Ciro riconosciuto/Atto primo

Atto primo

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Interlocutori Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Campagna su’ confini della Media, sparsa di pochi alberi, ma tutta ingombrata di numerose tende per comodo d’Astiage e della sua corte. Da un lato gran padiglione aperto, dall’altro steccati per le guardie reali.

Mandane seduta e Arpalice.

Mandane. Ma di’: non è quel bosco (con impazienza)

della Media il confine?
Arpalice.   È quello.
Mandane.   Il loco
questo non è, dove alla dea triforme
ogni anno Astiage ad immolar ritorna
le vittime votive?
Arpalice.   Appunto.
Mandane.   E scelto
questo dí, questo loco
non fu dal genitore al primo incontro
del ritrovato Ciro?
Arpalice.   E ben, per questo
che mi vuoi dir?
Mandane.   Che voglio dirti? E dove
questo Ciro s’asconde?
Che fa? perché non viene?
Arpalice.   Eh! principessa,
l’ore corron piú lente

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che il materno desio. Sai che prescritta

del tuo Ciro all’arrivo è l’ora istessa
del sacrifizio. Alla notturna dea
immolar non si vuole
pria che il sol non tramonti; e or nasce il sole.
Mandane. È ver; ma non dovrebbe
il figlio impaziente... Ah! ch’io pavento...
Arpalice...
Arpalice.   E di che, se Astiage istesso,
che lo voleva estinto, oggi il suo Ciro
chiama, attende, sospira?
Mandane.   E non potrebbe
finger cosí?
Arpalice.   Finger! Che dici? E vuoi
che di tanti spergiuri
si faccia reo? che ad ingannarlo il tempo
scelga d’un sacrifizio, e far pretenda
del tradimento suo complici i numi?
No: col cielo in tal guisa
non si scherza, o Mandane.
Mandane.   E pur, se fede
prestar si dee... Ma chi s’appressa? Ah! corri...
Forse Ciro...
Arpalice.   È una ninfa.
Mandane.   È ver. Che pena!
Arpalice. (Tutto Ciro le sembra.) E ben?
Mandane.   Se fede
meritan pur le immagini notturne,
odi qual fiero sogno...
Arpalice.   Ah! non parlarmi
di sogni, o principessa: è di te indegna
sí pueril credulitá. Tu déi
piú d’ognun detestarla. Un sogno, il sai,
fu cagion de’ tuoi mali. In sogno il padre
vide nascer da te l’arbor che tutta
l’Asia copria: n’ebbe timor; ne volle

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interpreti que’ saggi, il cui sapere

sta nel nostro ignorar. Questi, ogni fallo
usi a lodar ne’ grandi, il suo timore
chiamâr prudenza, ed affermâr che un figlio
nascerebbe da te, che il trono a lui
dovea rapir. Nasce il tuo Ciro, e a morte,
oh barbara follia!
su la fede d’un sogno il re l’invia.
Né gli bastò. Perché mai piú non fosse
il talamo fecondo
a te di prole e di timori a lui,
esule il tuo consorte
scaccia lungi da te. Vedi a qual segno
può acciecar questa insana
vergognosa credenza.
Mandane.   Eh! non è sogno
che ormai l’ottava messe
due volte germogliò, da che perdei,
nato appena, il mio Ciro. Oggi l’attendo,
e mi speri tranquilla?
Arpalice.   In te credei
piú moderato almeno
questo materno amor. Perdesti il figlio
nel partorirlo, ed il terz’anno appena
compievi allora oltre il secondo lustro:
in quella etá s’imprime
leggiermente ogni affetto.
Mandane.   Ah! non sei madre;
perciò... Ma non è quello
Arpago, il padre tuo? Sí. Forse ei viene...
Arpago...

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SCENA II

Arpago e dette.

