Cristoforo Colombo (Correnti)/III
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III.
L’orizzonte del mondo antico era stato tracciato dalla spada d’Alessandro e di Cesare, i grandi geografi dell’antichità che piantarono le loro are vittoriose sull’Idaspe e sul Tamigi. Invece l’orizzonte del mondo cattolico non era sulla terra e nello spazio visibile, ma sì nel tempo che è lo spazio del pensiero.
La disciplina evangelica nel suo primo sforzo ricacciò l’uomo nella coscienza e lo sforzò a vivere coll’anima sua. «Che m’importa, grida san Basilio, che m’importa sapere se la terra sia una sfera, un cilindro, un disco od una superficie concava? Questo m’importa sapere, com’ io debba vivere con me stesso, cogli altri uomini e con Dio.» Il pio eremita nella sua volontaria prigione non altro chiede che un breve pertugio da cui guardare il cielo; né però egli si condanna all’immobile indifferenza dell’ioughi indiano, e riempie la sua solitudine colla sottile, insistente, incontentabile analisi d’ogni moto del cuore. Ma poiché molti secoli di sforzi tremendi e di poetici soliloquii ebbero rifusa l’anima umana, il Cristianesimo, trasformata la barbarie e la schiavitù, uscì dall’epoca cenobitica e taumaturgica, ribenedisse la terra, riconsacrò le armi, la mercatura, la vita civile, la scienza e quella stessa antichità di cui prima avea atterrati i tempii e lacerati gelosamente i volumi. Allora, dopo un duro noviziato di dieci secoli, l’uomo trovandosi in pace colle sue idee, avrebbe voluto cristianificare la natura e ribattezzare la terra; e la vocazione dei missionarii, alleatasi senza ipocrisia coi sentimenti cavallereschi e mercantili, diventò la vocazione d’Enrico di Portogallo, la vocazione di Cristoforo Colombo.
Nel XV secolo, secolo d’unità confidente e possente, la poesia, la religione, la scienza e l’economia, dandosi mano con giovanile baldanza, provocavano concordi cotesta forma novella d’eroismo e d’apostolato. Ma perchè mai l’uomo che i tempi invocavano non uscì da alcuna di quelle tante nazioni europee, adagiate lungo le acque atlantiche, ove i venti spesso portavano qualche arcano saluto del fraterno continente? Perchè mai fra tanti piloti portoghesi, baschi, normanni, venturieri audacissimi, non uno pensò, guardando il quotidiano spettacolo del sole declinante sulla solitudine dei mari occidentali, ch’ei portasse la luce
Perchè da un popolo per tradizioni, per interessi, per necessità geografica tutto volto a Levante, ed il cui cuore, quasi direbbesi, batteva a Costantinopoli, ad Alessandria, sul Tanai, perchè mai da un popolo educato alla navigazione mediterranea, ai guadagni pronti e sicuri, ci doveva venire chi mettesse l’anima e la vita per verificare un’ipotesi scientifica e tentare il problema del lontano Oceano, fecondo solo di paure? Perchè insomma fu Italiano lo scopritore del mondo
occidentale?
Io veramente sono lontano dal consentire cogli storici che in ogni fatto vedono la necessità, di molte cose parendomi arbitra quaggiù la fortuna, e di più molte la volontà, in virtù della quale il mondo della storia offre lo spettacolo d’una crescente creazione. Pure dell’essere stato italiano lo scopritore del nuovo mondo v’ha, se non m’inganno, una giusta cagione; perchè in Italia maturarono gli elementi del pensiero e della forza, per cui fu grande Colombo.
