Così parlò Zarathustra/Parte terza/Prima del levar del sole
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Prima del levar del sole.
«Oh cielo, su la mia testa! Oh tu puro, profondo abisso di luce! Nel contemplarti fremo di desideri divini.
Slanciarmi nelle tue altezze — ecco la mia profondità! Celarmi nella tua purezza — ecco la mia innocenza!
Un Dio si vela della propria bellezza: così di te si fan velo le tue stelle. Tu non parli: così tu mi dimostri la tua saggezza.
Muto, incurvato sul mare in tumulto, tu mi apparisti oggi; il tuo amore e il tuo pudore sono una rivelazione per la mia anima tumultuante.
Tu sei venuto a me, circonfuso della tua bellezza; e il tuo silenzio mi ha parlato rivelandomi la tua saggezza.
Come non saprei indovinare tutto il pudore dell’anima tua? Prima del sole tu giungesti a me, solitario.
Noi siamo amici da eterno tempo: comuni sono a noi le cure e l’orrore; noi abbiamo comune anche il sole.
Noi non parliamo fra di noi, perchè troppe cose sappiamo: — noi ci guardiamo silenziosi comunicandoci con un sorriso la nostra sapienza.
Non sei forse tu luce del mio fuoco? Non hai tu forse un’anima sorella per la mia intima conoscenza?
Insieme noi apprendemmo ogni cosa: insieme noi imparammo ad ascendere oltre noi e verso noi stessi, e a ridere serenamente.
A ridere senza nubi, con occhi sereni e da distanze remotissime, mentre sotto di noi la costrizione, l’intento, la colpa fumano come fitte nebbie.
E quando errai solitario, di che cosa, se non di te, aveva fame l’anima mia nelle notti oscure e nel labirinto dei sentieri? E quando m’arrampicai su pei monti, chi se non te vi cercai?
E tutto il mio errare null’altro era che una necessità e un espediente dell’impotenza: — volare è l’unica cosa cui aspira la mia volontà, volare in te!
E qual cosa fu da me odiata più delle nubi erranti e di tutto ciò che ti offuscava? E odiai il mio odio ancor esso, perchè ti macchiava! Ho in fastidio le nubi erranti, questi furtivi gatti di rapina: essi rubano a te ed a me quello che ci è comune, — l’immenso, l’infinito dire Sì ed Amen.
Noi aborriamo queste mezzane e queste intruse, queste ambigue creature che non sanno nè benedire, nè cordialmente maledire.
Meglio, assai meglio rinchiudersi in una botte, o vivere in un abisso, che veder te, cielo di luce, macchiato dalle nubi erranti.
E sovente provai il desiderio d’inchiodarle coi fili d’oro frastagliati del fulmine, per poter suonare il timpano su quel loro ventre gonfio, con uno scoppio di tuono.
Come un suonatore di timpano irato, perchè esse rubano a me il tuo Sì ed il tuo Amen — o cielo su la mia testa, o puro, o rifulgente, o abisso di luce! — e a te il mio Sì ed il mio Amen!
Il tuono e gli scrosci del fulmine mi son più cari di dubbio silenzio felino; anche tra gli uomini io odio sopra tutti quelli che camminano su la punta dei piedi, e i perplessi, e i dubbiosi, e i pigri come le nubi.
E «chi non sa benedire deve apprendere a maledire!». — Questa chiara dottrina mi cadde dal chiaro cielo; ed è stella che risplende nel mio cielo anche nelle notti senza luce.
Ma io sono uno che benedice, uno che afferma, purchè tu mi circondi da ogni parte, tu puro, fulgido gorgo di luce! — In tutti gli abissi porterò allora meco il mio Sì, che benedice.
Io divenni uno che benedice ed afferma: e per giunger a ciò lottai lungo tempo, in rude cimento, poi che volevo aver libere le mani per benedire.
Ed ecco la mia benedizione: essere per ogni cosa come il suo cielo, come la sua vòlta immutabile, la sua cupola azzurra, la sua sicurezza eterna: beato è colui che in tal modo benedice!
Poichè tutte le cose ebbero il lor battesimo al fonte della eternità, oltre i confini del bene e del male; e il bene ed il male non sono che labili ombre e cupe tristezze e nubi erranti.
Io non bestemmio, benedico, quando insegno che sopra tutte le cose si stende il cielo del caso, il cielo dell’innocenza, il cielo dell’impreveduto, il cielo dei capricci».
«Per caso», — ecco la più antica nobilità del mondo, che io restituii ad ogni cosa, liberandola dal giogo della finalità.
E questa libertà e serenità celeste io posi, come un’azzurra cupola, sopra tutte le cose, quando insegnai che nè oltre loro nè in esse alcuna volontà eterna si manifesta.
Cotesto capriccio e cotesta follia io posi in luogo di quella volontà quando insegnai: «nel tutto solo una cosa è impossibile — la ragionevolezza!».
Un briciolo di ragione tuttavia, un germe di saggezza, sparso da stella a stella; ecco il lievito che è frammisto a tutte le cose: per amor della follia in ogni cosa si trova sparsa la saggezza!
Un briciolo di sapienza non è impossibile; pure, questa beata sicurezza riconobbi in tutte le cose: che esse preferiscono danzare coi piedi del caso.
Oh cielo che t’incurvi sopra di me, tu puro! tu sublime! La tua purezza per me sta in questo, che il ragno e le reti d’una ragione eterna in te non han luogo.
Tu sei per me una sala per i capricci divini del caso, una mensa divina per divini dadi e giuocatori divini!
Ma tu arrossisci? Dissi io forse cose che si dovevan tacere? Forse bestemmiai volendo benedirti?
O forse il pudore di essere soli in due ti fa arrossire? — Forse m’imponi d’andarmene e tacere, perchè il giorno sta per giungere?
Il mondo è profondo: e più profondo di quanto il giorno credesse: non tutto è concesso dire in presenza del giorno. Ma il giorno s’appressa: separiamoci dunque.
Oh cielo che t’incurvi sopra di me, o verecondo! o ardente! o pura mia gioja prima dello spuntar del sole!
Il giorno giunge: dunque separiamoci!».
Così parlò Zarathustra.