Chiaroscuro/La porta chiusa

La porta chiusa

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La porta aperta Il Natale del Consigliere
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LA PORTA CHIUSA.

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La penultima domenica di carnevale nel villaggio in festa si sparse la notizia che donna Manuela Cabras moriva. In un attimo la gente raccolta in piazza, attorno alle maschere simili a bovi e ad orsi che ballavano una danza selvaggia accompagnata da gridi melanconici, si divise in gruppi e commentò la notizia. Donna Manuela era la più ricca, litigiosa e benefica proprietaria del Circondario. Litigava coi vicini di casa, per le finestre e per lo scolo delle acque piovane; litigava con gente dell’altro Circondario per diritti di passaggio in certe sue terre incolte: persino alla Chiesa aveva intentato lite, per un piccolo santuario la cui abside dava nel suo cortile. I benestanti e i preti l’odiavano: i bisognosi la lodavano perchè beneficati nascostamente da lei.

Il portalettere, che era uno di questi, attraversò preoccupato la piazza, con una lettera in mano. Come fare? Egli la conosceva bene, quella lettera dall’indirizzo chiaro che sembrava stampato. Era del pretore, fidanzato della figlia di donna Manuela. Doveva proprio consegnarla quel giorno, o aspettare all’indomani? [p. 76 modifica]

Pensieroso passò davanti al piccolo santuario, chiuso per la lite, esitò guardando la casa di donna Manuela. Casa e santuario guardavano quasi a picco sulla valle: erano due antiche costruzioni del tempo dei pisani, e dovevano aver appartenuto a un padrone solo, come donna Manuela pretendeva. Tutte le porte eran chiuse: solo il portone grande del cortile, ogni tanto si socchiudeva per lasciar passare un servo o una serva dall’aria spaventata.

Il portalettere ne fermò una al passaggio.

— Ebbene?

— Muore. Questione d’ore. Era troppo grassa.

— E donna Manuellita? E questa lettera? È del fidanzato....

— Dovevano sposarsi domenica, oggi otto. È tutto pronto; adesso non so....

La serva tornò indietro: attraversò il cortile selciato ed erboso, sopra il quale, nell’aria chiara e triste di febbraio passavano gracchiando i corvi violacei che salivan dalla valle, si fece il segno della croce sfiorando i due gradini di pietra della porticina dell’abside del santuario, e andò a consegnar la lettera.

Un prete, il dottore, alcune donne in costume stavano nella camera bassa e bianca della moribonda: enorme, sotto le coperte candide del suo letto di legno, col viso rossastro e gonfio contorto dalla paralisi, un fazzoletto nero intorno al capo, la vecchia prepotente pareva dormisse e nel sonno irridesse qualcuno. Accanto a lei donna Manuellita, piccola e cerea nella sua giacchettina nera stretta [p. 77 modifica] abbottonata fitto fitto dal collo fino al ventre, sembrava una bambina spaurita.

Quando vide la serva trasalì ma non si mosse: prese la lettera e la mise sul tavolino da notte, sotto un candelabro d’ottone.

— Perchè non la legge? — domandò sottovoce il dottore. Ma la fidanzata scosse il capo in segno di diniego: che importava quel messaggio di vita davanti allo spettacolo della morte?

Più tardi però si trovò un momento sola: la madre s’era assopita e stava un po’ meglio; nel silenzio crepuscolare arrivavano i gridi delle maschere, melanconici e gutturali, e pareva salissero dalle grotte della valle abitate ancora, secondo la tradizione popolare, da giganti e da nani.

La fidanzata prese furtivamente la lettera e in punta di piedi s’avvicinò alla finestra.

La lettera era lunga, la più lunga che il poco espansivo fidanzato le avesse scritto dopo il suo trasferimento e la sua partenza dal villaggio; ma ella lesse solo qua e là, saltando le righe, correndo alla fine. Le parve di saltare davvero, giù di roccia in roccia negli abissi della valle: precipitò in fondo e le sue membra si sfracellarono; tuttavia continuò a sentire un muggito assordante, e un freddo e un terrore mortale l’irrigidirono.

Il fidanzato scriveva che non sarebbe arrivato più: ritirava la sua promessa di matrimonio.

