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164 così parlò zarathustra — parte terza


Ma a che parlo io mai, quando nessuno possiede i miei orecchi? Io voglio proclamare a tutti i venti:

Voi v’impicciolite sempre più, gente piccina! Voi vi sgretolate sempre più, o amici di ciò che è facile! Voi finirete a perdervi per cagione delle molte vostre piccole virtù, delle molte vostre piccole ommissioni, della vostra troppo piccola rassegnazione!

Troppo molle, troppo arrendevole è il vostro suolo! Ma perchè un albero possa crescer alto, esso deve attorcigliarsi con solide radici intorno a solide roccie.

Anche le vostre ommissioni forman parte della trama dell’avvenire umano: anche il vostro nulla è una tela di ragni, un ragno che vive del sangue dell’avvenire.

E il vostro prendere vai quanto il rubare, o piccoli virtuosi; ma anche tra i furfanti l’onore comanda: «Non si deve rubare che quando non si può togliere con la forza».

«Si dà», è questa anche una dottrina della rassegnazione. Ma io vi dico, o amanti del comodo: «Si toglie», e sempre più vi si toglierà!

Ah, se voi voleste liberarmi da tutto ciò ch’è un mezzo volere, e risolvervi o per la pigrizia o per l’azione!

Ah, se voi poteste comprendere la mia parola: «Fate pure ciò che volete — ma almeno siate di quelli che sanno volere

«Amate pure il vostro prossimo come voi stessi — ma prima di tutto siate di quelli che amano sè stessi. Che amano sè stessi con grande amore, e con grande disprezzo!».

Così vi parla Zarathustra, l’empio.

Ma che vi vado dicendo, poi che nessuno possiede i miei orecchi? Qui io vi ho precorso d’un’ora.

Tra questo popolo io sono il precursor di me stesso; il mio grido di gallo attraversa le oscure contrade.

Ma la loro ora sta per giungere! E giungerà anche la mia! Di tempo in tempo essi si fanno più piccoli, più poveri, più infecondi. Poveri ortaggi! Povero suolo!

E tra breve essi staranno dinanzi a me simili all’erba secca e alla stoppia, stanchi di loro stessi — e assetati, più che di acqua, di fuoco!