Codice cavalleresco italiano/Libro III/Capitolo XVII
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XVII.
Validità del verdetto di un Giurì.
Diritto di ricorso ad una Corte d’onore contro il verdetto di un Giurì.
Costituzione e funzionamento delle Corti d'onore.
Il verdetto di un giurì è di per sè nullo e di nessun effetto quando:
1° furono violati i principi fondamentali delle leggi d’onore (C. d’On. Milano, 18 giugno 1903; Firenze, 22 ottobre 1899; Livorno, 5 ottobre 1921; e 25 marzo 1922; Bari, 3 maggio 1922; Roma, 3 luglio 1922);
2° nella composizione del giurì non furono osservate le regole prescritte, garanzia unica per gli appellanti o interessati comunque sulla regolarità del giudizio (Corti d’On. citate);
3° il giudizio si estese a fatti o circostanze non comprese nel mandato affidato al giurì (Corti d’On. citate);
4° le decisioni furono prese col concorso di un giudice (fiduciario) recusato (Corti d’On. citate), o con l’intervento di un giudice che abbia precedentemente e comunque palesato la propria parzialità, o consigliato deposizioni dannose per uno dei giudicabili;
5° il giurì non fu costituito con l’intervento diretto e personale di tutti i rappresentanti (Corti d’On. citate);
6° furono esclusi testimoni a difesa, anche se addotti per deporre sulle generiche (C. d’On. citate);
7° il verdetto (lodo) difetta di motivazione, o accenna a circostanze senza precisarle, o non provate in modo assoluto (C. d’On. citate).
Qualunque gentiluomo, senza incorrere nella perdita delle prerogative cavalleresche, ha facoltà di reclamo al presidente del giurì che pronunciò il verdetto, qualora ritenga il lodo viziato nella forma o errato nella sostanza.
Nota. — Così decretarono le C. d’O. di Milano, 18 giugno 1903; Livorno, 25 marzo 1922; Bari, 3 maggio 1922; Roma, 3 luglio 1922.
Se una delle parti ritenesse non giusto il verdetto; presumendo che i giudici furono tratti in errore, o che furono violati i diritti di una parte, o che non furono osservate le prescrizioni cavalleresche, garanzia unica in codesti giudizi elettivi, ecc., deve possibilmente nelle 24 ore dalla comunicazione infirmare il lodo, mediante lettera al presidente e produrre nel termine più breve domanda motivata di revisione. Il presidente del giurì non può rifiutarsi di riesaminare senza preconcetti o risentimento le ragioni addotte. Se il reclamo resultasse infondato e provato in modo sicuro ed assoluto che fu un tentativo di svalutazione del verdetto, seguendo la propria coscienza il giurì potrà pronunziare la squalifica dei ricorrenti. Ma sarà più corretto invocare il giudizio di una Corte d’onore con il concorso obbligatorio dei ricorrenti, e se questi si rifiutassero, la Corte pronunzierà senz’altro la loro squalifica.
Nella seduta del 16 gennaio 1923 la Corte d’O. permanente di Firenze, rispondendo ad analogo quesito, decideva:
«Qualora la Corte, pronunziando giudizio in sede di appello, deliberasse su circostanze che non fossero state oggetto di giudizio di primo grado, è ammissibile il ricorso alla stessa Corte sopra tali circostanze. Ma il ricorso può essere proposto solo dalle parti, mai da un giurì, la esistenza cavalleresca del quale cessa con la comunicazione del lodo.
«Tuttavia deve riconoscersi ai già componenti di un giurì, in quanto gentiluomini, la facoltà di ricorrere singolarmente ad altra giurìa della stessa Corte, qualora il giudizio avesse rilevato nella condotta dei giudici tali scorrettezze morali (e quindi non errori procedurali o di diritto) capaci di condurre alla squalifica cavalleresca, perchè in allora il giudizio su le persone dei giudici sarebbe di primo grado e non di appello.
Qualora in un verdetto di un giurì si ritenesse necessario chiarire il concetto di una frase di dubbia interpretazione, è obbligo degli interessati d’interpellare nelle forme cavalleresche il presidente del giurì, che pronunziò il lodo (C. d’On. Firenze, 12 gennaio 1890; Milano, 18 giugno 1896; Torino, 3 giugno 1922; Genova, 8 luglio 1922 (Sen. Setti); Roma, 3 luglio 1922).
Il presidente, appena ricevuta la richiesta, senza tener conto della tempestività o meno di essa, riconvoca, se lo crede, il giurì per concretare il testo dei chiarimenti richiesti, o li dà esso personalmente, assumendone la responsabilità di fronte ai colleghi (Corti d’On. citate).