Arpago.   Principessa,

è giunto il figlio tuo.
Mandane. (s’alza)  Dov’è?
Appago.   Non osa
passar del regno oltre il confin, sin tanto
che il re non vien. Questa è la legge.
Mandane.   Andiamo,
andiamo a lui. (incamminandosi)
Arpago.   Ferma, Mandane: il padre
vuol esser teco al grande incontro.
Mandane.   E il padre
quando verrá?
Arpago.   Giá incamminossi.
Mandane.   Almeno,
Arpago, va’; ritrova Ciro...
Arpago.   Io deggio
qui rimaner finché il re venga.
Mandane.   Amica
Arpalice, se m’ami,
va’ tu. (Felice me!) Presso a quel bosco
egli sará.
Arpalice.   Volo a servirti. (volendo partire)
Mandane.   Ascolta.
Esattamente osserva
l’aria, la voce, i moti suoi; se in volto
ha piú la madre o il genitor. Va’, corri,
e a me torna di volo... Odimi: i suoi
casi domanda, i miei gli narra, e digli
ch’egli è... ch’io sono... Oh dèi!
Digli quel che non dico e dir vorrei.

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Arpalice.   Basta cosí, t’intendo:

     giá ti spiegasti appieno,
     e mi diresti meno,
     se mi dicessi piú.
          Meglio parlar tacendo:
     dir molto in pochi detti
     de’ violenti affetti
     è solita virtú. (parte)

SCENA III

Mandane e Arpago.

Mandane. Ed Astiage non viene! Arpago, io vado

ad affrettarlo. Ah, fosse
il mio sposo presente! Oh Dio, qual pena
sará per lui, nel doloroso esiglio,
saper trovato il figlio,
non poterlo veder! Tutte figuro
le smanie sue; gli sto nel cor.
Arpago.   Mandane,
odi: taci il segreto e ti consola.
Cambise oggi vedrai.
Mandane.   Cambise! E come?
Arpago. Di piú non posso dirti.
Mandane.   Ah! mi lusinghi,
Arpago.
Arpago.   No: sulla mia fé riposa:
tel giuro, oggi il vedrai.
Mandane.   Vedrò lo sposo?
l’unico, il primo oggetto
del tenero amor mio, che giá tre lustri
piansi invano e chiamai?
Arpago.   Sí.
Mandane.   Numi eterni,

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che impetuoso è questo

torrente di contenti! Oh figlio! oh sposo!
oh me felice! Arpago, amico, io sono
fuor di me stessa; e nel contento estremo
per soverchio piacer lagrimo e tremo.
               Par che di giubilo
          l’alma deliri,
          par che mi manchino
          quasi i respiri,
          che fuor del petto
          mi balzi il cor.
               Quanto è piú facile
          che un gran diletto
          giunga ad uccidere
          che un gran dolor! (parte)

SCENA IV

Arpago solo.

Sicuro è il colpo. Oggi farò palese

il vero occulto Ciro; oggi il tiranno
del sacrifizio atteso
la vittima sará. Con tanta cura
lo sdegno mio dissimulai, che il folle
non diffida di me. Sedotti sono,
fuor che pochi custodi,
tutti i suoi piú fedeli: infin Cambise
del disegno avvertii. Potete alfine,
ire mie, scintillar: fuggite ormai
dal carcere del cor; soffriste assai.
          Giá l’idea del giusto scempio
     mi rapisce, mi diletta;
     giá, pensando alla vendetta,
     mi comincio a vendicar.

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          Giá quel barbaro, quell’empio

     fa di sangue il suol vermiglio;
     ed il sangue del mio figlio
     giá si sente rinfacciar. (parte)

SCENA V

Parte interna della capanna abitata da Mitridate con porta in faccia, che unicamente v’introduce.

Ciro e Mitridate.

Ciro. Come! io son Ciro? e quanti

Ciri vi son? Giá sul confin del regno
sai pur che un Ciro è giunto. Il re non venne
per incontrarlo?
Mitridate.   Il re s’inganna. È quello
un finto Ciro: il ver tu sei.
Ciro.   L’arcano
meglio mi spiega: io non l’intendo.
Mitridate.   Ascolta.
Sognò Astiage una volta...
Ciro.   Io so di lui
il sogno ed il timor; de’ saggi suoi
so il barbaro consiglio; il nato Ciro
so che ad Arpago diessi; e so...
Mitridate.   Non darti
sí gran fretta, o signor. Quindi incomincia
quel che appunto non sai: sentilo. Il fiero
cenno non ebbe core
Arpago d’eseguir. Fra gli ostri involto,
timido a me ti reca...
Ciro.   E tu nel bosco...
Mitridate. No; lascia ch’io finisca. (Oh impaziente
giovane etá!) La mia consorte avea
un bambin senza vita