Chi appena guardi le condizioni d’Italia nel XV secolo, sente che essa avea diritto di educare il vincitore della antichità, l’uomo che disserrando nuovi spazii e nuovi tempi, dissipasse affatto il sonnambolismo del medio evo e ravviasse il pensiero europeo alla poesia ed alla sperienza della natura esteriore. Il XV secolo, così poco noto, è quello appunto in cui si svolsero e si bilanciarono tutte le forze intellettuali dell’Italia; lotta confusa, vorticosa e pur troppo mortale. Allora l’italiano, in mezzo alle inutili sventure ed alle inutili vittorie di tutte le fazioni, imparò a far conto, più che d’ogni altra cosa, della propria energia personale: germe funesto d’egoismo, ma scuola altresì di volontà indomabili e di nature eroiche. E mentre altrove gli uomini erano o sorretti o stritolati dalle gerarchie feudali, solo l’Italiano di que’ tempi vedeva uscire dalla plebe i pontefici, dalla officina i magistrati; e mercanti e soldati di ventura conquistarsi coll’oro e colla spada le corone. Tutti i fatti, tutte le idee s’agitano allora in Italia vive, possenti, istigatrici d’ogni rea, come d’ogni nobile ambizione; il fervore religioso si alleava col poetico entusiasmo per la classica antichità, e nella stessa generazione si scontrava e mescevasi l’esperienza dei politici, dei mercanti, dei viaggiatori colle memorie e, diremo anche, colle fantasie dell’erudizione. Di che nasceva quella felice e robusta gioventù degli ingegni, i quali creavano, credendo pur tuttavia d’imitare e fabbricavano arditissime ipotesi, interpretando con inconscia libertà il mondo e la storia. Ed è singolare a dirsi come i due uomini, che fecero la più profonda rivoluzione delle idee, mutando l’aspetto della terra e del cielo, Colombo e Copernico, i quali ora, quasi divinità tutelari, risplendono sulla soglia dell’evo moderno, volessero presentarsi ai loro contemporanei in aspetto d’umili commentatori d’una dimenticata idea d’Aristotile e di Pitagora.
L’Italia adunque ai tempi di Colombo e, appunto come Colombo, piena di pensieri nuovi sotto nome antico, presentiva l’avvenire attraverso le visioni del passato. Ad uno ad uno essa vedeva morire i suoi popoletti ringhiosi; pur non distratta dalle fervide contemplazioni, nemmanco per l’acerbità dei supremi dolori, generava eroi che fondarono la divina nazionalità del pensiero, conquistandole una lingua comune e confondendo e consolando col culto delle glorie fraterne le umiliate gelosie municipali. — Ora sofferite, ch’io cerchi nelle tradizioni commerciali e geografiche d’Italia la genealogia vera di Cristoforo Colombo ch’io non mi curai ripescare fra le ingiurie dei municipii contendentisi l’onore d’averne ascoltato il primo vagito. Tutti sanno come il commercio del medio evo avesse legato gli stati marittimi della nostra penisola coll’Asia, coll’estremo Oriente: perocchè le spezierie, rarissime preziosità, di cui gli Italiani avevano in Europa il monopolio, ci venivano dalle Molucche (Malucco) isole circonfuse dell’Oceano Pacifico, allora non navigato che da giunche chinesi e da selvaggie piroghe. Quando primamente s’avviasse questo commercio non può sapersi: e forse sempre ne durò qualche filo anche nell’età della più scabra barbarie. Checchè ne sia, abbiamo notizia che nell’822 già navigavano ad Alessandria contrabbandieri veneziani; e prima delle crociate praticavano gli Amalfitani ne’ porti di Levante e i Pisani avevano fattorie sul Mar Nero. Nel XII secolo troviamo la prima menzione del commercio delle spezierie colle quali non può farsi che alcune notizie non giungessero dei tanti popoli che per sì lungo tragitto se le passavano di mano in mano. I rozzi verseggiatori di quei tempi ci dicono che a Pisa e ad Amalfi conoscevansi di fama e di presenza i popoli dell’Asia centrale e gli Indi che avevano sì antico grido di sapienza e di ricchezze. Nel tumulto delle crociate si piantarono gli Italiani negli scali di levante e vi convissero con quegli Arabi che già da due secoli avevano allargata la loro prodigiosa potenza dalle Africane costiere di Sofala alla valle dell’Indo, e si erano sparsi, mercatanti o missionarii, da Madagascar a Canton su tutte quasi le rive dell’Oceano indiano e dell’Arcipelago orientale. — Per