: «Signore, io ho avventurato più volte la mia vita per salvare la vostra, e quella di tutte le persone che sono con voi, e Dio mi ha miracolosamente salvato. Nonostante il mio procedere, non sono mancati maldicenti, i quali hanno detto che voi fidate sempre a me tutte le cose, in cui si può acquistare onore, mentre vi sono altri che l’eseguirebbero al pari di me. Per tale motivo, parmi conveniente che la Signoria Vostra li faccia chiamar tutti, e proponga loro questa impresa, per vedere se fra loro trovasi alcuno che voglia incaricarsene, cosa di cui dubito; e se tutti ricuseranno, io arrischierò la mia vita pel vostro servizio, come ho già fatto diverse altre volte.»
La dimane tutti gli ufficiali furono riuniti in consiglio: erano seduti in semicerchio intorno all’Ammiraglio, il quale, esposto lo stato delle cose, propose di mandare un canotto ad Hispaniola; A bella prima rimasero muti di sorpresa; indi alcuni mostrarono che una simile proposizione era senza scopo, perocchè riusciva impossibile tentare un simile tragitto.
Allora Diego Mendez si levò e disse:
«Signore, io non ho che una sola vita, e voglio avventurarla pel servizio di Vostra Signoria, e pel bene di tutti quelli che sono qua, perchè spero in Dio, nostro Signore, che, vedendo l’intenzione che mi guida, mi salverà, come ha già fatto tante volte16.»
Udita questa risoluzione, l’Ammiraglio si levò dalla sua seggiola, tirò a sè il nobile Diego Mendez, l’abbracciò santamente, colla sua ammirazione espansiva, lo baciò sulle gote, e disse a voce alta: «io sapeva bene che voi solo osereste incaricarvi di una tale impresa17.» Dopo la giusta soddisfazione data all’ufficiale, volgendosi al cristiano, aggiunse colla vigoria di fede, misteriosa scaturigine della sua grandezza: «ho la ferma fiducia che Dio nostro Signore vi farà superare i pericoli che vi minacciano, come ha fatto in altre occasioni.»
Quantunque Diego Mendez avesse piena fede nella bontà divina, pure non trascurò veruna precauzione della prudenza umana. Fece tirare in secco il suo canotto, lo rivoltò, applicò ad esso una chiglia e un piccolo albero; ne rafforzò il davanti e il di dietro con sode tavole, lo spalmò con gran cura di sego e catrame, prese viveri per otto persone, e ricevuti i dispacci dell’Ammiraglio e le sue pie esortazioni si mise in mare con sei rematori indiani, ed uno spagnuolo cui la sua audacia aveva sedotto.
Prima di arrivare alla punta orientale dell’isola, bisognava andar lungo la costa trentacinque leghe, superare i colpi dei venti di terra, l’impetuosità delle correnti, e affrontare pericoli sconosciuti. Mendez fu sorpreso da una flottiglia di pirati indiani che lo fecero prigioniero: ma, racconta: «Dio mi liberò miracolosamente18.» Non lasciandosi intimorire da questo genere di accidenti, che non era entrato nel calcolo delle sue previsioni, continuò la via, e giunse finalmente all’estremità dell’isola.
L’inviato di Colombo aspettava quivi che il mare, allora agitato, si tranquillasse per cominciare il tragitto, quando gl’Indiani del vicinato macchinarono di trucidarlo e d’impadronirsi del suo canotto: già lo avevano preso e trascinato entro la terra a tre leghe, e giuocavano la morte di Diego ad una partita di palla; i perdenti dovevano incaricarsi dell’assassinio. Dio permise che Mendez comprendesse il loro disegno, riuscisse a ingannare la loro vigilanza, a fuggire, a riconoscere la sua strada, ed a ritrovare il suo canotto. Il vento era propizio; spiegando la vela l’intrepido capitano tornò al porto di Santa Gloria, recando salvi i suoi dispacci all’Ammiraglio. «Io gli raccontai, dice egli, in qual maniera Dio mi aveva liberato dalle mani di cotesti selvaggi19. Sua signoria ebbe gran gioia del mio ritorno, e mi dimandò se ricomincerei il viaggio.» Diego Mendez rispose che sarebbesi rimesso in via, purchè uno stuolo bene armato lo accompagnasse finchè avesse potuto allontanarsi dalla punta orientale dell’isola nominata Aomaquique. L’Ammiraglio pose a sua disposizione settanta uomini condotti dall’Adelantado, i quali dovevano rimanere con lui alla punta Aomaquique infino a che egli ne fosse partito, e stanziarvi tre giorni dopo la sua partenza.
