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della virtù che rimpicciolisce | 163 |
3.
Io passo attraverso questo popolo e lascio cadere più d’una parola: ma esso non sa nè prendere nè ritenere.
Stupiscono, essi, ch’io non sia venuta a insultare ai loro piaceri e ai lor vizi; ma io non venni già per metterli in guardia contro i borsaiuoli!
Si meravigliano che io non sia pronto ad aguzzare e ad affinare la lor prudenza: come se già non fossero troppi tra essi gli sputasentenze, la cui voce mi lacera l’orecchio come una matita che strida su di una lavagna.
E quando grido: «Siano maledetti in voi tutti i diavoli codardi i quali amano piangere, unire le mani e adorare», essi gridano: «Zarathustra è un empio».
E specialmente gridano così i loro maestri; — ma agli orecchi dei maestri io grido anche più volentieri: «Si, io sono Zarathustra, l’empio!».
Oh, questi maestri della rassegnazione! Dovunque c’è qualche cosa di piccolo, di morboso, di scabbióso, essi s’avvicinano strisciando, simili ai pidocchi, e soltanto il ribrezzo m’impedisce di schiacciarli.
Orbene! Questo è il sermone ch’io dedico alle loro orecchie: «Io sono Zarathustra, l’empio, il quale vi dice: «Chi è tanto più empio di me che possa dilettarmi col suo insegnamento?
«Io sono Zarathustra, l’empio: dove troverò un mio uguale? Uguali a me sono quelli soltanto che impongono a sè stessi la propria volontà e respingono la rassegnazione.
«Io sono Zarathustra, l’empio: nella mia pentola faccio cuocere ogni mio avvenimento. E solo quando è cotto bene, gli dò il benvenuto, perchè è il mio cibo.
«In verità, più d’un fatto mi giunse imperioso: ma più imperiosa parlò ad esso la mia volontà, sì ch’io lo vidi inginocchiarsi davanti a me — supplicando di trovare in me un asilo ed un cuore e cercando di lusingarmi con ingannevoli parole: «Vedi, Zarathustra, come l’amico accorre all’amico!».