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partorito in quel dí. Proposi il cambio:

piacque. Te per mio figlio
sotto nome d’Alceo serbo, ed espongo
l’estinto in vece tua.
Ciro.   Dunque...
Mitridate.   Non vuoi
ch’io siegua? Addio.
Ciro.   Sí, sí, perdona.
Mitridate.   Il cenno
credé compiuto il re. Pensovvi, e, sciolto
dal suo timor, vide il suo fallo, intese
del sangue i moti, e fra i rimorsi suoi
pace piú non avea. Quasi tre lustri
Arpago tacque. Alfin stimò costante
d’Astiage il pentimento; e te gli parve
tempo di palesar. Pur, come saggio,
prima il guado tentò. Desta una voce
s’era in que’ dí che Ciro
fra gli sciti vivea; ch’altri in un bosco
lo raccolse bambino. O sparso fosse
dall’impostor quel grido, o che dal grido
nascesse l’impostor, vi fu l’audace
che il tuo nome usurpò.
Ciro.   Sará quel Ciro
che vien...
Mitridate.   Quello. T’accheta. Al re la fola
Arpago accreditò, dentro al suo core
ragionando in tal guisa: — O il re ne gode,
ed io potrò sicuro
il suo Ciro scoprirgli; o il re si sdegna,
e i suoi sdegni cadranno
sopra dell’impostor. —
Ciro.   Ma, giá che tanto
tenero Astiage è del nipote e vuole
oggi stringerlo al sen, perché si tace
il vero a lui?

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Mitridate.   Dell’animo reale

Arpago non si fida. Il re gli fece
svenare un figlio in pena
del trasgredito cenno; e mal s’accorda
tanto affetto per Ciro e tanto sdegno
per chi lo conservò. Prima fu d’uopo
contro di lui munirti. Alfin l’impresa
oggi è matura. Al tramontar del sole
sarai palese al mondo; abbraccerai
la madre, il genitor. Questi fra poco
verrá: l’altra giá venne.
Ciro.   È forse quella
che mi parve sí bella or or, che quindi
frettolosa passò?
Mitridate.   No: fu la figlia
d’Arpago.
Ciro.   Addio. (vuol partire)
Mitridate.   Dove?
Ciro.   A cercar la madre.
  (in atto di partire)
Mitridate. Férmati! ascolta. Ella, Cambise e ognuno
crede finora al finto Ciro, e giova
l’inganno lor; che se Mandane...
Ciro.   A lei
mai per qualunque incontro
non spiegherò chi sono,
finché tu nol permetta. Addio. Diffidi
della promessa mia? Tutti ne chiamo
in testimonio i numi. (partendo)
Mitridate.   Ah! senti. E quando
comincerai cotesti
impeti giovanili
a frenare una volta? In quel che brami
tutto t’immergi, e a quel che déi non pensi.
Sai qual giorno sia questo
per la Media e per te? sai ch’ogni impresa

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s’incomincia dal ciel? Va’ prima al tempio;

l’assistenza de’ numi
devoto implora; e in avvenir, piú saggio,
regola i moti... Ah, come parlo! All’uso
di tant’anni, o signor, questa perdona
paterna libertá. So che favella
cambiar teco degg’io. Rigido padre,
no, non riprendo un figlio;
servo fedele, il mio signor consiglio.
Ciro. Padre mio, caro padre, è vero, è vero;
conosco i troppo ardenti
impeti miei: gli emenderò. Cominci
l’emenda mia dall’ubbidirti. Ah! mai,
mai piú non dir che il figlio tuo non sono:
è troppo caro a questo prezzo il trono.
          Ognor tu fosti il mio
     tenero padre amante:
     essere il tuo vogl’io
     tenero figlio ognor.
          E in faccia al mondo intero
     rispetterò, regnante,
     quel venerato impero,
     che rispettai pastor. (parte)

SCENA VI

Mitridate e poi Cambise in abito di pastore.