Questo coraggio suscitò una nobile emulazione. Il capitano della Biscaglina, Bartolomeo Fieschi, di stirpe illustre e ammiratore di Colombo, quantunque fosse suo compatriota, si offrì di portargli le notizie dell’arrivo di Diego Mendez ad Hispaniola. Fu allestito un altro canotto. Sopra ogni canotto salirono con Diego Mendez e Bartolomeo Fieschi sei spagnuoli da loro scelti e dieci indiani per remare. Fu convenuto che giunto con essi all’Hispanìola, Fieschi ritornerebbe ad informare l’Ammiraglio del loro felice arrivo, mentre Diego Mendez andrebbe a portare al governatore la lettera di cui era incaricato, e che dopo spedita alla Giamaica una caravella ben provveduta di viveri, porterebbe in Ispagna i dispacci diretti ai Monarchi.
§ II.
Remeggiando di conserva lungo la riva, i due canotti giunsero a gran fatica alla punta Aomaquique: passarono quivi quattro giorni aspettando che il mare si tranquillasse; in capo a’ quali le onde parvero addormentarsi. Diego Mendez si raccomandò alla misericordia divina, alla protezione particolare di Nostra Signora d’Antigua, e pigliò congedo dall’Adelantado. In quel momento supremo gli occhi de’ suoi compagni si empierono di lagrime. Gli Spagnuoli della scorta, commossi a vedere quella confidenza in Dio, tocchi dalla grandezza di quel sacrifizio, «versarono torrenti di pianto20.» Quell’addio straziava i cuori. Ma l’inviato dell’Ammiraglio, si fece arma, contro quella tenerezza, delle parole del suo Capo: «Io ho la ferma fiducia che Dio nostro Signore ti farà superare i pericoli che ti minacciano, come ha fatto in altre occasioni.» E si allontanò dalla costa, volendo profittare di quella benignità dei flutti, cotanto rara in quel capriccioso mare.
Egli teneva l’est, quarto sud. I rematori lavoravano come potevan meglio; nessun soffio increspava l’azzurro dell’acqua. Il calore e la sete li molestavano: per rinfrescarsi e riposarsi si gettavano di tratto in tratto nel mare, e ripigliavano i remi gli uni dopo gli altri: siccome si lamentavano della sete i capitani davano loro di frequente fiaschetti pieni d’acqua: il primo giorno furono troppo compassionevoli21.
Verso sera non fu più veduta terra.
Per evitare ogni sorpresa gli Spagnuoli fecero il loro quarto sopra ogni canotto: la mattina erano rifiniti. ll calore crebbe col giorno. I rematori arsi dalla sete cadevano sui banchi. Diego Mendez e Bartolomeo Fieschi avevano messo in riserva due barili, e quando li vedevano così rifiniti, distribuivan loro qualche piccolo sorso d’acqua: facevano loro sperare che in breve giungerebbero alla piccola isola Navasa. Questa idea rialzò il coraggio de’ rematori, i quali temevano di averla lasciata fuori della loro strada.
Sopravenne la notte, che fu ardente.
Le loro braccia sceme di forza lasciavano cadere i remi; giacevano distesi immobili in fondo ai canotti. Il meno robusto di loro spirò fra’ tormenti della sete, e il suo corpo fu gettato in mare. La dimane fecero l’ultimo sforzo; ma il sole li bruciava; mettevano in bocca un po’ d’acqua marina per moderare quell’ardore, e non facevano che aumentarlo. Giunse la notte e non avevano per anco scoperta l’isola promessa. Allora una cupa desolazione occupò gli animi. Perduta ogni speranza determinarono dì morire.
Solo l’inviato di Colombo confidava in Dio, e serbava in seno qualche speranza. Intanto la luna si levò al nord: e Diego Mendez, che girava senza posa gli occhi intorno, notò che una linea scura e spezzata nascondeva la parte inferiore del disco: congetturò che una massa opaca s’interponeva fra l’astro e lui22: allora ringraziando il Signore di averlo soccorso con quel segno celeste, risvegliò lo zelo de’ rematori, che si posero tutti ai remi, e la dimane sull’albeggiare giunsero a Navasa.
