Colombi e sparvieri/Parte I/IV
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IV.
Tutte le mattine Margherita la serva del dottore, un’ adolescente alta e magra, dal viso olivastro e gli occhi nerissimi più grandi della piccola bocca rossa, portava al malato una bottiglia di latte. Il dottore abitava poco distante, in una casetta rossa costrutta fra le roccie fuor del paese. I vicini di Giorgio Nieddu, povera gente di cui buona parte viveva di elemosine, brontolavano vedendo Margherita entrare dal malato. Essi lo odiavano perchè ai suoi tempi egli li aveva chiamati poltroni e superstiziosi, e adesso, se tentavano di entrare nella sua stamberga per curiosare, li cacciava via come cani. Uno solo, un mendicante sordo e semiselvaggio che abitava di fronte alla casa dei Corbu, trovava grazia presso il malato: ma il poveretto, bisogna dire, non era molesto; si sedeva dietro la porta e non entrava se non chiamato e non parlava se non lo interrogavano. Da Giorgio non accettava mai nulla sapendolo più povero di lui, ed era il solo che non molestasse la serva del dottore.
Le donnicciuole invece la fermavano per il braccio e le dicevano:
— Dàllo a me quel latte: non senti che tosse che ho? Lo farò bollire con la malva.... Il tuo padrone parla male del paese, ma i denari li accumula, la casa se l’ha fatta, le vacche le ha comprate, che una palla gli trapassi il garetto! E non dà nulla a nessuno, neppure se lo ammazzano: solo a Jorgeddu, perchè è un miscredente come lui....
Ma la ragazza era taciturna: volgeva qua e là gli occhi diffidenti, si scuoteva dalla stretta delle donnicciuole e non rispondeva.
Solo se le donne parlavano troppo male del dottore diventava livida in viso e rispondeva qualche parola, ma così tagliente che le altre raddoppiavano le ingiurie.
Le loro voci stridenti arrivavano fino a Giorgio, mentre Pretu correva a curiosare e gli riferiva poi le cose orribili che le donnicciuole dicevano per lui e per il dottore. Allora Jorgj pregava Margherita di riportare via il latte: ma ella deponeva la bottiglia sulla cassa, si riavvolgeva nella sua gonna nera e se ne andava senza salutare, senza parlare, talvolta anche senza neppure guardare il malato. Egli la seguiva con lo sguardo turbato, e la sua mano diafana tremava lievemente fra le pieghe del lenzuolo: quella figurina silenziosa e nera dal profilo arabo, quel bel viso di sfinge paesana gli ricordava l’altra, quella che non veniva mai.
Un giorno anche il prete e zia Giuseppa Fiore e altre pietose persone del villaggio gli mandarono le loro serve con canestrini di pane e di vivande. Egli respinse tutto. Le donne che entravano da lui dimostravano più curiosità che pietà e gli rivolgevano domande indiscrete: l’umiliazione e la collera aumentavano allora il suo male; una vertigine angosciosa lo assaliva e non sapeva più quello che si dicesse.
Una mattina Margherita trovò la porta chiusa; per quanto picchiasse nessuno aprì, nessuno rispose: mise allora la bottiglia sulla soglia e se ne andò; ma il giorno dopo trovò ancora la porta chiusa, la bottiglia sulla porta.
Il mendicante stava appoggiato fuori al muro del cortile davanti al sole sorgente.
— È morto? — gli gridò Margherita all’orecchio.
L’uomo trasalì: la sua faccia ispida che ricordava quella del cinghiale espresse uno spavento infantile.
— Morto? — ripetè.
— Sì, domando se è morto. Non apre più. Avete visto Pretu?
— Da ieri non aprono più; non ho più veduto nessuno, — disse il mendicante, e si fece il segno della croce con una medaglia nera che teneva sul petto, — Sant’Elia e San Francesco lo aiutino.... Bisogna chiamare il prete.
Margherita correva già, spaventata, e in breve la sua figura bruna sparve in fondo al viottolo giallo di sole. Il tempo era bello, dolce, e il dottore si preparava per andare a caccia (alla sera tornava stanco e se lo chiamavano per qualche malato urlava: andate da Martina Appeddu!), ma appena sentì le notizie portate dalla serva corse da Giorgio.
Bisognò che battesse furiosamente alla porta col calcio del fucile e gridasse mille ingiurie perchè il servetto aprisse. La porta era fermata all’interno da tre grosse pietre.