Mitridate. Chi potrebbe a que’ detti

temperarsi dal pianto?
Cambise. (guardando intorno)  Il ciel ti sia
fausto, o pastor.
Mitridate.   Te pur secondi. (Oh dèi!
non è nuovo quel volto agli occhi miei.)

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Cambise. Se gli ospitali numi

si veneran fra voi, mostrami, amico,
del sacrifizio il loco. Anch’io straniero
vengo la pompa ad ammirarne.
Mitridate.   Io stesso
colá ti scorgerò. (No, non m’inganno:
egli è Cambise.) (guardandolo attentamente)
Cambise.   (Ed Arpago non trovo!)
Mitridate. (Scoprasi a lui...) Ma chi vien mai?
Cambise.   Son quelli
i reali custodi?
Mitridate.   Anzi il re stesso.
Cambise. Astiage! (sorpreso)
Mitridate.   Sí.
Cambise.   Lascia ch’io parta.
Mitridate.   È troppo
giá presso. Fra que’ rami
colá raccolti in fascio
célati.
Cambise.   Oh fiero incontro! (si nasconde)

SCENA VII

Astiage, Mitridate e Cambise celato.

Astiage. (chiudendo la porta)  Alcun non osi

qui penetrar, custodi.
Mitridate. (A che vien l’inumano?
O giá vide Cambise, o sa l’arcano.)
Astiage. Chi è teco? (guardando sospettosamente intorno)
Mitridate.   Alcun non v’è. (Tremo.)
Astiage.   Ricerca
con piú cura ogni parte. (va a sedere)
Mitridate.   (Il vostro aiuto,
santi numi, io vi chiedo.) (fingendo cercare)

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Cambise.   (Io son perduto.)

Mitridate. Siam soli. (tornando al re)
Astiage.   Or di’: serbi memoria ancora
de’ benefizi miei?
Mitridate.   Tutto rammento.
Di cento doni e cento
io ti fui debitor, quando m’accolse
la tua corte real. Quest’ozio istesso
dell’umil vita, in cui felice io sono,
è, lo confesso, è di tua destra un dono.
Astiage. Se da te dipendesse
la mia tranquillitá, se quel ch’io voglio
fosse nel tuo poter, dimmi: potrei
sperarti grato?
Mitridate.   (Ah! Ciro ei vuol.)
Astiage.   Rispondi.
Mitridate. E che poss’io?
Astiage.   Questa corona in fronte
sostenermi tu puoi. Sta quel, ch’io cerco,
nelle tue mani. Ad onta mia serbato
Ciro, tu il sai...
Mitridate.   (Misero me!)
Astiage.   Nel viso
tu cambi di color! La mia richiesta
prevedi forse e ti spaventi?
Mitridate.   Io veggo...
Signor... pietá! (s’inginocchia)
Astiage.   No, non smarrirti: è il colpo
facil piú che non credi. Al falso invito
Ciro credé. Giá sul confin del regno
con pochi sciti è giunto, e l’ora attende
al venir stabilita.
Mitridate. (Parla del finto Ciro: io torno in vita.)
Astiage. Sorgi. (Mitridate si alza) Tu sai del bosco
ogni confin: può facilmente Ciro
esser da te con qualche insidia oppresso.

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Mitridate. (Ah! quasi per timor tradii me stesso.)

Cambise. (Barbaro!)
Astiage.   E ben?
Mitridate.   (Per affrettar che parta,
tutto a lui si prometta.) Ad ubbidirti,
mio re, son pronto. (risoluto)
Cambise.   (Ah, scellerato!)
Astiage.   All’opra
solo non basterai: sceglier conviene
cauto i compagni.
Mitridate.   Oltre il mio figlio Alceo,
uopo d’altri non ho.
Astiage.   Questo tuo figlio
bramo veder.
Mitridate.   (Nuovo spavento. Almeno
si liberi Cambise.) Alle reali
tende, signor, tel condurrò.
Astiage.   No: voglio
qui parlar seco. A me lo guida.
Mitridate.   Altrove
meglio...
Astiage. (sostenuto) Non piú: vanne, ubbidisci.
Mitridate.   (Oh Dio!
in qual rischio è Cambise e Ciro ed io!) (parte)

SCENA VIII

Astiage e Cambise celato.