Era questa un’isola bassa, arida, e che aveva solo una mezza lega di circuito, formata di nudi macigni senza fontane, alberi, piante. Per buona ventura nel concavo degli scogli giaceva ancor acqua delle ultime piogge. Diego Mendez rendette vive azioni di grazie a Dio di questa misericordia23. Vedendo la poca estensione ed elevazione di Navasa, comprese che, se il suo occhio non si fosse fissato sulla luna in quel momento preciso, avrebbe fuorviato senza distinguere la strada, e sarebbe perito per l’immensità dei flutti: quell’acqua riuscì a taluni funesta: v’ebbero Spagnuoli che, nonostante l’avvertimento dei due ufficiali, ne bevettero tanta da ammalare; e Indiani i quali spensero la loro sete con tale passione che ne furono soffocati, e quivi stesso morirono.
Avendo riposato alquante ore, Diego Mendez e Bartolomeo Fieschi risalirono sui loro canotti.
Essi avevano fatto riempiere d’acquai barili: remarono tutta notte, e la mattina presero terra al Capo San Michele, oggidì chiamato Capo Tiburon, sopra una bella spiaggia, ove accorse incontanente una moltitudine di abitanti del vicinato con gran copia di viveri24.
Passati due giorni in quel luogo per ristorare le sue forze, Diego Mendez noleggiò sei rematori indigeni, e si diresse a San Domingo lontano tuttavia cento trenta leghe. Quando ne ebbe corse quaranta in mezzo ai più gran pericoli, perchè quella parte dell’isola non era per anco sottomessa, e le spiagge andavano talvolta infestate da Caraibi antropofagi, prese terra al porto d’Azua, ove il commendatore Gallego, che amministrava il distretto, lo informò che il governatore generale Ovando era a Xaragua, a cinquanta leghe nell’interno delle terre. Abbandonando il suo canotto, egli partì incontanente per raggiungerlo, andando solo e pedestre in mezzo a tribù non sottomesse o aspreggiate, fra monti alti, fiumi rapidi e foreste inestricabili, che parevano sfidare il suo eroismo: la solitudine non lo spaventava: la sua fiducia in Dio e la memoria del suo Signore lo sostenevano contra i pericoli veri, e contra i terrori dell’imaginazione.
Appena fu Diego Mendez partito, Bartolomeo Fieschi volle tornare indietro per partecipare all’Ammiraglio l’arrivo de’ suoi dispacci ad Hispaniola: ma la spossatezza degli Spagnuoli e degli Indiani era tale, che non potè farli risolvere a seguirlo25. Per niente al mondo avrebbero ritentato in canotto un simile viaggio, il cui riuscimento pareva un miracolo, su cui non bisognava far fondamento due volte. Gli Spagnuoli consideravano quel prodigioso passaggio, fatto in tre giorni e tre notti, come non meno maraviglioso della conservazione del profeta Giona durante il medesimo spazio di tempo nel ventre della balena26. L’intrepido gentiluomo dovette adunque aspettar la nave che Diego Mendez era andato a chiedere al governator generale.
§ III.
Trattenuti sempre a bordo delle caravelle, gli equipaggi volgevano continuamente verso il nord gli sguardi impazienti aspettando il ritorno del capitano Fieschi speranzosi di scoprirne il canotto. Molte settimane si erano succedute in questa inutile aspettazione. L’influenza della nuova temperatura, gli alimenti esclusivamente vegetali a cui erano ridotti, la mancanza del vino e di cordiali confortativi dopo i patimenti inuditi che aveano sostenuti in quella navigazione senza esempio, abbatterono i temperamenti più deboli27; e buon numero di marinai fu costretto di stare a letto.
