Chiaroscuro/La porta aperta
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LA PORTA APERTA.
Il mercoledì santo Simone Barca andò a confessarsi. Era disperato, e l’uomo disperato si ricorda volentieri di Dio, come il malato del medico.
Simone dunque andò nella Basilica, monumento nazionale che ancora arricchisce il paese decaduto, e dove in quell’ora del mattino, solo qualche frate dell’attiguo convento celebrava la messa, nelle cappelle ove l’umido ha ricoperto d’uno strato verde gli antichissimi affreschi. Le donne barbaricine, col cappuccio in testa e le gonne ruvide strette come fascie e allacciate con catenelle d’argento, cantavano il rosario nel loro dialetto latino: le loro voci si perdevano nella vastità della Basilica come tra le rovine di un tempio, e dalla valle penetrava, per le porte spalancate, un odore selvatico di euforbia e di gemme d’ontano. Simone andò a confessarsi dal frate priore che riempiva col suo corpo enorme il piccolo confessionale e ansava e ronfava, là dentro, come un orso in una gabbia.
— Para, io sono un uomo perduto: mi vien voglia di uccidere qualche cristiano, tanto sono disperato. Ho commesso i peggiori peccati. Fino a poco tempo fa ero un figlio di famiglia, para, figlio unico. A venti anni dormivo ancora con mia madre; ma appena morta lei i cattivi compagni mi hanno assediato come le mosche un granellino d’uva passa; e mio zio, che pure è un sacerdote, mi ha cacciato via di casa, invece di aiutarmi, e volta la testa dall’altra parte, quando mi vede. Sì, tutti i peggiori peccati ho commesso: ho giocato, ho bevuto, sono andato dalle male donne, ho consultato le fattucchiere, ho giurato invano, ho desiderato il male al prossimo, ho desiderato la roba altrui, ho commesso il... falso... sì... para... ho falsificato una firma, e fra giorni la cambiale scade.... ed io dovrò andare in carcere e sarò disonorato.... Tutta la colpa è dei cattivi compagni, i quali adesso mi hanno abbandonato: e tutte le porte mi son state chiuse.... e non c’è più una porta aperta, per me! Ma sono pentito, para, e andrò in carcere, ed espierò, ma datemi l’assoluzione del Signore, ch’io possa fare il precetto pasquale e soffrire innocente come Cristo Signore Nostro.
Il frate priore ansava e non rispondeva. Simone, col viso scarno e nero di beduino fra le mani, ansava anche lui e pensava:
— Forse egli è scandalezzato: forse prova piacere a sentire che, in fondo, la causa della mia rovina è mio zio prete Barca. I frati e i preti non si posson vedere. Forse egli, per dispetto a mio zio, mi darà i soldi per pagare la cambiale.
Ma il frate priore ronfava e taceva: il suo alito caldo arrivava fino al viso di Simone. Stanco di aspettare, il penitente si scosse dal suo sogno di espiazione e dai suoi maligni pensieri; aguzzò i grandi occhi scuri e infantili, e un sorriso amaro incavò le fossette delle sue guancie rase. Il para dormiva. Ah, anche il Signore è sordo ai gridi del peccatore disperato.