Astiage. E pur dagl’inquieti

miei seguaci timori
parmi di respirar. Non so s’io deggia
alla speme del colpo o alla stanchezza
delle vegliate notti
quel soave languor, che per le vene

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dolcemente mi serpe. Ah! forse a questo

umil tetto lo deggio, in cui non sanno
entrar le abitatrici
d’ogni soglio real cure infelici.
               Sciolto dal suo timor,
          par che non senta il cor
          l’usato affanno.
               Languidi gli occhi miei... (s’addormenta)
Cambise. Che veggo, amici dèi! Dorme il tiranno! (esce)
Barbaro re, con tante furie in petto,
come puoi riposar? Vindici numi,
quel sonno è un’opra vostra. Il sangue indegno
da me volete: io v’ubbidisco. Ah, mori!
  (snudando la spada)
Astiage. Perfido! (sognando)
Cambise. (trattenendosi) Aimè! si desta.
Astiage. (sognando)  Aita!
Cambise.   Ei vide
l’acciaro balenar.
(vuol celarsi, poi si ferma, accorgendosi che Astiage sogna)
Astiage. (sognando)  Ciro m’uccide.
Cambise. Ciro! Parlò sognando. Eh! cada ormai;
cada il crudele. (in atto di ferire)

SCENA IX

Mandane e detti.

Mandane.   Ah! traditor, che fai?

Cambise. Mandane. (con voce bassa)
Mandane.   Olá! (alle guardie verso la porta)
Cambise.   T’accheta. (a voce bassa, come sopra)
Mandane.   Olá! custodi.
Cambise. Taci.
Mandane.   Padre! (verso Astiage)
Cambise. (seguendola) Idol mio.

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Mandane. (scuotendolo)  Dèstati, o padre.

Cambise. Non mi ravvisi? (Mandane nol guarda mai)
Astiage. (destandosi)  Oh dèi!
dove son? chi mi desta? e tu chi sei?
Cambise. Io son... Venni...
Mandane.   L’iniquo
con quel ferro volea...
Cambise.   Ma, principessa,
meglio guardami in volto.
Mandane.   Ah! scellerato... (guardandolo)
Misera me! (lo riconosce)
Astiage.   Perché divien la figlia
cosí pallida e smorta?
Mandane. (Cambise! aimè! lo sposo mio! Son morta!)
Astiage. Ah! traditor, ti riconosco. In queste
menzognere divise
non sei tu...
Cambise.   Sí, tiranno, io son Cambise.
Mandane. (Sconsigliata, ah, che feci!)
Astiage. (a Cambise)  Anima rea,
tu contro il mio divieto
in Media entrare ardisti? e in finte spoglie?
e insidiator della mia vita? Ah! tale
scempio farò di te...
Cambise.   Le tue minacce
atterrir non mi sanno.
Uccidimi, tiranno: al tuo destino
non fuggirai però. Giá l’ora estrema
hai vicina e nol sai. Sappilo e trema.
Mandane. (Tacesse almen.)
Astiage. (frettoloso)  Come! che dici? oh stelle!
dove? quando? in qual guisa?
chi m’insidia? perché? Parla!
Cambise.   Ch’io parli?
Non aver tal speranza:
giá, per farti gelar, dissi abbastanza.

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Astiage. Custodi, olá! della cittá vicina

nel carcere piú orrendo
strascinate l’infido:
lá parlerai.
Cambise.   Del tuo furor mi rido.
Mandane. Numi, che far degg’io?
Ah! padre... ah! sposo...
Cambise.   Addio, Mandane, addio!
          Non piangete, amati rai;
     nol richiede il morir mio:
     lo sapete, io sol bramai
     rivedervi e poi morir.
          E tu resta ognor dubbioso,
     crudo re, senza riposo
     le tue furie alimentando,
     fabbricando — il tuo martír. (parte fra i custodi)

SCENA X

Mandane ed Astiage.

