Così parlò Zarathustra/Parte terza/Sul monte degli olivi
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Sul monte degli olivi.
«Il verno, tristo ospite, ha preso stanza nella mia casa; livide son le mie mani per la stretta delle sue.
Io lo rispetto, quest’ospite cattivo, ma volentieri lo lascio solo. Io lo fuggo volentieri: quando si corre bene gli si può sfuggire!
Coi piedi caldi e coi pensieri caldi io corro là dove il vento tace, verso l’angolo solatio del mio oliveto.
E là mi beffo del mio ospite severo sebbene sono indulgente con lui, perchè nella mia casa egli distrugge le mosche e ammorza molti piccoli romori.
Poi che egli non può tollerare il ronzio d’una mosca, e peggio ancora di due; egli fa solitaria anche la via, sicchè di lui ha paura lo stesso chiaro di luna.
Un rude ospite egli è, ma io lo rispetto, e non rivolgo le mie preghiere, come fanno i delicati, al panciuto idolo del fuoco.
Meglio un leggiero batter di denti, che l’adorazione d’un idolo! — così sono fatto io! E sono avverso sopra tutto agli idoli aridi e fumosi del fuoco.
Colui ch’io amo, l’amo più nell’inverno che nella state; e con maggior coraggio ora che l’inverno è entrato nella mia casa io derido i miei nemici.
Persin quando strisciando mi caccio tremante sotto le coltri: — persino allora ride e si scapriccia la mia felicità nascosta: ancor ride il mio sogno intessuto di menzogne.
Io, un essere strisciante? Nella mia vita non ho mai strisciato dinanzi ai potenti: e se mai ho mentito, l’ho fatto per amore. Perciò mi sento allegro anche nel mio letto invernale.
Un umile letto mi riscalda più d’un letto sontuoso, giacchè io sono geloso della mia povertà.
E nel verno esso m’è più fedele che mai. Con una maligna opera io inizio la mia giornata, mi faccio beffe dell’inverno con un bagno freddo: e ne brontola il mio austero amico di casa.
Anche amo fargli il solletico con una candeletta di cera: per costringerlo a lasciar uscire il cielo fuori della grigia alba.
Giacchè io sono più sopra tutto maligno verso il mattino; nell’ora che il secchio stride al pozzo e i cavalli nitriscono per le grigie strade.
Attendo allora con impazienza che mi si schiuda il cielo chiaro, il cielo invernale della candida barba, il vecchio dai nivei capelli, — il cielo invernale, il taciturno, che talora chiude in sè anche il suo sole!
Forse da lui ho imparato il lungo e glorioso silenzio? O egli l’apprese da me? O forse l’inventammo insieme?
L’origine di tutte le cose buone è centuplice, — balzano, esse, capricciose con giocondo impeto nella vita; come mai potrebbero far ciò una volta sola?
Una buona e folle cosa è anche il lungo silenzio; simile a un cielo invernale il mio volto è severo e la calma è ne’ miei occhi.
Dissimulare il proprio sole e la propria volontà inflessibile come il sole! bene ho appreso quest’arte e questa malizia dell’inverno!
La più cara delle mie malizie e delle mie arti è questa: che il mio silenzio apprese a non tradirsi mediante il silenzio.
Con un tintinnio di parole e di dadi io vinco d’astuzia coloro che attendono solenni: a tutti questi vigilatoli austeri devono essere ignoti il mio volere e il mio intento.
Perchè nessuno possa vedere nel mio intimo e nella mia ultima volontà, io inventai il lungo glorioso silenzio.
Trovai più d’un prudente il quale velava il suo volto e intorbidava la sua acqua, affinchè nessuno potesse vedervi attraverso e per entro.
Ma proprio a lui vennero i più scaltri fra i diffidenti, gli «schiacciatoli di noci»: e proprio nelle sue acque pescarono 11 pesce che con maggior cura teneva celato!
I limpidi, i bravi, i trasparenti sono per me i taciturni più sottili; tal profondità ha il loro fondo che neppure la più limpida delle acque lo tradisce.
Oh tu, cielo invernale, taciturno dalla nivea barba, oh tu testa canuta dagli occhi rotondi che t’incurvi sul mio capo! Oh tu, celeste imagine della mia anima e dei suoi capricci!
E non devo io forse nascondermi in figura di chi abbia ingoiato dell’oro — affinchè non mi squarcino l’anima?
Non devo io forse camminar su le grucce, affinchè non si avvedano delle mie lunghe gambe — tutti questi invidiosi e maliziosi che mi circondano?
Come mai l’invidia di coteste anime affumicate, riscaldate alla stufa, logore, coperte d’erbacce, arcigne, — potrebbe sopportare la mia felicità?
Perciò non mostro loro che il ghiaccio ed il verno delle mie sommità — e non già il cinto splendido di sole che circonda il mio monte!
Essi sentono fischiare soltanto le mie tempeste invernali: e non sanno che io navigo anche sui caldi mari, simile ai venti bramosi, pesanti, ardenti del mezzogiorno.
Talora, anche, mostrano pietà de’ miei casi. — Ma il mio motto suona: «Lasciate venir a me il caso: egli è innocente come un bambino!».
Come potrebbero essi sopportare la mia felicità, se io non la nascondessi coi capricci, con le cure invernali, coi berretti fatti di pelle d’orso bianco o con le coperte d’un cielo nevoso; se io stesso non avessi pietà della loro pietà invidiosa e maliziosa; se dinanzi a loro io non gemessi e battessi i denti pel freddo, lasciandomi avvolgere pazientemente nel manto della lor compassione!
È questo il savio capriccio, la buona volontà della mia anima: non nascondere il suo inverno e le sue tempeste invernali; non nascondere nemmeno i suoi geloni.
Per l’uno la solitudine somiglia alla fuga dell’ammalato; per l’altro alla fuga da quelli che sono ammalati.
Possano pur sentirmi battere i denti e gemere pel freddo invernale, questi poveri sciocchi che mi circondano! Con i miei gemiti e i miei brividi io fuggo dalle loro stanze ben riscaldate.
Mi compiangono pure per i miei geloni! «Nel ghiaccio della percezione egli morrà assiderato!» — così essi dicono.
Frattanto io percorro coi miei piedi caldi a dritta e a manca il mio oliveto: nell’angolo soleggiato del mio oliveto io canto e irrido a ogni pietà».
Così cantò Zarathustra.