Nessun’altra persona può arrogarsi il diritto, e nessun consesso può riunirsi, o legittimamente costituirsi, per chiarire o interpretare il lodo o parte del verdetto pronunziato da un giurì d’onore, i componenti del quale sono ancora in vita e non si sono rifiutati di chiarire o di dare la giusta interpretazione del proprio giudizio. Solo, legittimo, sicuro interprete del proprio giudicato è chi lo ha pronunziato (Corti d’On. Firenze, 12 gennaio 1890; Milano, 18 giugno 1896; Torino, 17 maggio 1898 e 3 giugno 1922; Genova, 8 luglio 1922; Roma 3 luglio 1922).
Nota. — La conferma fattane da sei Corti d’onore è la prova più sicura che il principio di questa massima sacramentale e di fondamento in materia d’onore corrisponde alla coscienza pubblica e sopratutto al buon senso. Ed infatti, pensare diversamente può legittimamente far nascere il sospetto del partito preso per il salvataggio di un amico, e ciò emigra dalla cavalleria e sfugge ad ogni commento in materia d’onore, perchè naviga in altre acque. Tanto più grave è la lesione alle leggi d’onore, allorchè codesto compito d’interpretazione viene assegnato ad un giurì unilaterale, il quale non può legittimamente riunirsi ed essere considerato seriamente, quando si raccoglie senza e contro gli elementi dell'art. 280, pe’ quali solamente è tollerata la costituzione di un giurì unilaterale. Di conseguenza, il suo giudizio, qualunque si sia, verrà ritenuto nullo agli effetti cavallereschi, malgrado ogni pensiero contrario da qualunque parte possa venire, poichè esso è e resterà sempre una opinione personale e di parte; mentre i deliberati delle sei Corti d’onore rappresentano giudizi collegiali, di enti costituiti al di fuori di ogni dibattito delle parti, e perciò formano legge per i gentiluomini.
Contro il lodo di un giurì, ritenuto viziato nella forma o errato nella sostanza (art. 305 b) non si può invocare il giudizio di altro giurì bilaterale, e tanto meno unilaterale; ma deve prodursi appello ad una Corte d’onore permanente o eventuale, formata ne’ modi indicati all’art. 305 g; richiesta di comune accordo; e, in caso di rifiuto, da una sola parte, semprechè il presidente del giurì giudicante siasi ricusato di dare corso alla domanda di revisione con le prescritte garanzie.
Però, qualora la Corte riscontrasse la infondatezza delle ragioni dell’appello, e giudicasse quelle come un tentativo posto in essere per diminuire il significato del lodo e annullarne le conseguenze, potrà pronunziare la decadenza degli appellanti dalle prerogative cavalleresche (C. d’On. citate).
Nota. — Non è difficile valutare le ragioni morali e cavalleresche di questo assioma d’onore. L’appello contro un verdetto di un giurì dev’essere rivolto ad un corpo giudicante superiore, moralmente e intellettualmente capace d’imporsi anche a coloro che non vogliono udire e non vogliono vedere ciò che ad essi non garba. Sarebbe ridicolo, oltrechè privo di senso, che contro una sentenza del Tribunale penale, si facesse ricorso, per esempio, al Pretore, o al Conciliatore contro una sentenza del Pretore! Bisognerebbe essere digiuni di ogni concetto elementare del diritto per ammettere che contro un deliberato di un giurì si ricorresse ad un arbitro, o a un giurì unilaterale, il quale, in molti casi, è al disotto dell’arbitrato, giudice eletto dai contendenti, mentre il giurì unilaterale lo è dalla parte interessata.
La Corte d’onore eventuale viene nominata, su domanda delle parti interessate, da persona eminente nella magistratura, nella milizia, nelle cariche amministrative, o, come spesso accade da un uomo politico o da un cittadino ben noto nel campo della cavalleria.
Il personaggio, che accetta codesto delicato incarico, di fiducia, sceglie i giudici (quattro o sei) e il presidente, a meno che non preferisca presiedere personalmente la Corte.
I giudici prescelti in tal guisa non possono per alcun motivo essere recusati dalle parti, pena la squalifica.
La Corte, così costituita, ha piena ed integra libertà d’azione, d’indagine e di giudizio nei limiti del mandato. Il suo giudizio è inappellabile e le sue massime restano legge indiscussa in materia d’onore.
Chiunque tentasse menomare la validità o la portata morale del lodo di una Corte, perderebbe senz’altro le prerogative cavalleresche.
Il presidente di una Corte d’O. è in pieno diritto di riconvocare la Corte in qualunque tempo e luogo, quando per fatti o circostanze nuove reputasse necessario confermare o modificare il giudizio pronunziato, o provvedere ai mezzi per assicurare il rispetto al lodo dalla Corte emesso.
Nota. — È dovere cavalleresco in chi ha senso d’onore di accedere all’invito del presidente della Corte di testimoniare davanti ad essa, poichè il rifiuto o semplicemente il silenzio saranno considerati dalla Corte, a secondo dei casi, in senso sempre favorevole all’accusato, o all’appellante.