Così parlò Zarathustra/Parte terza/Della virtù che rimpicciolisce
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Della virtù che rimpicciolisce.
1.
Quando Zarathustra toccò nuovamente terra, egli non s’inviò direttamente alle sue montagne e alla caverna, ma a lungo errò intorno domandando di molte cose e or questa e or quella apprendendo, sicchè diceva scherzando di sè stesso: «Ecco un fiume che per mille avvolgimenti ritorna alla sua sorgente!».
Poichè egli desiderava apprendere che cosa in quel mezzo fosse accaduto dell’uomo: se, cioè, egli erasi fatto più grande o più piccolo.
E una volta scorgendo una fila di case nuove, ne meravigliò e disse: «Che cosa significano queste case? Invero non un’anima grande le edificò secondo la propria imagine.
Forse uno sciocco bambino le prese dalla sua scatola di giocattoli? Oh, se qualche altro bambino potesse rinchiudervele di nuovo!
E codeste camere e stanze: come mai uomini possono entrarvi ed uscirne? Mi sembrano fatte per puppattole di seta; o per gattine ghiotte, le quali offrono anche sè stesse alla ghiottoneria altrui».
E Zarathustra si soffermò e meditò. Poi tristemente, disse: Tutto è rimpicciolito!
In ogni luogo io scorgo porte più basse: chi è della mia specie, riesce ancora a passarci, ma ei si deve curvare!
Oh, quando sarò un’altra volta nella mia patria, dove non fa mestieri curvarsi — curvarsi «dinanzi ai piccoli?». — E Zarathustra sospirò, guardando lontano.
Ma quel giorno stesso egli pronunciò il suo discorso sulla virtù che rimpicciolisce le cose.
2.
«Io passo attraverso questo popolo e tengo gli occhi aperti: gli uomini non mi perdonano di non essere invidioso delle lor virtù.
Essi tentano di mordermi, perchè io dico loro: «la gente piccola abbisogna di piccole virtù» — e perchè non so comprendere a che serve la gente piccola.
Io sono simile ad un gallo intruso nel cortile di una fattoria, cui anche le galline hanno in odio: ma per questo io non serbo rancore alle galline.
Io sono gentile con esse, come con tutte le piccole seccature. Mostrarsi selvatico verso ciò che è piccolo, mi sembra una saggezza da istrici.
Tutti parlano di me quando la sera sono seduti attorno al fuoco, — parlano di me, ma a me non pensa nessuno.
Questo è il nuovo silenzio che appresi! Il romore che fanno intorno a me stende un manto sui miei pensieri.
Essi mormorano: «Che cosa ci minaccia questa tetra nube? Stiamo in guardia perchè non ci rechi qualche pestilenza!».
E poc’anzi una donna trasse a sè un bambino, che mi muoveva incontro: «Allontanate i fanciulli!», essa gridò; «quegli occhi potrebbero abbruciare le anime dei bambini».
Essi tossiscono, quando io parlo: pensano, forse, che la tosse sia un’obiezione contro la violenza del vento: — nulla essi comprendono dell’impeto della mia felicità!
«Noi non abbiamo tempo per Zarathustra» — mi obiettano; che importa d’un tempo che non ha tempo per Zarathustra?
E quando mi lodano poi, come potrei addormentarmi su la fama che mi è data da loro?
Un cinto di spine mi sembra la loro lode; ne sento le punture anche quando me lo tolgo.
E anche questo imparai da essi: quegli che loda finge di restituire qualche cosa, ma in realtà egli desidera di ricevere molto di più!
Domandate al mio piede, s’egli ama il loro modo di lodare e di sedurre! In vero, al suono di quella musica egli non ama nè ballare nè star fermo.
Essi vorrebbero sedurmi e persuadermi alla piccola virtù; vorrebbero persuadere al mio cuore il tic-tac della piccola felicità.
Io passo attraverso questo popolo e tengo aperti gli occhi: costoro son divenuti e diventano sempre più piccoli: — e n’è cagione la lor dottrina della felicità e della virtù.
Essi sono modesti anche nella virtù — perchè amano la lor comodità. Ma con la comodità non può andar d’accordo che una virtù modesta.
È bensì vero che imparano a camminare e trascinarsi avanti a modo loro: ed io chiamo ciò il loro zoppicare; ma con questo essi riescon d’impaccio a chiunque abbia fretta.
E più d’uno tra loro procede innanzi e guarda dietro a sè col collo stecchito: mi piace dar di cozzo in costoro.
Il piede e l’occhio non devono mentire, nè contraddirsi l’un l’altro.
Ma tra la piccola gente è grande la mendicità.
Alcuni di essi sanno volere, ma i più non sono che dominati. Alcuni son sinceri, ma i più sono cattivi commedianti.
Tra loro si trovano attori incoscienti e attori involontari. I sinceri son sempre rari: particolarmente gli attori.
Di virile han poco o nulla: per ciò le loro donne tendono a mascolinizzarsi. Giacchè soltanto chi è veramente uomo, può salvar nella donna la donna.
E tra le loro ipocrisie questa mi parve la peggiore: che anche quelli che comandano simulano le virtù di quelli che servono.
« Io servo, tu servi, essi servono», — così prega anche qui l’ipocrisia dei governanti; — ma guai quando il primo tra i padroni non è altro che il primo dei servi!
Ah, nelle loro ipocrisie penetrò curioso il mio sguardo; e divinai in essa tutta la loro felicità di mosche che ronzano intorno alle finestre illuminate dal sole.
Quanta bontà, altrettanta debolezza. E altrettanta giustizia e compassione, quanta debolezza.