Dopo il primo momento di terrore, [p. 78 modifica] Manuellita rilesse parola per parola la lettera, ma solo le frasi che l’avevano dapprima colpita rimasero chiare nel caos della sua mente. «Alla vigilia del matrimonio usiamo confessarci come alla vigilia della morte: permettimi dunque, Manuelina, ch’io mi confessi a te.» «Tu sei buona, tua madre è saggia e forte: voi mi capirete e mi compatirete.» «Io avevo un legame precedente: credevo potermene liberare, invece la donna minaccia uno scandalo.» «Sono un magistrato: comprometterei tutto il mio e il tuo avvenire.» «Forse più tardi,» «forse mi libererò.»

Immobile davanti alla finestra ella guardava il foglietto che tremava fra le sue mani come un’ala bianca: e la sua treccia enorme, attortigliata attorno al piccolo capo, sullo sfondo glauco dei vetri pareva una corona di spine nere.

La madre visse ancora tre giorni. Nel delirio pronunziava stentatamente qualche parola che si riferiva alle nozze, ai vestiti, alla partenza della diletta figliuola. La ragazza non piangeva. Aveva nascosto la lettera nella sua camera, ma per paura che qualcuno leggesse quello che a lei pareva l’estrema vergogna, la sentenza d’abbandono dell’elegante fidanzato che tutte le ragazze belle del villaggio le avevano invidiato, ogni tanto andava a vedere se [p. 79 modifica] il foglietto c’era. C’era, ed ella tornava davanti allo spettacolo della morte, e le pareva di soffrire solo per questo, ma all’improvviso trasaliva e aveva l’impressione di dimenticare qualche cosa. Ah, la lettera! Andava ancora a cercarla, in punta di piedi, palpava il foglietto, tornava presso la moribonda e s’immergeva di nuovo nella contemplazione del terribile mistero. Le sembrava di morire anche lei, giorno per giorno, ora per ora. Fragile e indolente ella era sempre vissuta all’ombra della quercia; e adesso le sembrava che se la madre non fosse morta le sarebbe bastato appoggiarsi a lei per vincere l’angoscia e la vergogna dell’abbandono. Ma così sola non poteva: vacillava, cercava da tutte le parti, ma tutto intorno era vuoto.

Il mercoledì sera la vecchia entrò in agonia: assisteva sempre alle nozze di sua figlia, enumerava i regali, e poi sembrandole che gli sposi partissero, diede a Manuellita una moneta d’oro e l’ultima avvertenza:

— Giustizia!... E nascondi le tue debolezze....

Sopravvenne ancora la paralisi e la lingua non si mosse più. Furono accesi i sette candelabri d’argento che i Cabras avevano ereditato dagli antichi, e la ragazza scese nel cortile e s’inginocchio sui gradini freddi della porticina, fra i ciuffi d’euforbia lucenti di brina. La luna di febbraio saliva gialla fra le nuvole nere e la valle era piena delle misteriose voci del vento. Con la fronte appoggiata alla porta Manuellita pregava e [p. 80 modifica] minacciava, con l’anima triste e agitata come quella notte di chiaroscuro e di vento.

— Signore, aiutami: fa viver mia madre o fammi morire con lei.

Ma la porticina era chiusa; il Signore doveva essersene andato, dal piccolo santuario in lite; e quando l’infelice tornò su, anche donna Manuela era partita.

Allora donna Manuellita decise di morire. Mandò via, uno ad uno, i servi, annunziò che non voleva più sposarsi e non uscì più di casa. Solo alla mattina una vecchia serva che era stata sua balia l’aiutava a rimetter in ordine la casa.

— Nascondi le tue debolezze.... — aveva detto sua madre.

Donna Manuellita voleva morire, ma che la sua morte sembrasse una disgrazia. Come fare? La balia diceva che il vino col sale fa morire come di morte per colica.

Donna Manuellita era astemia: vinse la sua ripugnanza e trangugiò un gran vaso di vino dell’Ogliastra nel quale aveva sciolto un’oncia di sale; e si buttò sul suo letto, ma in breve fu assalita da un calore insostenibile e da una sete ardente. Si alzò e bevette ancora, ma invece di tornare a letto uscì nel cortile e si guardò attorno meravigliata. Tutto [p. 81 modifica] le sembrava diverso, tutto bello e lieto come quando era bambina e giocava al sole, con cinque pietruzze, seduta sui gradini della porta del santuario.