Mandane. Signor... (piangendo)

Astiage. (pieno di timore) Quelle minacce,
Mandane, udisti? Ah! s’io sapessi almeno...
Il sapresti tu mai? Parla. O congiuri
tu ancor co’ miei nemici?
Mandane.   Io! come! e puoi
temere, oh dèi! ch’io pur ti brami oppresso?
Astiage. Chi sa? Temo d’ognun; temo me stesso.
          Fra mille furori
     che calma non hanno,
     fra mille timori
     che intorno mi stanno,
     accender mi sento,
     mi sento gelar.

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          In quei che lusingo,

     mi fingo i rubelli;
     e tremo di quelli
     che faccio tremar. (parte)

SCENA XI

Mandane, e poi Ciro, fuggendo.

Mandane. Oh padre! oh sposo! oh me dolente! e come...

Ciro. Bella ninfa... pietá. (guardandosi indietro)
Mandane.   Lasciami in pace,
pastor: la cerco anch’io.
Ciro.   Deh!...
Mandane.   Parti.
Ciro.   Ah! senti,
o ninfa, o dea, qualunque sei; ché al volto
non mi sembri mortal.
Mandane.   Che vuoi?
Ciro.   Difesa
all’innocenza mia. Fuggo dall’ira
de’ custodi reali.
Mandane.   E il tuo delitto
qual è?
Ciro.   Mentre poc’anzi
solo al tempio n’andava... Ecco i custodi:
difendimi.
Mandane.   Nessuno
s’avanzi ancor. (Qual mai tumulto in petto
quel pastorel mi desta!)
Ciro. (Qual mai per me cara sembianza è questa!)
Mandane. Siegui.
Ciro.   Mentre poc’anzi
solo al tempio n’andava, udii la selva
di strida femminili

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dal piú folto sonar. Mi volsi e vidi

due, non so ben s’io dica
masnadieri o soldati,
stranieri al certo, una leggiadra ninfa
presa rapir. L’atto villano, il volto,
non ignoto al mio cor, destommi in seno
sdegno e pietá. Corro gridando, e il dardo
vibro contro i rapaci. Al colpo, al grido,
un ferito di lor, timidi entrambi,
lascian la preda. Ella sen fugge, ed io
seguitarla volea; quando, importuno,
uom di giovane etá, d’atroce aspetto,
cinto di ricche spoglie,
m’attraversa il cammino, e vuol ragione
del ferito compagno. Io non l’ascolto,
per seguir lei, che fugge. Offeso il fiero
dal mio tacer, snuda l’acciaro e corre
superbo ad assalirmi: io, disarmato,
non aspetto l’incontro; a lui m’involo.
Ei m’incalza, io m’affretto. Eccoci in parte
dove manca ogni via. Mi volgo intorno;
non veggo scampo: ho da una parte il monte,
dall’altra il fiume e l’inimico a fronte.
Mandane. E allor?
Ciro.   Dall’alta ripa
penso allor di lanciarmi; e, mentre il salto
ne misuro con gli occhi, armi piú pronte
m’offre il timor. Due gravi sassi in fretta
colgo, m’arretro, e incontro a lui, che viene,
scaglio il primiero. Egli la fronte abbassa;
gli striscia il crin l’inutil colpo, e passa.
Emendo il fallo, e violento in guisa
spingo il secondo sasso,
che previen la difesa; e a lui, pur come
senno avesse e consiglio,
frange una tempia in sul confin del ciglio.

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Mandane. Gran sorte!

Ciro.   Alla percossa
scolorisce il feroce. Un caldo fiume
gl’inonda il volto; apre le braccia; al suolo
abbandona l’acciar; rotando in giro,
dalla pendente riva
giá di cadere accenna; a un verde ramo
pur si ritien: ma quello
cede al peso e lo siegue. Ei, rovinando
per la scoscesa sponda,
balzò nel fiume e si perdé nell’onda.
Mandane. Ed è questo il delitto...
Ciro.   Ecco la ninfa
cui di seguir mi frastornò quel fiero.

SCENA XII

Arpalice e detti.

Mandane. Arpalice, ed è vero?...