Giorgio guardava dal suo letto, coi grandi occhi spalancati pieni di angoscia. La porticina in fondo era aperta e vi si scorgeva un lembo di paesaggio grigio e verde dorato dal sole.
— Ebbene, che c’è? Non sei morto? Fa’ sentire, disgraziato.... hai la febbre.... Che hai fatto?
— Tanta gente è venuta.... — disse il malato sottovoce, come confidandogli un segreto. — Tutti mandavano l’elemosina.... e passavano di qui come in una strada, dove c’è uno che è caduto.... È tornata zia Giuseppa Fiore e mi ha tormentato.... Ecco perchè ho fatto chiudere; non voglio nulla, non voglio veder più nessuno.... tranne che lei, dottore....
— Ma, disgraziato, se vogliono venirti a scovare possono passare anche di qui....
— La strada è difficile, di qui: guardi, neppure lei la conosce; bisogna scendere il sentiero dietro la chiesa, risalire la china.... Guardi, guardi....
Il dottoro, che torceva le grosse labbra da ruminante, non si volse neppure: a un tratto scoppiò a ridere.
— E tu credi che Giuseppa Fiore non possa scendere e risalire il sentiero? Chi può fermare quella giumenta? E gli altri anche?
— Be’, ma non verranno tutti i momenti.... Ho bisogno di star tranquillo, lei lo sa.... lei lo sa... Lo dica a tutti; e non mi mandi più nulla, più nulla.... Quando son solo e quella porta è chiusa mi figuro di essere lontano da tutti.... solo come un eremita....
Il dottore profittò di questa confessione per ripetere le sue teorie favorite:
— Io non ti do torto: ancora una volta il tuo istinto dimostra che l’uomo ha bisogno di vivere in modo naturale, anche se è malato, anzi specialmente se è malato. Le bestie malate si nascondono e lasciano che il fenomeno si risolva spontaneo, senz’altro aiuto che quello della natura. E per lo più, appunto, la morte negli animali avviene per cause naturali, per vecchiaia, ecc. Oh, quando l’animale non è perseguitato, deformato, ucciso dall’uomo, intendiamoci! E che cosa è infine la paura della morte, nell’uomo? E la certezza di morire prima del tempo, per malattia, dopo lunghe crisi di dolore. Se l’uomo morisse di morte naturale, cioè senza dolore, d’una morte che è dolce come il sonno in un essere sano, cosa che non può avvenire perchè il nostro organismo è imperfetto, la paura della morte sparirebbe.
Ma Giorgio non si confortava.
— Fa vedere la lingua, — gridò il dottore curvandosi sul letto.
La lingua era gialla, screpolata, ed egli scrisse una ricetta e la porse a Pretu:
— Scarafaggio, marcia....
— Devo prendere il bicchiere?
— Niente, corri....
Mentre il servetto correva, egli sedette sullo sgabello e allungò una gamba.
— Sì, sì, tu hai ragione, Jorgeddu carissimo! Ieri io mi trovavo nel bosco, su, sull’altipiano; c’era un bel sole e le roccie eran calde. Io mi coricai sopra una di esse, incavata, come una culla, e stetti là quasi due ore come un bambino, cioè come un animaletto felice. Il cielo era azzurro e i colombi selvatici passavano sul mio capo ed io pensavo: mi infischio di voi: passate pure, non vi prendo. Anzi, dirò di più: sorridevo nel vederli passare, appunto come il bambino stupido che dalla sua culla sorride agli uccelli e alle nuvole. Ed io pensavo, sì: l’uomo è nato per viver solo: gli eremiti che han fama di essere stati magnifici egoisti, erano invece uomini ancora vicini alla loro primitiva perfezione di animali. Essi seguivano il loro istinto, quello che non ci inganna, mai! Caro mio, da giovane io pensavo di raddrizzar le gambe ai cani, e la superstizione, l’ignoranza, l’infingardaggine mi sembravano le tre gambe storte dell’animale uomo: la quarta, l’astuzia, quella che giusto proviene dall’istinto di conservazione, quella sola mi sembrava ancora dritta.... Dimmi che cosa vuole da te Giuseppa Fiore....
— Vuole che io dia querela per diffamazione a quelli lì.... Essa si propone di cercare i testimoni e di.... pagarli.... Mi ha offerto la sua protezione presso il Commissario per farmi dare un sussidio.... essa vuol dannare l’anima mia, mentre l’altro, il prete, vuole salvarmi per forza! Egli disse a qualcuno che farà venire su il vescovo per convertirmi....
Il dottore indicò col bastone la porticina.