✱
Piano piano Simone se ne andò, col cuore pieno di tristezza e la mente agitata da brutti pensieri. Intorno all’altare maggiore cominciavano le funzioni, e già s’udiva la voce allegra di prete Barca salmodiare gorgheggiando. La gente entrava ed usciva: adesso arrivavano anche gli uomini, alti, con le barbe lunghe e quadrate come ai tempi di Mosè, vestiti con giacche di pelle e calzoni di saja corti, larghi, simili a gonnelline. Alcuni sembravano profeti, tanto erano solenni, calmi e semplici; altri erano piccoli, scarni come il nostro Simone, bruciati dal vento e dai cattivi pensieri. Anche le donne ricordavano quelle della Bibbia; e ad una che Simone incontrò nel cortile della Basilica, una vedova alta e secca, olivastra in viso e con grandi occhi verdognoli, stretta nelle sue vesti jeratiche come in una guaina nera, non mancava che un mazzo di spighe in mano per sembrare la seconda suocera di Booz. Simone trasalì nel vederla; trasalì per odio, poichè la donna era una specie di governante di prete Barca, e per l’improvvisa idea che in quel momento in casa dello zio non c’era nessuno: e come se ad un tratto si facesse notte, egli cominciò a veder cose e persone in confuso e camminò cauto lungo i muri, inciampando contro le pietre che ingombravano le straducole. Così arrivò davanti alla sua casa simile ad un avanzo di torre, e solamente allora gli sembrò che la luce gli si rifacesse attorno.
Entrò e poco dopo il suo viso riapparve alla finestruola del primo ed unico piano, meditabondo come il viso di un generale che dall’alto di una fortezza medita un piano di battaglia. Il campo di battaglia di Simone era il breve panorama che gli si stendeva sotto gli occhi, composto della straduccia attraversata da un rigagnolo e dove i giunchi e l’erba rinascevano come in piena campagna; della casupola della vedova, di fronte alla sua, della casa grande e nera e del cortile dello zio prete, di fianco a quello della vedova, e chiuso da una chiesetta attigua il cui orticello invaso di male erbe e ombreggiato di cipressi ricordava un angolo di cimitero. Simone pensava che aveva passato la sua infanzia e la sua adolescenza a saltare il muro fra il cortile dello zio e l’orticello della chiesa, e si domandava se non era il caso di ritentare ancora una volta l’impresa, ma in senso inverso, cioè dall’orticello della chiesa al cortile dello zio. Una volta là dentro gli era facile penetrare nell’interno della fortezza, cioè della casa dello zio. Nessuno meglio di lui ne conosceva i buchi, i corridoi, i labirinti: chiudendo gli occhi rivedeva la sporgenza della parete del pianerottolo ove prete Barca prima di uscir di casa metteva la grossa chiave della sua camera; riaprendoli ricordava non senza commozione questa camera vasta e un po’ misteriosa, illuminata da una lampadina, piena di immagini sacre e di libri rilegati, e dove più di una volta egli, fanciullo, aveva sorpreso suo zio, in camicia e in papalina, a contar monete d’oro come un mago, od a traforare abilmente biglietti di banca segnandovi il suo nome con la punta di una spilla. Un giorno, camminando carponi sul pavimento e raschiandovi su per imitar meglio il cinghiale, Simone aveva smosso un mattone, e sotto il mattone aveva trovato una scatola piena di monete. Adesso egli ricordava quei tempi come il prigioniero rammenta i giorni di libertà....
Egli rimase tre giorni quasi sempre alla finestra, muovendosi solo per mangiare un po’ di pane d’orzo e di formaggio di capra. Sì, mentre suo zio seminava i suoi denari sotto i mattoni, egli viveva come un miserabile pastore; la sua casa era vuota, desolata, senza mobili (egli li aveva venduti), persino senza usci (venduti anche questi) e i ragni tessevano le loro tele sopra il baule di pelle di cinghiale col pelo, entro il quale egli conservava le vesti da sposa e da vedova della sua povera mamma.
Per confortarsi beveva qualche bicchierino d’acquavite, e tornava alla finestruola.
Di lassù sentiva l’odore dei dolci che le donne preparavano per la Pasqua, e vedeva il fumo salire dai tetti di assi e di tegole: qualche usignuolo cantava già nella valle, e le nuvolette di aprile passavano sopra l’orticello della chiesa, bianche come bende di fanciulle che il vento avesse portato via da qualche siepe.