Arpalice.   Ah! dunque udisti,
Mandane, il caso atroce?
Mandane.   Or l’ascoltai.
Ciro. (Numi! alla madre mia finor parlai.)
Arpalice. Io non ho, principessa,
fibra nel sen che non mi tremi al solo
pensier del tuo dolore.
Mandane.   E donde mai
cosí presto il sapesti?
Arpalice.   Ah! le sventure
van su l’ale de’ venti. Ammiro anch’io
come in tempo sí corto
sia giá noto ad ognun che Ciro è morto.
Mandane. Ciro!
Ciro.   (Il rival forse svenai!)

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Mandane. (ad Arpalice)  Che dici?

Arpalice. Che, se per man d’Alceo
perder dovevi il figlio, era assai meglio
non averlo trovato.
Mandane. Come! Ciro è l’ucciso? Ah, scellerato!
  (volgendosi a Ciro)
Arpalice. (Nol sapea: m’ingannai.)
Ciro. (Dicasi... Ah! no, ché di tacer giurai.)
Mandane. Perfido! E vieni, oh stelle!
a chiedermi difesa? In questa guisa
d’una madre infelice
si deride il dolor?
Ciro.   Non seppi...
Mandane.   Ah! taci,
taci, fellon: tutto sapesti; è tutto
menzogna il tuo racconto. O figlio, o cara
parte del sangue mio, dunque di nuovo,
misera! t’ho perduto? e quando? e come?
Oh perdita! oh tormento!
Ciro. (Resister non si può: morir mi sento.)
Mandane. Arpalice, or che dici?
Era presago il mio timor? Ma tanto,
no, non temei. Perder un figlio è pena;
ma che un vil... ma che un empio... Ah, traditore!
con queste mani io voglio
aprirti il sen, svellerti il core.
Ciro.   Oh Dio!
tu ti distruggi in pianto:
svellimi il cor, ma non t’affligger tanto.
Mandane. Ch’io non m’affligga? E l’uccisor del figlio
cosí parla alla madre?
Ciro.   Eh! tu non sei...
Son io... Quello non fu... (Che pena, oh dèi!)
Mandane. Ministri, al re traete
quel carnefice reo.
(i custodi, disposti ad eseguire il cenno, vegliano sopra Ciro)

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  Poca vendetta

è il sangue tuo, ma pur lo voglio.
Arpalice.   Affrena
gli sdegni tuoi. Necessitato e senza
saperlo, egli t’offese. Imita, imita
la clemenza de’ numi.
Mandane.   I numi sono
per me tiranni: in cielo
non v’è pietá, non v’è giustizia...
Arpalice.   Ah! taci:
il dolor ti seduce. Almen gli dèi
non irritiam.
Mandane.   Ridotta a questo segno,
non temo il loro sdegno,
non bramo il loro aiuto:
il mio figlio perdei, tutto ho perduto.
          Rendimi il figlio mio:
     ah! mi si spezza il cor.
     Non son piú madre, oh Dio!
     non ho piú figlio.
          Qual barbaro sará,
     che, a tanto mio dolor,
     non bagni per pietá
     di pianto il ciglio? (parte)

SCENA XIII

Arpalice e Ciro.

Ciro. Arpalice, consola

quella madre dolente.
Arpalice.   Ho troppo io stessa
di conforto bisogno e di consiglio.
Ciro. E che mal sí t’affligge?
Arpalice.   Il tuo periglio.

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Ciro. Ah, bastasse a destarti

alcun per me tenero affetto al core!
Arpalice. Perché, Alceo, perché mai nascer pastore!
Ciro. Ma, se pastor non fossi,
nutrir potrei questa speranza audace?
Arpalice. Se non fossi pastor... Lasciami in pace.
Ciro.   Sappi che al nascer mio...
Arpalice.   Siegui.
Ciro.   (Giurai tacer.)
Arpalice.   Sappi che bramo anch’io...
Ciro.   Parla.
Arpalice.   (Crudel dover!)
Ciro.   Perché t’arresti ancora?
Arpalice.   Perché cominci e cessi?
A due.   Ah, se parlar potessi,
     quanto direi di piú!
Ciro.   Finger con chi s’adora...
Arpalice.   Celar quel che si brama...
A due.   ... è troppo, a chi ben ama,
     incomoda virtú.