Questa circostanza afflisse gli animi già irritati dalle privazioni, dall’incertezza dell’avvenire, dall’isolamento e dall’immobilità a cui erano costretti. I giuochi dei dadi e delle carte si trovavano severamente vietati nella marina castigliana28: d’altronde, a che cos’avrebbero loro servito dadi e carte, quando non si poteva guadagnare un fiasco di vino o perdere un bicchier di liquore? ll magazzino de’ viveri era chiuso. Non vi aveano manovre da fare, nè esercizi di vele o di tiro. Due vedette poste in fazione sulle cabine del davanti bastavano per la sicurezza di quel noioso acquartieramento. La bellezza della rada, degna del suo nome, quella vision terrestre della gloria del Creatore, non commovea punto quelle anime cupide e grossolane. La noia nacque dall’ozio; e l’ozio, è il padre dei vizi: i marinari sfaccendati facevano segretamente commenti sulla loro situazione.
I nostri lettori non avranno dimenticato che le quattro caravelle della spedizione erano state noleggiate a Siviglia, e che la maggior parte di quelli che le montavano appartenevano a quel porto. L’Ammiraglio aveva scelto tutti i suoi ufficiali, eccettuati i due fratelli Francesco e Diego di Porras, anch’essi di Siviglia, impostigli dal tesorier reale Morales. Cedendo alle costui istanze, egli aveva nominato l’uno capitano del San Giacomo di Palos, e l’altro, notaro della squadra. Colombo li giudicava in questi termini: «nessuno dei due aveva l’ingegno e la capacità necessaria pei loro impieghi: ma io chiusi gli occhi per riguardo a quello che me li aveva dati. Nelle Indie si mostrarono sempre più vanagloriosi: condonai loro molte mancanze, che non avrei perdonate ad un parente, e per le quali meritavano tutt’altra punizione che semplici rimproveri29.» Lungi dal mostrarsi riconoscenti per un’indulgenza così paterna, i due Porras risolvettero d’illustrarsi e conquistare uno splendido stato a danno dell’onore e della vita del loro benefattore: si tenevano sicuri dell’impunità, mercè della loro sorella, a que’ dì in fama della più bella donna di Siviglia, della quale il tesoriere reale, Morales, era schiavo.
I fratelli Porras guadagnarono facilmente marinai e mozzi sivigliani che si trovavano onorati di aver a fare con gentiluomini concittadini. Corpo robusto, spirito rozzo, il già marinaio Pedro di Ledesma, dimentico della promozione di cui andava debitore all’Ammiraglio, si ascrisse complice della trama. Il piloto maggiore, natio di Cadice, ma affiliato alle genti di Siviglia, Giovanni Sanchez, che aveva lasciato fuggire il Quibian datogli in custodia, malgrado che rispondesse con parole da Rodomonte30, malcontento di sè medesimo e credendo di rimediare al suo fallo con un delitto, si associò al complotto. Eccettuati questi due ufficiali essi non poterono guadagnare alcuno de’ membri dello stato maggiore; sibbene nella maestranza e fra’ marinai tirarono a sè quanti erano in voce di più gagliardi e più ardimentosi, il mastro bottaio di Siviglia, Juan Noya, il mastro armaiuolo di Siviglia, Juan Barba, uomo sfacciato, Gonzalo Gallego e Francesco Cordoba, che furono disertori, Andrés e diversi altri marinai e mozzi, tutti del porto di Siviglia o dei dintorni. Questo complotto, a cui presero parte unicamente sivigliani, venne ordito sulle prime alquanto lentamente, affine di assicurar meglio il segreto: gli affiliati erano istrutti delle malevolenze che gli uffici della marina portavano all’Ammiraglio.
I Porras dicevano, a voce bassa, che l’Ammiraglio li riteneva miseramente accampati sul carcame fradicio delle due caravelle, affine di aver buona compagnia e formarsi una guardia, perch’era esiliato nè poteva ritornare in Castiglia; ch’eragli anco vietato andare alla Hispaniola; che n’era stato scacciato e il governo di essa dato ad un altro; che aveva mandato le sue due creature affezionato, Mendez e Fieschi in Ispagna, affine di veder modo di ammansare i Monarchi; e che manifestamente erano quivi sacrificati tutti al suo interesse personale. A poco a poco batterono in breccia la sua autorità, ricordando in qual modo gli uffici della marina costumavano trattare quel genovese, e come Roldano lo avesse costretto a rintegrarlo nella sua carica. Nessuno, inoltre, de’ marinai di Siviglia poteva ignorare le mene di cui era oggetto l’Ammiraglio; i sosptti e le umiliazioni senza fine che gli erano state inflitte: compresero che l’odio dell’ordinatore generale, Fonseca e la bellezza della sorella dei Porras31 difenderebbe la loro causa e farebbe lor perdonare la partenza: confidavano,altresì, per via delle loro accuse di fare in guisa che la corte, vedendo che nessuno poteva vivere con quello straniero, lo mandasse finalmente con Dio32. Giungendo a San Domingo, erano sicuri delle buone accoglienze del governatore Ovando, vero idalgo, che detestando l’Ammiraglio, sarebbe lietissimo di saperlo abbandonato da tutti, secondo i suoi meriti.