Il giovedì santo la vedova uscì dalla casa dello zio e aprì la chiesetta, di solito chiusa; e aiutata da altre donne del vicinato tirò giù il Cristo, lo depose sul pavimento, fra quattro lumini e quattro piattini con germogli di grano, e formò così il Sepolcro. Ma la gente andava tutta nella Basilica, ove si celebravano i Misteri e due veri ladroni (o almeno già stati condannati per furto) venivano legati in croce ai fianchi di Cristo. Simone dalla sua finestruola vide anche lo zio, basso, grasso e saltellante, e la vedova alta, secca e rigida, incamminarsi una dopo l’altro verso la Basilica, e scese, ma uscito nella strada si appoggiò con una spalla al muro e stette a lungo immobile e pensieroso, ascoltando il lontano salmodiare della processione. Era il crepuscolo; la luna nuova cadeva sopra i monti violetti, sul cielo verdognolo, e la stella della sera saliva, e pareva si andassero incontro come Maria e Cristo nelle strade del villaggio.
— Fra pochi minuti la processione sarà qui; — pensò Simone, e si mosse; ma camminava rasente al muro; aveva paura di attraversare la chiesetta, per entrare nell’orticello, e di passare davanti al Cristo morto steso sul pavimento fra i quattro lumini ed i quattro germogli di grano.
A un tratto, arrivato davanti alla porta dello zio, trasalì. La porta era aperta; qualcuno era dunque in casa ed era inutile andare avanti. Egli tornò indietro e si appoggiò di nuovo al muro. Ma chi poteva esserci in casa dello zio? I servi, contadini e pastori, non tornavano che al sabato sera; il prete e la vedova eran dietro la processione. Egli s’avanzò di nuovo fino alla porta, picchiò, chiamò:
— Basìla! Basìla!
La sua voce si perdette nell’interno della casa già buia, come dentro una grotta. Egli entrò, chiuse la porta, si slanciò su per le scale, attraversò gli stretti corridoi, trovò la sporgenza del muro, trovò la chiave, aprì, fu nella camera dello zio. Gli pareva un sogno. La finestra era chiusa; un lumino come uno dei quattro del Cristo morto ardeva davanti all’immagine dei Santi Martiri. Essi erano tanti, uomini, donne, vecchi, fanciulli, ma tutti guardavano in su, e i loro volti erano soavi, e Simone non ebbe paura di loro. Al chiarore verdastro della lampadina si curvò e cominciò a toccare uno per uno i mattoni, come un muratore incaricato di riattare il pavimento; ma neppur uno dei mattoni si moveva, ed egli si sollevò e si passò una mano sulla fronte umida di sudore gelato.
Udiva il salmodiare della processione e tremava tutto. S’appoggiò al lettuccio dello zio e il lettuccio si scostò, cigolando e tremolando, come preso dallo stesso terrore e dalla stessa commozione del ladro. Allora Simone guardò il mattone su cui poggiava il piede del letto e gli parve che il mattone si movesse: si curvò e lo tirò su con le unghie, e nel vuoto, sepolta fra la polvere, trovò una scatolina di latta con dentro due biglietti da mille.
✱
Il giorno di Pasqua prete Barca cacciò via di casa la vedova Basìla, e in un attimo il paese intero fu come invaso da un vento di scandalo: si seppe che al prete erano mancate molte migliaia di lire, chi diceva due, chi tre, chi venti; e che Basìla, la sera del venerdì santo, aveva dimenticato la porta di casa aperta. Il brigadiere andò in casa del prete; ma il prete cercava di mostrarsi disinvolto, batteva le mani e diceva:
— Miseruole! miseruole, miseruole!
Il martedì fu perquisita la casupola della vedova, e lei fu arrestata, e rilasciata libera il giorno seguente. Nulla risultava contro di lei; ma gli abitanti o meglio le famiglie del paese si divisero in due partiti, perchè gli uomini difendevano Basìla dicendo ch’ella forse aveva davvero dimenticata la porta aperta, dando così agio a qualche ladro di entrare, e le donne sogghignavano:
— E in pochi minuti il ladro faceva il comodo suo?