Franchi, onesti e benevoli essi sono gli uni con gli altri, come i granelli di sabbia son franchi, onesti e benevoli verso i granelli di sabbia.
Essi chiamano rassegnazione l’accettare modestamente una piccola felicità; ma nello stesso tempo sogguardano intorno per scoprire qualche nuova piccola felicità.
In fondo essi desiderano semplicemente una cosa: che nessuno rechi loro danno. Perciò precorrono ai desideri degli altri e fanno agli altri il bene.
Ma questa è «codardia», se pur abbia nome di virtù.
E quando questa piccola gente parla aperto, io non riconosco nella sua voce che la raucedine che s’aggrava a ogni nuovo soffio di vento.
Essi sono prudenti: le loro virtù hanno dita accorte. Ma mancano del pugno; le lor dita non sanno chiudersi in pugno.
Per essi la virtù è quella cosa che rende modesti e mansueti: con ciò convertono il lupo in cane, e l’uomo stesso nel più domestico degli animali.
«Noi abbiamo posta la nostra seggiola nel mezzo — questo mi dite voi con una smorfia che vorrebb’essere un sorriso: — a una distanza eguale dai gladiatori morenti e dai porci beati».
Ma questa è mediocrità: sebbene voi la chiamate moderazione.
3.
Io passo attraverso questo popolo e lascio cadere più d’una parola: ma esso non sa nè prendere nè ritenere.
Stupiscono, essi, ch’io non sia venuta a insultare ai loro piaceri e ai lor vizi; ma io non venni già per metterli in guardia contro i borsaiuoli!
Si meravigliano che io non sia pronto ad aguzzare e ad affinare la lor prudenza: come se già non fossero troppi tra essi gli sputasentenze, la cui voce mi lacera l’orecchio come una matita che strida su di una lavagna.
E quando grido: «Siano maledetti in voi tutti i diavoli codardi i quali amano piangere, unire le mani e adorare», essi gridano: «Zarathustra è un empio».
E specialmente gridano così i loro maestri; — ma agli orecchi dei maestri io grido anche più volentieri: «Si, io sono Zarathustra, l’empio!».
Oh, questi maestri della rassegnazione! Dovunque c’è qualche cosa di piccolo, di morboso, di scabbióso, essi s’avvicinano strisciando, simili ai pidocchi, e soltanto il ribrezzo m’impedisce di schiacciarli.
Orbene! Questo è il sermone ch’io dedico alle loro orecchie: «Io sono Zarathustra, l’empio, il quale vi dice: «Chi è tanto più empio di me che possa dilettarmi col suo insegnamento?
«Io sono Zarathustra, l’empio: dove troverò un mio uguale? Uguali a me sono quelli soltanto che impongono a sè stessi la propria volontà e respingono la rassegnazione.
«Io sono Zarathustra, l’empio: nella mia pentola faccio cuocere ogni mio avvenimento. E solo quando è cotto bene, gli dò il benvenuto, perchè è il mio cibo.
«In verità, più d’un fatto mi giunse imperioso: ma più imperiosa parlò ad esso la mia volontà, sì ch’io lo vidi inginocchiarsi davanti a me — supplicando di trovare in me un asilo ed un cuore e cercando di lusingarmi con ingannevoli parole: «Vedi, Zarathustra, come l’amico accorre all’amico!».
Ma a che parlo io mai, quando nessuno possiede i miei orecchi? Io voglio proclamare a tutti i venti:
Voi v’impicciolite sempre più, gente piccina! Voi vi sgretolate sempre più, o amici di ciò che è facile! Voi finirete a perdervi per cagione delle molte vostre piccole virtù, delle molte vostre piccole ommissioni, della vostra troppo piccola rassegnazione!
Troppo molle, troppo arrendevole è il vostro suolo! Ma perchè un albero possa crescer alto, esso deve attorcigliarsi con solide radici intorno a solide roccie.
Anche le vostre ommissioni forman parte della trama dell’avvenire umano: anche il vostro nulla è una tela di ragni, un ragno che vive del sangue dell’avvenire.
E il vostro prendere vai quanto il rubare, o piccoli virtuosi; ma anche tra i furfanti l’onore comanda: «Non si deve rubare che quando non si può togliere con la forza».
«Si dà», è questa anche una dottrina della rassegnazione. Ma io vi dico, o amanti del comodo: «Si toglie», e sempre più vi si toglierà!
Ah, se voi voleste liberarmi da tutto ciò ch’è un mezzo volere, e risolvervi o per la pigrizia o per l’azione!
Ah, se voi poteste comprendere la mia parola: «Fate pure ciò che volete — ma almeno siate di quelli che sanno volere!»
«Amate pure il vostro prossimo come voi stessi — ma prima di tutto siate di quelli che amano sè stessi. Che amano sè stessi con grande amore, e con grande disprezzo!».
Così vi parla Zarathustra, l’empio.
Ma che vi vado dicendo, poi che nessuno possiede i miei orecchi? Qui io vi ho precorso d’un’ora.
Tra questo popolo io sono il precursor di me stesso; il mio grido di gallo attraversa le oscure contrade.
Ma la loro ora sta per giungere! E giungerà anche la mia! Di tempo in tempo essi si fanno più piccoli, più poveri, più infecondi. Poveri ortaggi! Povero suolo!
E tra breve essi staranno dinanzi a me simili all’erba secca e alla stoppia, stanchi di loro stessi — e assetati, più che di acqua, di fuoco!
Ora benedetta della folgore! Mistero che precede il meriggio! In fuochi divampanti vi voglio un giorno mutare, e in apostoli dalle lingue di foco!
Essi dovranno annunziare un giorno con lingue di foco: «Egli giunge, egli è vicino — il grande meriggio».
Così parlò Zarathustra.