questo mezzo molte notizie geografiche ci dovettero pervenire insieme colle prime confuse cognizioni sulle cifre algebriche, sulla polvere e sulla stampa, mirabili strumenti del pensiero operoso, che giacevano inutili in mano alla frivola gravità delle autocrazie e delle teocrazie asiatiche. Due strade teneva il commercio delle Indie; quella di terra per l’Oxo, il Caspio ed il Mar Nero; quella di mare per l’Egitto ed il Pelago Indiano, o per la Soria ed il golfo Persico. Prevaleva or l’una or l’altra di queste strade, secondochè o sinistrava l’anarchia arabica o scomponevasi la vasta unità dell’impero Mingolico cadevano sotto la tutela or dei Veneti or dei Genovesi le decrepite provincie del Greco impero. Da ciò le guerre secolari delle due maggiori repubbliche Italiane che si contendevano il monopolio di quei commerci. Fra esse più tardi entrò terza Fiorenza, in cui le vivaci industrie avevano accumulati capitali e che, dopo l’acquisto di Pisa, volgendo vasti pensieri di marittima prosperità, avviò faticosamente per l’America e la Persia una linea commerciale che forse spingevasi fino alla China. Mirabili viaggiatori ebbe l’Italia per cagion di commercio o di religione, in cui risplende energia di mente, di corpo e di volontà. E primi i Poli, che sullo scorcio del XIII secolo peragrarono tutta l’Asia fino al mar Chinese ed alla Polinesia. E benchè i racconti di Marco, con quella profusione d’isole, di regni, di città, di palazzi d’oro e di eserciti innumerevoli, paressero intemperanti fantasie, nondimeno s’accesero dell’Oriente lutti gli animi, e Marin Sanudo, che Humboldt chiama il Raynal credente del medio evo, cominciò nei primi anni del XIV secolo, col suo singolarissimo libro intitolato Segreti dei fedeli della croce, quella discussione sulla migliore strada del commercio orientale che gli Inglesi non hanno ancora oggidì terminata. — Nel tempo stesso s’andavano facendo comuni i viaggi per l’Armenia, per l’Egitto e per l’Asia minore; e par che fino all’India penetrassero i nostri e vi avessero stazioni, poichè Bartolomeo da San Concordio di là riceveva lettere. Nell’età più vicina a Colombo, Nicolò de’ Conti apostata Veneziano percorse tutta l’Asia meridionale e tornato in patria narrò cose che acquistarono fede a Marco Polo; al quale la moderna critica decretò il nome d’Erodoto Italiano: tanto appare al paragone delle nuove scoperte schietto e sottile osservatore, narratore conciso, spirito libero e robusto. Contemporaneo a Colombo, Antonio Galateo, elegante latinista e sagace filosofo, sosteneva la possibilità della circumnavigazione dell’Africa, fondandosi sulle notizie fornitegli dal genovese Giorgio Interiano da molt’anni stanziato nell’India; e Behaim nel suo celebre mappamondo del 1492, divisando i dieci trapassi a cui soggiacevano le spezierie, cita l’autorità di Bartolomeo Fiorentino, che per 24 anni era stato alle Indie. Quali sentimenti destassero negli animi i maravigliosi racconti dell’orientale magnificenza, quanta ammirazione per la grandezza materiale, quale spirito sitibondo di avventure si accendesse nelle menti scaldate dalle immaginazioni poetiche e dalle avidità mercantili, io non saprei meglio esprimerli che recandovi innanzi le parole di uno svegliatissimo fiorentino, scritte nel 1500 da Malaca, quando per la prima volta v’incontrò le navi dei Chinesi: «Credete che le cose di qua sono di gran sostanza: cose grandissime; vaste città murate; tratti di mercanzia e di ricchezza; costumi e modi di vivere diversi. Noi altri siamo uno zero; l’India è la minore e più piccola cosa che sia qui, sendo pure una sì grande rispetto a noi.... Sono cose per chi le ha viste da non crederle: pensate chi non le ha viste!» Così per costui l’Italia rispetto all’Asia è uno zero, come uno zero era stata pe’ suoi padri rispetto alle grandi idee della Chiesa universale e della Monarchia Cristiana. Direbbesi che per uno strano destino in Italia sempre vi sia sproporzione fra i concetti e i fatti, e che l’indomabile istinto dei dominatori del mondo non lasci riposare, neppure nell’ignoranza della propria miseria, questo popolo irrequieto, sulla tomba del quale potrebbesi scrivere quella famosa epigrafe: Aut Cæsar aut nihil.