— Hai fatto bene ad aprire quella lì! Senti, hai fatto benone! Ti permetto di bere una bottiglia di vino di Oliena: anzi te la manderò io!
— No, no, non mi mandi nulla....
— Zitto, silenzio, disgraziato! perchè non la vuoi? per orgoglio? Hai diritto di essere orgoglioso, tu?
Giorgio credette che il dottore alludesse al triste passato; e i suoi occhi si cerchiarono d’ombra, ma le sue labbra si chiusero come quelle di un morto.
Egli non parlava mai del suo passato, sebbene convinto che anche il dottore lo credesse colpevole. Il ritorno di Pretu con la medicina e con la notizia dell’arrivo del Commissario ricondusse un po’ di letizia nella stamberga.
— Il signor Commissario è alto e secco e nero come la croce di Cristo. Ha gli occhi piccoli, le palpebre rosse, la bocca grande; è calvo come ziu Remundu, ma ha una corona di capelli neri e i baffi lunghi e pure neri neri, e mia madre ha sentito dire che forse forse egli si tinge, come si usa in Continente, forse con la fuliggine sciolta nell’olio.... Questo però me lo immagino io. Egli ha, inoltre, un vestito nero, poi ne ha un altro a righe, e un gabbano lungo col collo di pelo, come quello di vossignoria, ma più nuovo. Ha una cravatta color prugna selvatica, con un anello d’oro, e un altro anello alle dita, grosso come gli anelli che si fanno con le foglie della palma, a Pasqua.... I piedi son lunghi e sottili, e le scarpe hanno i bottoni....
Egli avrebbe proseguito chissà fino a quando con questi particolari, se il dottore non avesse gridato:
— Basta con queste scemezze! Di’ piuttosto com’è la sua voce.
— È una voce grossa, ma non come quella di vossignoria. Il Commissario poi è cavaliere, viene da Nuoro e, dicono, ha molti denari. E dicono che qui ci starà sei mesi e che si mangerà quattrocento scudi del comune.
— Bastassero! — disse il dottore, rivolgendosi a Pretu. — Ma questo vi sta bene, benone, benissimo! È il flagello che Dio vi manda, e ve ne accorgerete meglio un altro giorno. Io per me me ne lavo le mani, ottime bestie; io non ho mai voluto un voto vostro; mi vergognerei di far parte di un’amministrazione come la vostra, ma vi dico che adesso il flagello vi sta bene, benone!
Pretu sollevava il coperchio della cassa, aiutandosi con la testa per tenerlo aperto bene, e contava i denari del padrone, che lo preoccupavano molto più che i denari del Comune. Trasse una piccola salvietta bucata e la porse al malato che aveva versato la medicina dalla bottiglia nel bicchiere trangugiandola poi con supremo disgusto.
Dio mio, Dio mio. — mormorò Jorgj pulendosi le labbra e la lingua. — è meglio morire!
Andato via il dottore, Pretu disse:
— Ziu. Jò, là nella farmacia ho sentito dire una cosa. Che il Commissario vi farà dare un sussidio....
— Non voglio nulla, — gridò il malato rianimandosi. — Tu devi dire a tutti che non ho bisogno di nulla.
— Per adesso! Abbiamo due biglietti grossi e quarantacinque soldi in rame: abbiamo pane, formaggio, uova, una salsiccia.... Ma poi, zio Jò, come faremo poi?
— Venderò la casa; il dottore la comprerà per farne un pagliaio.
— E poi, finiti quei denari?
— E non devo morire? Lasciami in pace dunque, se no ti mando via come ho fatto con gli altri.
Ma il ragazzo si mise a ridere.
— Pretu, — disse il malato dopo un momento di silenzio, — se tu riuscissi a comprarmi un po’ di uva passa! È da tanto che la desidero.
— In casa di zio Remundu Corbu ne vendono, bella e grossa che sembra uva fresca.
— Tu non andrai in quella casa, Pretu! Guai a te se ci vai! Ti maledirò anche morto.
Allora il ragazzo, che non aveva paura del suo padrone vivo, rabbrividì e s'avvicinò al letto.
— No, no, zio mio, non fate questo! Passerò a spalle voltate davanti a quella casa. Io non guardo mai là! Anche oggi ho visto Columba, quella che dovevate sposar voi; era sulla porta; era vestita a nuovo, col corpetto di velluto broccato; chissà, forse doveva arrivare lo sposo.... Ma io non ho guardato; vi giuro sulla mia coscienza, non ho guardato....
— Era magra? Era pallida! — domandò Jorgj sottovoce.
