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volgeva ogni cosa nella sua collera suprema, e pareva che le grandi nuvole nere e gonfie come otri immense fuggissero sul cielo verdognolo della sera spaventate dall’ira del vento, andando a vuotarsi dietro i boschi dell’altipiano.

Giorgio ascoltava e provava una tristezza infinita; a volte gli sembrava che fosse l’anima sua a parlare con la voce del vento, a volte che il suo povero corpo inerte fosse l’umile pietra percossa dalla raffica infernale.

— Vattene, — disse al ragazzo quando la luce si spense nello sportello: — passa per il cortile.

Ma Pretu nonostante le sue paure superstiziose preferiva la porticina sul ciglione. Un istinto di bravura, il desiderio di cose ignote e terribili lo spingeva ad attraversare di notte il sentiero mal sicuro. Aprì la porticina e riattirandola a sè sparì come ingoiato dal vento e dalle tenebre.

Di nuovo Jorgj rimase solo nella sua tomba di vivente, solo coi suoi fantasmi. Nel dormiveglia aveva l’impressione di alzarsi, di aprir la cassa con la testa come faceva Pretu, di contare i denari; gli ultimi che gli restavano della vendita di un suo pezzo di terra. I biglietti grossi erano due carte da dieci lire l’una. E dopo? La morte di fame o l’elemosina. Ma egli non voleva morire: tutta la sua anima si ribellava a quest’idea; gli pareva di essere come la natura in quella stagione, gelata e inaridita dal freddo, tormentata dalle bufere, ma pronta a ridestarsi al primo soffio della primavera.

Egli non voleva morire: il dolore stesso gli era caro perchè gli dava ancora un senso di vita. La collera che i curiosi gli destavano, l’urlo del vento, la nenia funebre della matrigna, le parole pungenti del dottore, la visione di Colomba sulla porta, l’attesa, il ricordo, tutto era