Poi la gente cessò di mormorare; ma la vedova fu guardata da tutti con disprezzo; nessuno più le dava lavoro, ed ella non andava più in chiesa, e viveva in miseria, nella sua stamberga, e Simone la vedeva spesso ritta sul limitare della porta, pallida e triste in viso, ma coi grandi occhi verdognoli rivolti in su come quelli dei Santi Martiri.
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Simone pagò la cambiale falsa e ricomprò gli usci e il cappotto. Nessuno se ne meravigliò, perchè egli, come ogni giocatore, aveva spesso di questi alti e bassi di fortuna, e nessuno, tranne il suo creditore, sapeva della cambiale. Quello di cui si meravigliò la gente, fu di vederlo a un tratto cambiar vita. Non frequentava più le ruffiane, nè i cattivi compagni, andava in chiesa, salutava lo zio. Ma lo zio continuava a voltar la faccia dall’altra parte, quando lo vedeva, e un giorno che Simone gli andò incontro, deciso a fermarlo per baciargli la mano, non solo gli negò il saluto, ma gli volse le spalle e tornò indietro.
Simone rimase come istupidito. Si appoggiò al muro e rimase lì inchiodato, vinto da un pensiero angoscioso.
— Egli sa!
Poi andò dalla vedova Basìla e le disse:
— Ti pare, potresti farmi il pane e lavarmi e rattopparmi la roba? Fissa tu il compenso.
La vedova stava dritta davanti al focolare spento e si pettinava: i capelli folti e lunghissimi, d’un castano dorato, davano un’aureola di martirio al suo viso olivastro; ma vedendo Simone ella se li strinse sulle guancie e sul petto come un velo, e abbassò e sollevò la testa con atto minaccioso, mentre i suoi occhi verdastri scintillavano sotto le folte sopracciglia nere aggrottate.
— Tu hai già chi ti fa il pane e ti lava la roba! Esci di qui!
Egli andò via come un cane frustato e tornò ad appoggiarsi al muro.
— Ella sa!
Egli passava i giorni così, appoggiato al muro, spesso limando con un coltellino il suo bastone di noce, o qualche tappo, o qualche fuscello, ma più spesso senza far niente. Neppure nei suoi più tristi tempi era vissuto così stupidamente. Vedeva sempre davanti a sè gli occhi minacciosi della vedova, e provava un malessere quasi fisico quando pensava che Basìla era caduta in miseria e in mala fama per colpa sua: qualche notte aveva dei sogni paurosi; il baule con le vesti di sua madre gli sembrava un cinghiale vivo, e fissava a lungo gli usci ricomprati con quel denaro.
Passò l’estate, ed in autunno egli cambiò posto, lungo il muro, cercando il sole: di là vedeva meglio Basìla, seduta anche lei al sole a filare o cucire, scalza e triste come una schiava.
L’inverno fu lungo e rigido. La povera gente soffriva la fame, e prete Barca e una dama che viveva nel vicinato mandavano pane e legumi a tutti i poveri tranne che alla vedova. Per Natale una donna presso la quale Simone si era più di una volta divagato, gli mandò in regalo una coscia di muflone. Egli aveva anche un porchetto e un agnello: e pensando che Basìla invece non aveva niente altro che patate, provò a mandarle la carne di muflone e con meraviglia vide che ella non respingeva il dono. Allora, per tutto il resto dell’inverno, preso da una vera mania di espiazione, continuò a mandarle regali, spesso privandosi persino di qualche cosa che gli era necessaria.
Ritornò la primavera: le donne fecero di nuovo germogliare il grano nei piattini, entro gli armadi, per ornare i sepolcri: la sera del venerdì santo Simone andò alla processione e al ritorno stette un bel po’ al solito posto, accanto al muro, nella sera tiepida piena di bisbigli. Dalla fessura della porticina di Basìla usciva un chiarore giallastro, e Simone fissava con occhi strani quella luce che gli sembrava misteriosa. A un tratto andò e picchiò e domandò alla donna se voleva sposarlo.