Barcollando e inciampando cercò cinque pietruzze, sedette sui gradini e cominciò a farle saltare dalla palma al dorso della mano; poi le riprendeva sulla palma, ne metteva una sul gradino e mandava in aria le altre, e faceva in tempo a riprender quell’una ed a ricever le altre quattro assieme nel cavo della mano.

E rideva di piacere, ma aveva ancora sete, e ogni tanto andava ancora a bere, sempre vino, e tornava nel cortile, appoggiandosi al muro per non cadere.

Era un pomeriggio tiepido e azzurro: sul muricciuolo del cortile fioriva il biancospino, e dal posto ond’era seduta, l’ubbriaca vedeva i monti lontani, azzurri e verdognoli, marezzati come la stoffa del suo vestito da sposa che stava lassù nella casa com’era arrivato da Sassari.

Ma perchè il ricordo del vestito, e di tutto il resto non le dava più dolore? Le pareva che una porta si fosse spalancata davanti a lei, e al di là tutto era facile e bello. Rimase seduta sui gradini fino al tramonto: una sonnolenza piacevole la vinse; buttò le pietruzze e chiuse gli occhi. [p. 82 modifica]

Fu così che non volle più morire. Aveva trovato un conforto, sia pure momentaneo, e continuò a profittarne. Nei primi tempi si disperava, alla mattina, quando la balia l’aiutava nelle faccende domestiche e venivano i fattori e i pastori per pagare il fitto delle tancas, ed ella ricordava l’avvertenza di sua madre: — nascondi le tue debolezze.... — ma nel pomeriggio viveva la sua vita d’incantesimo. Seduta al sole, con le spalle appoggiate alla porticina chiusa, giocava, guardava i monti che la primavera copriva d’un velo roseo, e ogni tanto si alzava per andar a bere.

Nella sua beatitudine però di tanto in tanto le sembrava che una voce lontana la richiamasse, e aveva sempre l’impressione di dimenticare qualche cosa. Ah, la lettera! Andava a cercarla, la rileggeva, e le frasi «forse più tardi,» «forse mi libererò» le destavano una gran gioia.

Ma un giorno la balia le disse che nel «foglio» c’era annunziato il matrimonio del pretore, promosso giudice, con una ragazza del suo paese.

Donna Manuela non ne provò un gran dolore; ma non rilesse più la lettera.

Passarono quattro anni. Ella vinse la lite [p. 83 modifica] per la proprietà del santuario, ma non lo volle riaprire; le sembrava un posto maledetto, perchè appunto durante il sopraluogo giudiziario al sito contestato il pretore l’aveva conosciuta e aveva appreso che ella era la più ricca ereditiera del villaggio....

Una mattina capitò, con certi pastori in cerca di pascoli, un uomo del paese dell’ex — fidanzato; e la balia gli domandò:

— Com’è, com’è, la donna che ha sposato?

— Una brava donna, per questo: onesta, che non s’era mai sentita nominare.

— Dunque non era vero, che egli aveva un legame precedente, — pensò donna Manuellita; e quella mattina bevette vino bianco e acquavite, prima ancora che se ne andasse la balia.

Quando questa sentì in bocca alla sua padrona l’odore del vino impallidì: la prese per le mani e le disse:

— Mi guardi in viso, donna Manuè!

La padrona la guardò e scoppiò a piangere e le sue lagrime caddero sul seno che le aveva dato il latte. Ma i rimproveri, le preghiere, le minaccie della balia non valsero a niente: solo la sua pietà e la sua devozione riuscirono a nascondere agli altri la rovina della sua padrona. [p. 84 modifica]

Un giorno, dieci anni dopo la morte di donna Manuela, il postino si meravigliò di veder una lettera listata di nero, i caratieri del cui indirizzo, chiari e come stampati, non gli erano ignoti.

— «Alla nobile Manuelina Cabras», — ma se lui era sposato? Forse sarà rimasto vedovo e vorrà tentare ancora la sorte....

Era d’autunno: attraverso il portone socchiuso si vedeva il selciato erboso del cortile e il muricciuolo coperto di fiorellini cremisi. La balia prese la lettera e la portò a donna Manuellita, su nella camera ov’era morta la vecchia padrona.