— Sì, è magra; sembra una capretta assiderata; aveva tanti anelli d’argento alle dita....
— Non ti ha detto nulla? — Nulla.
— Se t’ha detto qualche cosa dimmelo: non ti sgriderò.
— No, vi giuro, nulla. Solo mi guardava. Volete che mi faccia dire qualche cosa da lei?
— No, nulla! Guardati bene dall’avvicinarti a lei. Pretu: tanto io verrei a saperlo lo stesso.
E siccome il ragazzo tornava a sorridere conmalizia, egli aggiunse:
— Io sento tutto, anche quello che dicono in piazza, anche quello che dicono nelle case. Il vento mi porta le notizie di tutto il paese, ed io posso dirti anche quello che tu non sai....
— Allora siete uno stregone; sì, ma io non ho paura di voi, ecco, — rispose Pretu traendo dal seno una medaglia antica che sua madre gli aveva appeso al collo fin da bambino per preservarlo dalle stregonerie.
La giornata passo così, fra chiacchiere puerili. Nel pomeriggio il malato si sentiva già meglio, per effetto della medicina e perchè nessuno era andato a battere alla sua porta.
Dopo aver dormicchiato come al solito prese il suo libriccino e lesse: poi ad un tratto diventò pensieroso. Fece ricercare da Pretu un taccuino che stava in fondo alla cassa, ne staccò qualche foglietto già scritto, e col pollice fece scorrere a lungo distrattamente gli angoli dei molti foglietti ancora vergini.
Vedendolo tranquillo Pretu andò via e ritornò verso il tramonto.
Giorgio scriveva sul taccuino appoggiato ad un libro sull’orlo del letto, e il ragazzo si meravigliò di trovarlo in una posizione insolita, con la testa molto reclinata sul cuscino.
— Non state male così? Non vi gira la testa? Zio Jò, cosa fate?
Ma il malato, che aveva messo il calamaio sul letto e ogni tanto allungava la mano per bagnar la penna senza abbandonare con gli occhi il taccuino, non rispose neppure. Sembrava assorto nella sua scrittura come quando leggeva il libro dei Salmi.
Ma qualcuno battè alla porta: egli sollevò gli occhi ansiosi e si sentì battere il cuore sembrandogli ancora una volta che Pretu dopo aver spiato dalla fessura mormorasse: «È Columba....»
— È quella demonia nera, la serva del dottore: ha una bottiglia.... — disse il ragazzo sottovoce, avvicinandosi in punta di piedi al letto.
— Non aprire, no!
La serva picchiò di nuovo, poi se ne andò. Più tardi s’udirono passi nel cortile e Pretu guardò e vide il mendicante. Qualcuno picchiò ancora ma la porta rimase sempre chiusa.
Verso sera il cielo si coprì di nuvole e il vento fischiò e urlò nella valle. Pareva che parlasse davvero e raccontasse storie e leggende. A volte la sua voce era lontana e supplichevole: voce che implorava, che narrava una storia triste e domandava pietà, aiuto, conforto: nessuno l’ascoltava e allora la voce si avvicinava, diventava ardita, ripeteva la stessa storia, ma con accenti gagliardi, e domandava giustizia: nessuno rispondeva, nella sera verdastra che copriva di veli lividi il misterioso paesaggio: e per un attimo la voce taceva, come sbalordita che al mondo non esistesse più giustizia nè pietà; ma dopo qualche momento di silenzio profondo si levava un urlo di minaccia, seguito da lunghi gridi di vendetta, da fischi diabolici, da risate clamorose. Lo spirito dapprima timido poi ardito era diventato feroce e possente e si vendicava contro la natura impassibile al suo dolore. E sconvolgeva tutto, flagellando le pietre, le macchie, i fili d’erba più umili e innocenti: travolgeva ogni cosa nella sua collera suprema, e pareva che le grandi nuvole nere e gonfie come otri immense fuggissero sul cielo verdognolo della sera spaventate dall’ira del vento, andando a vuotarsi dietro i boschi dell’altipiano.
Giorgio ascoltava e provava una tristezza infinita; a volte gli sembrava che fosse l’anima sua a parlare con la voce del vento, a volte che il suo povero corpo inerte fosse l’umile pietra percossa dalla raffica infernale.
— Vattene, — disse al ragazzo quando la luce si spense nello sportello: — passa per il cortile.