Meno si conoscono le imprese marittime degli Italiani verso Occidente; e nondimeno parranno più mirabili, se si pensi che non ebbero stimolo di urgenti interessi. Fin dal 1281, mentre Marco Polo scopriva l’Oriente Asiatico, i genovesi Vadino e Guido Vivaldi uscirono dallo stretto Gaditano e costeggiando l’Africa si drizzarono verso mezzodì per trovarvi quel passaggio alle Indie che i Portoghesi cominciarono a cercare solo 130 anni dopo. Non atterriti dallo sfortunato esito della prima spedizione, Tedisio Doria e Ugolino Vivaldi, genovesi anch’essi, uscirono di nuovo a tentar l’Atlantico nel 1291, e scoprirono o trovarono di nuovo le dimenticate Canarie; l’una delle quali, l’isola Lanzerotta, porla il nome di un altro navigatore genovese, Lanzelotto Malocello. Un Nicoloso Di-Recco, un Angiolo Del-Tagghio, genovese l’uno e fiorentino l’altro, guidarono i primi esperimenti che le galee Portoghesi verso la metà del XIV secolo arrischiassero lungo le infami costiere il promontorio Atlantico. E Petrarca e Boccaccio ricordano anch’essi celebri viaggi d’Italiani a quelle isole che Fortunate si chiamano o forse Ritrovate; le quali più volte erano state scoperte, e dimenticate, e scoperte di nuovo. Non dovrei parlare dei Zeni, perchè i loro viaggi all’Islanda ed alla Frislanda (Groenlandia) e le notizie che ivi raccolsero di un gran Continente occidentale, rimasero lungamente ignote e non entrarono nella tradizione italiana, se non dopo la scoperta di Colombo (1458): pur valgono a confermare quanta fosse la perizia, e quanto l’ardimento dei nostri navigatori. Una porzione fraterna delle glorie portoghesi ricade di diritto agli Italiani che, dopo aver tentata pei primi la circumnavigazione dell’Africa, dopo aver guidate le galee di Portogallo ne’ primi viaggi d’esplorazione, gareggiarono poscia di coraggio con Gileanes, con Nugnez, con Fernandez e cogli altri famosi capitani del principe Alfonso. Il genovese Noli toccò le isole del Capo Verde: Cadamosto veneziano ed Usomare di Genova si spinsero pei primi oltre il Capo Verde, esplorando 800 miglia di nuova costa; ed in queste lontane regioni trovarono fra i negri un discendente degli esploratori genovesi, che 170 anni prima erano venuti a naufragare sopra queste rive sconosciute. La navigazione dei tre italiani non fu stabilmente oltrepassata che ventisette anni dopo, nel 1483, quando Jacopo Lano e Martino Behaim varcarono la linea, ed aperuere, dice la cronaca di Scheedel, alium orbem (l’emisfero antartico) hactenus nobis incognitum, et multis annis a nullis, quam Januensibus, licet frustra, tentatum. Le carte italiane indicano questi progressi; le quali abbiamo antichissime e numerose: e in molte di esse troviamo indicate terre verso Ponente in seno all’Atlantico, secondo le voci popolari e le tradizioni marinaresche che ne correvano: ciò che talora ha fatto credere che l’America fosse nota innanzi Colombo. La carta di Marino Sanudo del 1321 segna un gruppo d’isole all’ovest dell’Islanda. La carta singolarissima dei Pizzigani del 1367, porta terre occidentali nell’Atlantico coi nomi di Brondani, Brazie e Antiglia. Né ci fermeremo a discutere col Zurla se quest’ultimo nome veramente vi si legga; perchè ad ogni modo è certo che un’altra carta italiana del 1424, conservata a Weimar e di cui ci dà notizia l’Humboldt, ha quest’isola d’Antiglia, che poi trovasi anche nelle carte d’Andrea Bianco, dell’anonimo genovese suo contemporaneo, e degli anconitani Benincasa, tutte composte tra il 1436 e il 1470. Confuse tradizioni delle mal note Canarie, e naturali illusioni di nubi fantastiche, e vasti tratti di mare coperti da galleggiante vegetazione, avevano nel medio evo fatto nascere e mantenuta la credenza che queste isole esistessero: e molti ne andarono in cerca; e alcuni dicevano d’averle trovate, e inseguite, e vedute sfumare; ed altri narravano che nell’isola delle sette città abitava un popolo cristiano, ivi ricoveratosi fin dai tempi delle prime invasioni moresche; ma tanto geloso del suo segreto asilo, che più non lasciava partire le navi capitate a que’ lidi felici, perchè divisi dal mondo. Ma basti di queste leggende e di questo incerto nome d’Antilia, il quale divenne certo e storico solo quando gli Spagnuoli l’applicarono alle isole americane.