Diego Porras, che non aveva mai messo piede su di una nave prima di questo viaggio, trovava motivi nautici per giustificare la sua ribellione, dimostrando che l’Ammiraglio invece di venire scioccamente alla Giamaica, poteva molto bene andare dal Capo della Croce ad Hispaniola; e che le ultime avarie tocche alle caravelle, del paro che l’arenamento in quel maledetto porto erano la conseguenza del suo errore e del suo capriccio33. Nondimeno siccome non si poteva recare ad effetto la partenza senza canotto, senz’armi, senza oggetti di cambio; e queste cose non si potevan ottenere che colla forza aperta, vale a dire con un combattimento contro le genti dell’Ammiraglio, lo ch’era un partito estremo, fu deciso di aspettare che spirasse l’anno; e se non giungeva alcuna notizia a quel tempo, il 2 gennaio farebbero il colpo, e partirebbero per la Spagnuola.
Frattanto l’Ammiraglio, occupato dei malati, e pieno di sollecitudine per gli uomini da lui condotti alla ricerca dello stretto, giaceva egli stesso oppresso da patimenti fisici. I suoi dolori articolari tenevalo inchiodato in letto. Avezzo a soffrire, esercitato da lungo tempo alla rassegnazione, non mostrava alcuna impazienza. Un presentimento segreto lo assicurava che Diego Mendez era giunto felicemente: sapeva che il nobile Fieschi sarebbe tornato se lo avesse potuto. Il rifiuto duramente espresso da Ovando di accoglierlo nel momento del pericolo, gli dava anticipatamente la misura della sollecitudine che avrebbe posta a soccorrerlo nella sua penuria: il ritardo non lo sorprendeva: d’altronde la sua sommissione alla volontà divina, allontanava da lui i violenti pensieri e le segrete irritazioni da cui andavano agitati molti de’ suoi marinai.
Nonostante il segreto che i congiurati avevano promesso di serbare, il loro procedere e le acerbe loro parole palesavano i lor disegni ostili: alcunchè traspirò; sapevasi che v’avevano malumori: l’Ammiraglio aveva diverse volte raccolto a consiglio tutti i suoi ufficiali per chieder loro se trovavano qualche spediente onde uscire da quelle miserie: quanto a lui, non ne vedendo alcuno, il suo parere era di aspettare con fiducia e costanza, nonostante il lungo tempo già passato. In questi consigli i due Porras non avevano trovato nulla da obbiettare; quasi tutti gli ufficiali la pensavano come il loro Capo.
Cominciava il 1504.
Il 2 gennaio, giorno fissato dai ribelli, presero le armi. Francesco Porras, da essi eletto capo, entrò impudentemente la cameretta ove Colombo giaceva in letto inchiodatovi dai suoi dolori, e con modi provocanti gli disse: «pare, o Ammiraglio, che la signoria vostra non pensi a ritornar così presto in Castiglia, e sia risoluto di farci perir qua.» Questo principio sorprese Colombo, secondo la sua pittoresca imagine «come se i raggi del sole avessero prodotto tenebre34.» Udendo tali insolenti parole l’Ammiraglio sospetto incontanente l’avvenuto; e rispose con una moderazione piena di cortesia, esser chiara l’impossibilità di andare ad Hispaniola senza navi, e niuno ignorare ch’egli ne aveva mandato a chiedere al governatore; esser egli più d’ogni altro interessato a non soggiornare in simil luogo; che, attesa la gravità delle circostanze, non aveva voluto decider nulla senza conoscere l’avviso de’ suoi ufficiali; che gli aveva raccolti diverse volte per deliberare su ciò; che se Porras avesse trovato qualche buono spediente, sarebbe lietissimo di radunare espressamente il consiglio per comunicargli la sua proposizione.