Ma Pretu nonostante le sue paure superstiziose preferiva la porticina sul ciglione. Un istinto di bravura, il desiderio di cose ignote e terribili lo spingeva ad attraversare di notte il sentiero mal sicuro. Aprì la porticina e riattirandola a sè sparì come ingoiato dal vento e dalle tenebre.
Di nuovo Jorgj rimase solo nella sua tomba di vivente, solo coi suoi fantasmi. Nel dormiveglia aveva l’impressione di alzarsi, di aprir la cassa con la testa come faceva Pretu, di contare i denari; gli ultimi che gli restavano della vendita di un suo pezzo di terra. I biglietti grossi erano due carte da dieci lire l’una. E dopo? La morte di fame o l’elemosina. Ma egli non voleva morire: tutta la sua anima si ribellava a quest’idea; gli pareva di essere come la natura in quella stagione, gelata e inaridita dal freddo, tormentata dalle bufere, ma pronta a ridestarsi al primo soffio della primavera.
Egli non voleva morire: il dolore stesso gli era caro perchè gli dava ancora un senso di vita. La collera che i curiosi gli destavano, l’urlo del vento, la nenia funebre della matrigna, le parole pungenti del dottore, la visione di Colomba sulla porta, l’attesa, il ricordo, tutto era segno di vita, luce lontana che illuminava ancora l’abisso nero entro cui egli si sentiva disteso con le membra rotte come uno che è caduto dall’alto.
Nei giorni seguenti qualcuno battè ancora alla porta del cortile.
— È la serva del parroco, — diceva Pretu sottovoce, dopo aver spiato dalla fessura: oppure: — è zia Giuseppa Fiore; è Margherita con un involto sotto la gonna.
— Non aprire.
E le visite se ne andavano e non tornavano. Pretu raccontava:
— Sentite, zio Jò, in casa di Dionisio Farranca ieri dicevano che è stato il dottore a farvi chiudere la porta perchè avete un male che attacca. Dicevano: Dio lo castiga bene quel superbone. E a mia madre dicevano: perchè lasci andare tuo figlio? Ma mia madre rispose: finora Pretu mio è stato bene e le sette lire che Jorgeddu gli dà ogni mese sono per me come sette oncie d’oro...
Anche il dottore, visto che il malato non peggiorava e non migliorava, diradò le sue visite. Un giorno Pretu disse:
— Mia madre è stata ad infornare il pane da zia Giuseppa Fiore: e là dicevano che il Commissario verrà a farvi visita. Ma egli passeggia sempre col prete e forse questo gli dirà di non venire perchè voi lo caccerete via come gli altri....
Infatti il Commissario non si lasciò vedere: a poco a poco il malato si abituò alla sua solitudine e non attese più che qualcuno battesse timidamente alla porta e che il servetto spiando dalla fessura mormorasse:
— È Columba!
Ella non sarebbe venuta più; ma egli non voleva morire come un condannato innocente, portando con sè nella tomba il peso della calunnia. Tutti i giorni Pretu lo trovava a scrivere sul taccuino e gli domandava se scriveva la sua confessione.
— È lunga. Avete molti peccati, zio Jò! Ma li notate tutti, ad uno ad uno? Leggetemi un pezzetto della vostra confessione: vi giuro sulla mia coscienza che non lo ripeterò a nessuno....
Un giorno, — era ai primi di aprile e il tempo s’era di nuovo rasserenato, — Pretu arrivò saltellando su dal sentiero del ciglione e portò a Jorgi due violette umide, pallide e profumate. Un tremito agitò le povere mani dello studente: egli si portò le violette alle labbra, chiuse gli occhi, e le sue lagrime bagnarono i piccoli petali che rappresentano la primavera, la poesia, tutte le cose belle della vita che non gli appartenevano più!
Pretu guardava meravigliato.
— Che avete, zio Jò? Vi sentite male?
Ma d’improvviso il malato diventò allegro.
— Senti, Pretu, ti voglio leggere i miei peccati. Quando sarò morto tu porterai questo libretto al parroco....
— Ma se voi morrete egli verrà bene a confessarvi a voce....
— Egli disse che non tornava se non lo chiamavo; ed io non voglio chiamarlo più....
Il ragazzo portò il fornellino accanto alla porta e cominciò a preparare il pranzo.
Dal ciglione arrivava il profumo del timo e qualche grido d’uccello vibrava nel silenzio insolito della valle.
Jorgj trasse il taccuino di sotto al guanciale e cominciò a sfogliarlo. Egli non sapeva per chi aveva scritto quelle paginette, ma era contento di averle scritte; e si sentiva sollevato come uno che davvero ha fatto la sua confessione.