Più importami certo sono le cognizioni che le carte de’ geografi italiani rivelano intorno alla forma dell’Africa ed alle coste Orientali di essa. Tutti sanno che nelle carte di Tolomeo l’Africa sotto l’equatore protendevasi verso Oriente, fronteggiando l’Italia e distendendosi fino alla plaga effettivamente occupata dalla Nuova Olanda. Ma già il Planisfero di Marino Sanudo del 1300 effigiava l’Africa triangolare; e la carta d’Andrea Bianco del 1436, contraddicendo Tolomeo, risolutamente la disegna come una penisola; se non che, facendola correre in isbieco dall’ovest all’est, la finisce all’equatore. Il Portolano della Medicea del 1351 traccia la costiera dell’Africa oltre il Capo Non, che i Portoghesi voltarono solo nel 1410. Questi errori corresse il famoso mappamondo di frate Mauro, a cui sappiamo che lavorò anche Andrea Bianco, e di cui per commissione del re di Portogallo fu mandata copia a Lisbona. Ivi l’Africa corre dritta verso il Sud, e col nome di Capo Diab n’è indicata l’estrema punta, ove sporge il formidabile promontorio delle tempeste, al quale die’ il fausto nome della Speranza l’accorto re Giovanni. Ivi le coste orientali dell’Africa, le regioni di Soffala e del Zanquebar, di cui già un secolo e mezzo prima aveva parlato Polo, ma senza precisarne l’orientazione, sono assai bene indicate.
A queste notizie s’aggiunga la luce delle teorie scientifiche. Volgare era tra noi la dottrina della sfericità della terra, la quale era stata sostenuta da San Tommaso e popolarizzata da Dante. Cecco d’Ascoli, Fazio degli Uberti, Goro Dati, Berlinghieri verseggiavano di geografia e di cosmografia, e tutti insegnavano la sfericità della terra, e volgarizzavano Tolomeo e Solino. Uno scrittore del XIII secolo, il maestro di Dante, aveva già espresso così chiaramente la possibilità di compiere il giro della terra, che io non so difendermi dal desiderio di recarvene le parole: «Se due uomini d’uno luogo ad un’ora si muovessero, e andasse l’uno tanto quanto l’altro, e l’uno andasse verso Levante e l’altro verso Ponente, e andassero dirittamente l’uno a rincontro l’altro, certo eglino si riscontrerebbero dall’altra parte della terra per mezzo quel luogo onde fossero mossi, e se pure andassero oltre eglino tornerebbero a quel luogo d’onde si partirono». Il sito dove giace l’America così descrisse Fazio degli Uberti:
« Veder ben puoi che il lutto gira e piglia |
La misura della circonferenza terraquea, che qui accenna Fazio degli Uberti, è quella appunto che in tutto il medio evo prevalse per opera dell’Arabo Alfragan, che san Tommaso stesso e Dante adottarono e che Colombo studiosamente seguitò perchè gli faceva minore l’intervallo inesplorato de’ mari tra la Spagna e l’India. «Le tradizioni della classica antichità intorno alla geografia, dice Humboldt, erano state in Italia conservate ed illustrate dal Petrarca, da Giovanni di Ravenna e dal Malpighino.» Noi ci studiammo di far sentire quel che avessero aggiunto le tradizioni proprie del commercio italiano e le cognizioni comunicateci dagli Arabi. Dopo tutto ciò ognuno vedrà quali e quanti elementi preparassero, quali e quanti presentimenti provocassero la gloriosa sintesi di Colombo. La nuova idea sì direttamente procedea dalla scienza e dalla tradizione italiana, che Colombo avrebbe potuto essere preceduto nell’esecuzione, come senza alcun dubbio fu prevenuto nel pensiero, se i fatti in Italia fossero così rapidi quanto i concetti. Nel 1474, quando Colombo era ancora un oscuro pilota, che appena osava manifestare agli amici suoi l’alto pensiero, Paolo Toscanelli, celebre astronomo fiorentino, scriveva a Lisbona, consigliando il re Alfonso di tentar la via delle Indie per Occidente, ch’ei giudicava più breve e più agevole e più sicuro del giro della Guinea: e a Cristoforo Colombo, che lealmente il richiedeva di consiglio, scrisse due lettere mirabili, dalle quali mi piace recar questo brano: «Il viaggiare al Levante pel Ponente non solo è possibile, ma vero e certo, e di onore e di guadagno inestimabile, e di grandissima fama presso tutti i Cristiani; nè voi lo potreste