A che Francesco Porras rispose in tuono motteggevole, crudelmente aggravato dall’insolenza del gesto, non avervi uopo di tanti discorsi, che dovesse pensare ad imbarcarsi subito, se no restasse alla guardia di Dio; e andò via; «Io me ne vado in Castiglia; chi mi ama mi segua,» gridava costui a’ suoi concittadini sivigliani che gli si erano fatti intorno, e que’ gridarono ad una voce — veniam tutti! E al tempo stesso si disseminarono in ogni parte dell’accampamento. L’armaiuolo Juan Barba osò sguainare la sciabola, minacciando le genti dell’Ammiraglio. I marinai di Siviglia saccheggiarono il magazzino delle armi, ov’erano custoditi gli oggetti da scambio: presero le mercanzie, gli utensili che loro convenivano, gridando Castiglia! Castiglia! mentre altri, suscitati dai Porras, urlavano — muoiano!
In quella orribile confusione, l’Ammiraglio cercò di uscire dal suo letto: cadde, si rialzò, e ricadde ancora, ma persistette a volere uscire e ad andare laddove si tumultuava. Il suo giovanetto figlio, i suoi ufficiali, i suoi scudieri lo presero nelle loro braccia, e lo riposero nel letto35. Intanto l’Adelantado, che aveva impugnata un’alabarda, si era messo vicino alla pompa, per vietare ai ribelli di accostarsi al castello di dietro. Gli ufficiali e i servi affezionati a Colombo lo trascinarono nella cabina dell’Ammiraglio; ed obbligarono i fratelli Porras a ritirarsi, dicendo loro, che, poichè si lasciavano fare e pigliar quello che volevano, sarebbe stata cosa prudente che si ritirassero prima di essere causa della morte dell’Ammiraglio, del qual fatto certamente sarebbero severamente puniti in Castiglia dalla giustizia della Regina36. Allora i ribelli s’impadronirono dei canotti che l’Ammiraglio aveva comprati dagli Indiani, così per servirsene al bisogno, come per toglier loro una facilità di attaccare il campo, e partirono mettendo grida di trionfo. Il successo ingrossò la loro fazione; facevano a chi raccoglierebbe più prontamente le proprie cose, e otterrebbe un posto nei canotti. La fazione di Porras ammontava a quarant’otto uomini. Non rimanevano all’Ammiraglio che gli ufficiali più fidati, i suoi servi e i malati che si abbandonavano alla disperazione, credendosi abbandonati.
Udendo la loro desolazione, l’Ammiraglio si fece portare all’ infermeria per consolarli, rianimare il loro coraggio, parlare ad essi di Dio, il quale prova i suoi fidi colle tribolazioni, indurli a mettere in lui la loro fiducia e prometter loro che in breve recherebbe rimedio al loro stato; e pigliò provvedimenti onde a quegli sciagurati non venissero meno le cure di cui bisognavano.
Sostenuto dal braccio de’ suoi servi, ogni giorno Colombo giungeva alla baracca che si era tramutata in ospedale, e stava coi malati per informarsi del loro stato, averne cura, distrarli, consolarli ciascuno in particolare. Affine di stimolar lo zelo del medico e degli infermieri, si occupava dei rimedi, delle pozioni, dei medicamenti, e colle sue proprie mani, dolorose per la gotta, medicava i malati37. L’assiduità delle sue cure fu benedetta da Dio, che invocava continuamente in favore di que’ tapini38. Non solamente non morì alcun di loro, ma in breve non se ne trovava più uno all’infermeria39. Questa maravigliosa guarigione, l’assiduità dell’Ammiraglio, e la sua vigilanza rispetto il servizio medico, irritarono profondamente maestro Bernal, l’antico farmacista di Valenza40. Da quel punto, esisteva per Colombo sulle caravelle un pericolo di gran lunga più grave dell’arroganza de’ fratelli Porras e dell’odio ardente della fazione di Siviglia.
Note
- ↑ Nel suo secondo viaggio, quando venne alla Giammaica, prima e dopo la sua esplorazione della costa meridionale di Cuba.