Come l’altra volta donna Manuellita si avvicinò alla finestra e lesse e il foglio le tremò fra le mani come un’ala bianca orlata di nero.

Il pretore, promosso giudice e poi sostituto e poi procuratore del re, s’era finalmente liberato dagli impegni precedenti e voleva sposare la sua antica fidanzata. «Sono rimasto vedovo, con due bambini.» «Se ella mi accetta, donna Manuelina, io sarei felice di sposarla prima della fine di novembre.»

Ella mise la lettera sotto il candelabro d’ottone e non rispose. Ma la balia sorvegliva. Prese la lettera, se la fece leggere, cominciò [p. 85 modifica] a perseguitare la sua padrona finchè questa non rispose al procuratore del re, accettando la proposta, col patto però di sposarsi l’ultima domenica di carnevale. Il fidanzato le mandò il suo ritratto coi bambini; ella fissava il gruppo, coi suoi occhi neri diventati un po’ vitrei, ma non diceva se era felice o scontenta. Una sola cosa la confortava: andarsene, liberarsi dalla balia che l’angariava in tutti i modi ed era diventata la vera padrona della casa. Ah, aveva ragione sua madre!

— Nascondi le tue debolezze....

Un’altra avvertenza le aveva dato sua madre; ma questa non la ricordava più; tante altre cose aveva dimenticato!

L’inverno passò: il rumore del torrente giù nella valle s’affievolì, e risuonarono di nuovo gli urli delle maschere camuffate da bovi e da orsi, e i canti melanconici che accompagnavano le danze giù nella piazza.

Il giovedì grasso la gente che assisteva alla corsa selvaggia delle maschere a cavallo vide arrivar la diligenza verde e gialla e dalla diligenza scendere l’antico pretore diventato procuratore del re. Era diventato anche un bell’uomo, non troppo alto, ma col petto sporgente, le guancie piene solcate da due grossi baffi rossastri.

Egli si recò difilato dalla sposa. Ella, sì, era tale è quale l’aveva lasciata: scarna, col giacchettino nero abbottonato fitto fitto dal collo al ventre, e la piccola testa incoronata [p. 86 modifica] dall’enorme treccia nera. Solo gli occhi erano un po’ velati e foschi, come affumicati.

Il fidanzato la baciò e le sentì sulle labbra un odore d’acqua di cedro che non gli dispiacque. La balia vigilava.

Le nozze furon celebrate la domenica mattina, nel santuario riaperto per l’occasione. Nel pomeriggio del lunedì gli sposi furon lasciati in pace: cessarono le continue visite di amici e parenti, e lo sposo ne profittò per andar a far una passeggiata nello stradale. Egli conservava ancora un po’ l’aspetto del vedovo: pensieroso e taciturno; ma in fondo era contento. «Manuelina, pensava, non sarà certo una signora brillante; è goffa ed è diventata anche un po’ strana, con quegli occhi come coperti da un velo nero; ma farà buona compagnia ai bambini, ed è questo che importa.»

Al ritorno trovò la casa chiusa; picchiò, ma nessuno aprì. Allora fece il giro della casa ed entrò per il santuario; ma anche la porticina era chiusa esternamente. Stava per tornar ancora indietro quando gli parve di sentir la voce di sua moglie nel cortile.

— Apri, Manuelina.

Manuelina stava seduta sugli scalini. S’alzò immediatamente ed aprì: poi indietreggiò tentennando, stringendo qualche cosa nel pugno: i suoi occhi erano lucenti ma d’una luce che al suo sposo parve di febbre o di follia. Occhi che egli ben conosceva: quanti ne aveva visti, di simili, dal suo trono di giudice protettore della società! [p. 87 modifica]

— Manuelina, ma che hai?

Cercò di afferrarle la mano, ma istintivamente ella se la portò alla bocca. Egli si accostò e sentì l’odore del vino. E subito intuì l’orribile verità; e mentre la donna continuava a indietreggiare, lasciando cadene dal pugno le pietruzze del gioco, egli sentiva la stessa impressione provata da lei, un giorno, nel ricever la lettera dell’abbandono: gli pareva di cadere di roccia in roccia, in un precipizio, e che tutte le sue membra si sfracellassero....