mai conoscere sì bene, quanto io, per la pratica che io ho avuta sicura e buona d’uomini illustri e di gran sapere venuti di detti luoghi nella corte di Roma, e di altri mercanti che hanno trafficato lungo tempo in quelle parti.» E queste idee del Toscanelli non dovevano essere rimaste un segreto; poiché un bell’umore, domestico, è vero, di Lorenzo de' Medici, ma che non era cervello da logorarsi in recondite astruserie. Luigi Pulci (morto cinque anni prima della scoperta dell’America) pose in bocca al diavolo una bizzarra profezia di vaste regioni in occidente e previde anche le principali obiezioni che teologi e cosmografi avrebbero potuto muovere alla nuova idea. — Né a caso egli scrisse: «che l’acqua in ogni parte è piana, benché la terra abbia forma di ruota; essendo il nostro globo; per divin ministerio sospeso fra le stelle, e nell’altro emisfero, come nel nostro, repressa ogni cosa al centro;» nè potersi dubitare che gli uomini di quell’incognita terra sieno della stirpe d’Adamo, e partecipi e coeredi della grazia celeste; poiché il «Divin Redentore non è partigiano, ripeto le parole proprie del Pulci, e chiamò tutti i popoli del pari alla legge di misericordia e di concordia: né Dio fe’ a caso il mondo da lasciar vuoto tanto spazio, e inutili tanti benigni influssi del cielo temperato». Qual meraviglia, o signori, nel leggere in un nostro poema burlesco e popolare le ragioni stesse che Colombo molti anni dappoi non potè far comprendere al fiore de’ sapienti spagnuoli, congregati in Salamanca; molti de’ quali ancora citavano Lattanzio come autorità geografica, e condannavano la dottrina degli antipodi, volgare da secoli in Italia, e colla sognata difficoltà di risalire la curva delle onde atlantiche mettevano in dubbio il principio stesso della gravitazione concentrica, principio che in Italia soccorre tosto alla mente d’ognuno con quel passo di Dante:
io venni al punto Al qual si traggon d’ogni parte i pesi. |
Permettetemi ch’io ricordi un’altra circostanza da nessuno, cred’io, fin qui avvertita. I fratelli Pinzon di Palos, che avevano accompagnato Colombo nel suo primo viaggio, pretesero poscia d’arrogarsene l’onore; e nella lite che il fisco reale mosse all’erede di Colombo, furono allegate anche le loro ragioni; e questa fra l’altre, principalissima: che Alonzo Pinzon, venuto a Roma sul principio dell’anno 1492, ne aveva recato sicuri indizii sulla via occidentale delle Indie. Non so che rispondessero i difensori dell’ammiraglio: ma né potevasi negare il fatto, né importava negarlo: poiché il Pinzon conobbe Colombo assai prima di quel suo pellegrinaggio. Questo però riman fermo, che a Roma l’idea di Colombo né parea strana, né forse nuova.
Così mi sembra innegabilmente dimostrato che patria vera di Colombo meritò d’essere l’Italia, la quale circondò ed accompagnò il grande navigatore con un corteggio degno di lui; Amerigo Vespucci, che primo forse riconobbe nell’America un gran continente staccato dalle Indie, i due Cabotto veneziani e il fiorentino Verrazzano, che primi tentarono quel tragitto nordico, appena a’ dì nostri compiuto dal capitano Ross, e riconobbero tutte le coste del nuovo mondo dallo stretto boreale di Davis fino alla foce australe del Rio della Plata, per uno spazio di forse 6500 miglia; e quel portentoso Paolo Centurione che, uscito dalla patria stessa di Colombo, disegnò di riconquistare all’Italia l’antica via del commercio, perfezionando coll’arte i canali del Tanai, del Volga e dell’Oxo, che la natura sembra aver ravvicinati per rendere più accessibili le vastissime regioni dell’Asia centrale.
Per tal modo tutto le vie, che dall’Europa conducono all’India; quelle di terra per l’Egitto, per la Soria, per la Crimea, come quelle di mare girando all’Africa o spuntando l’estremità delle Americhe, vennero indicate, studiate, tentate, e in gran parte scoperte dagli Italiani; e non per fortuite navigazioni o per oscure correrie di pirati, o per raro ardimento di qualche avventuriere; ma sì per forza de’ maturi disegni, di deliberati intenti, di esperienze consociate e di longeve tradizioni.