- ↑ “Y tan apartado de los santos sacramentos de la santa Iglesia que se olvidará desta anima si se aparta acá del cuerpo.” — Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici, scritta dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
- ↑ “Mando questa lettera per mezzo e per mano degli Indiani; se giunge, sarà un miracolo.” Quarto viaggio di Cristoforo Colombo. — Traduz. dei signori di Verneuil e de la Roquette, membri dell’Accademia reale spagnuola di storia.
- ↑ Fernando Colombo accerta che questa lettera fu stampata nella sua Biblioteca occidentale, Leon Pinelo dice che questa lettera fu stampata in formato di 4°: l’originale era passato alle mani di don Lorenzo Ramirez de Prado; lo stampato vendevasi alla libreria di Giovanni di Saldierna. In Italia, Costanzo Bainera di Brescia, la tradusse; fu poi stampata a Venezia, nel 1505, vivente ancora Colombo. Il cavaliere Morelli le diede una nuova esistenza nel 1810, ristampandola sotto il nome di Lettera rarissima.
- ↑ Christophe Colomb. — “Yo tengo en mas esla negociacion y minas con esta escala y señorio, que lodo lo otro que está hecho en las Indias.“ — Lettera ai Re Cattolici datata dalla Giamaica il 7 luglio 1503.
- ↑ “Expandi manus meas tota die ad populum incredulum qui graditur in via non bona post cogitationes suas.” — Isaiæ, cap. lxv.
- ↑ “El otro negocio famosisimo está con los brazos abiertos llamando: extrangero ha sido fasta hora.” — Cristoforo Colombo, Lettera ai Re Cattolici datata dalla Giamaica il 7 luglio 1503.
- ↑ La figura ricordata da Colombo essendo affatto inintelligibile pei traduttori, questi abbandonarono placidamente il testo alla pretesa sua oscurità, e sonosi compiaciuti di una traduzione faniastica. Così, i traduttori francesi del testo originale, signori di Verneuil e de la Roquette, entrambi accademici di Madrid, interpretarono questo passo così: “L’altro affare importantissimo, richiede che si abbia ad occuparsene senza indugio. Finora non vi si è pensato.” Il traduttore della Lettera rarissima, anco meno se n’è preso pensiero, e rende così questo passo nella versione italiana: “Su che mai fondansi i miei nemici, osando rimproverarmi che io sono straniero?” Non si può disconvenire che questo genere di traduzione non sia estraneo alla verità, e perciò riprovevole. Realmente però, i traduttori dei due testi neppur sognavansi il genuino senso delle parole di Colombo, tanto il loro spirito er’alieno alla natura religiosa di lui.
- ↑ Cristoforo Colombo. — “Y quedará á la España gloriosa memoria con la de Vuestras Altezas de agradecidos y justos principes.” — Lettera ai Re Cattolici datata dalla Giammaica il 7 luglio 1503.
- ↑ Cristoforo Colombo. — “Yo he llorado fasta aqui à otros: haya misericordia agora el Cielo, y llore por mi la Tierra... llore por mi quien tiene caridad, verdad y justicia.” — Lettera ai Re Cattolici datata dalla Giamaica il 7 luglio 1503.
- ↑ Humboldt, Storia della geografia del Nuovo Continente, tom. III sez. ii.
- ↑ “Quid de se Deus cogitet, statuit experiri.” — Petri Martyris Anglerii, Oceanœ Decadis tertiœ, lib. IV, fol. 52, recto.
- ↑ Questo testamento olografo contenuto in tredici pagine fu scritto a Valladolid e deposto nelle mani di Fernando Perez, segretario del Re, e notaio di Corte, il 26 dello stesso mese, in presenza di sette. testimonii, tutti officiali della casa della Vice-Regina delle indie, dona Maria di Toledo. È da notarsi che il primo di detti sette gentiluomini era l’onorevole Diego de Arana, nipote di Beatrice Enriquez, parente in qualche modo della Vice-Regina.
- ↑ “Decidme vuestro parecer.” — Testamento olografo di Diego Mendez, fatto a Valladolid, il 19 giugno 1536.
- ↑ “No sé quien se ose aventurar á peligro tan notorio.” — Testamento olografo di Diego Mendez, fatto a Valladolid, il 19 giugno 1536.
- ↑ “Señor: una vida tengo no mas, yo la quiero aventurar por servicio de vuestra señoria y por el bien de todos los que aqui estan, porque tengo esperanza en Nuestro Señor que vista la intencion, con que yo lo hago me librará como otras muchas veces lo ha hecho.” — Relacion hecha por Diego Mendez, de algunos acontecimientos del ultimo viage del almirante don Cristóbal Colon.
- ↑ “Bien sabia yo que no habia aqui ninguno que osase tomar esta empresa sino vos” — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimientos, etc.
- ↑ “De que Dios me libró milagrosamente.” — Relacion hecha per Diego Mendez de algunos acontecimientos, etc.
- ↑ Y contéle todo lo sucedido, y como Dios milagrosamente me habia librado de las manos de aquellos selvages. — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimientos, etc.
- ↑ “Viendo que la mar se amansaba me despedi dellos y ellos de mi, con hartas lagrimas.” — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimientos, etc.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cv.
- ↑ “Concesse lor grazia che in tempo di tanto bisogno Diego Mendez all’apparir della luna vedesse, che uscia sopra terra, perciochè un’isoletta copria la luna a guisa di eclissi. Nè in altro modo avrebbono potuto vederla.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cv.
- ↑ “Smontati adunque in essa ove meglio potettero, tutti resero molte grazie a Dio di tanto soccorso.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cv.
- ↑ “Donde luego vino mucha gente de la tierra y trajeron muchas cosas de comer, y estuve dos dias descansando.” — Relacion hecha por Diego Mendez de algunos acontecimientos del último viage del almirante don Cristobal Colon.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cv.
- ↑ “Parea loro appunto che Dio gli avesse liberati dal ventre della Balena corrispondendo i tre dì e le tre notti alla figura del profeta Giona.” — Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cv.
- ↑ Oviedo e Valdez, storia naturale e generale delle Indie, lib. III, cap. ix.
- ↑ Sotto pena di confisca del denaro, e venti giorni di prigione per un marinaio; di quaranta giorni d’arresto per un ufficiale; di cento colpi di frusta per un rematore. — Ordinanza dell’Ammiraglio di Castiglia del 1430, art. xxxiv.
- ↑ “Y que eran tales que merecian otro castigo que reprension de boca.” Cartas de don Cristóbal Colon á su híjo do Diego, en Sévilla á 21 noviembre de 1504.
- ↑ Nella sua millanteria aveva detto con aria vittoriosa che acconsentiva, ove il Quibian fuggisse, gli fosse strappata la barba a pelo a pelo. Las Casas, la Historia de las Indias, lib. Il, cap. xv. Ms.
- ↑ “Hallarian al obispo don Juan de Fonseca, que les favoreceria y aun al tesorero Morales, el cual tenia por dama una hermana de los Porras.” — Fernando Colon, Historia del Almirante don Cristobal Colon, cap. cii.
- ↑ Il P. Charlevoix, Storia di San Domingo, lib. IV pag. 248.
- ↑ Questa accusa leggesi nel suo giornale. “La causa desta ida á la Jamaica no hay quien la sepa mas de querelle facer” — Relacion del viage é de la tierra agora nuevamente descubierta por el almirante do Cristobal Colon.
- ↑ “De que fui yo tan maravillado como si los rayos del sol causaran tinieblas.” — Cartas del don Cristóbal Colon á su híyo do Diego. — Lettera del 21 novembre 1504.
- ↑ Herrera, Storia generale dei viaggi, ecc. nelle Indie occidentali. Decade 1, Iib. VI, cap. v.
- ↑ Las Casas, Historia de las Indias, lib. II, cap. xxxii. Ms.
- ↑ Herrera. Storia generale dei viaggi e conquiste dei Castigliani nelle Indie occidentali. Decade 1, lib. VI, cap. v.
- ↑ Conforme al consiglio dell‘Ecclesiastico ai medici. — — Eccli. cap. xxxviii, vers. 14.
- ↑ Fernando Colombo, Vita dell’Ammiraglio, cap. cii.
- ↑ Poco dopo, su maestro Bernal cadde forte sospetto che avesse coi suoi rimedi, uccisi due uomini, che non gli andavano a genio. — Cristoforo Colombo, Lettera a don Diego Colombo, datata da Siviglia il 29 dicembre 1504.