La gente mormorò, poi cessò di mormorare. Basìla, dopo tutto, aveva solo dieci anni più di Simone, ed era una buona massaia: in poco tempo, infatti, la casa del giovine parve un’altra, ripulita, col forno spesso acceso e il cortiletto animato di galline. Simone fu visto di nuovo a cavallo, come quando era viva sua madre, e tutti dissero che egli aveva sposato Basìla per far dispetto a suo zio.
Egli non era innamorato di sua moglie, ma ne seguiva i consigli ed era contento di essersi levato un peso dalla coscienza e di aver sposato una donna savia. Questa andava di nuovo in chiesa e parlava per sentenze, ed a lui pareva di esser tornato ai tempi felici quando viveva sua madre ed egli, ancora innocente a vent’anni, andava a letto con lei e ripeteva le preghiere che ella gli suggeriva.
Un giorno, parecchi mesi dopo il suo matrimonio, la donna che gli aveva mandato la coscia di muflone, lo chiamò, mentr’egli passava davanti alla sua porta, e gli domandò cento scudi in prestito.
Egli si mise a ridere.
— Se avessi cento scudi m’imbarcherei per girare il mondo.
— Ti pagherò gl’interessi, Simone Barca! Sono solvibile; ti darò anch’io il venti per cento come te lo dànno gli altri.
— Tu diventi pazza, Mallèna Porcu!
— Come, pazza? Dimmi che non hai fiducia in me, Simone Barca, ma non insultarmi. Tu e tua moglie avete dato denari a interesse, al venti per cento, al tale e al tale. Perchè non dovreste darli anche a me? O è vero quello che dice tuo zio prete Barca? Che i denari li dà tua moglie, di nascosto di te?
Simone impallidì, ma rispose:
— Mio zio è rimbambito, e tu sei quello che sei!
Nei giorni seguenti fu di nuovo visto appoggiato al muro, come nei suoi tempi funesti. Si domandava continuamente: «perchè la porta era aperta?» e il suo pensiero lavorava e lavorava scavando, giù, giù, per una profondità cupa, cercando la verità come il minatore cerca l’oro nelle viscere oscure della terra. — Ella deve aver preso buona parte dei denari, ed ha lasciato la porta aperta per far credere che qualche ladro era entrato. Ah, vecchia galeotta!... — pensava con rabbia: ma prima di dar fede al proprio pensiero volle assicurarsi anche con gli occhi.
Era di nuovo la sera del venerdì santo, e Basìla era andata in chiesa. Simone aspettava quell’ora onde frugare con più comodo tutta la casa; ma per quanto cercasse, nei cassetti, nella cassapanca, fra i materassi, non trovò nulla. Stanco di frugare si guardò attorno e nella penombra il baule che conteneva ancora le vesti di sua madre, tornò a sembrargli un cinghiale vivo. Tentò di aprirlo ma non potè. Allora ricordò che Basìla teneva sempre con sè le chiavi: e scese in cucina, tornò su con una scure e cominciò a colpire il baule come fosse davvero un cinghiale feroce. Il coperchio si spaccò. Simone s’inginocchiò e cominciò a frugare; trovò le vesti da vedova di Basìla, e giusto dal suo cappuccio nero caddero, silenziosi, svolazzando, due, tre, tanti biglietti di banca, rossastri, verdastri, giallastri, come foglie di noce appassite. Fra gli altri ce n’era uno da mille: egli lo prese, lo guardò contro la luce della candela e lesse il nome di prete Barca traforato con una spilla. Allora cominciò a imprecare e a darsi pugni sulla testa:
— Ma perchè è capitato a me? Perchè proprio a me? — diceva ad alta voce.
D’improvviso una nenia melanconica e dolce come il mormorio di un bosco arrivò dalla straducola. Simone tacque e stette ad ascoltare, con la testa china e gli occhi spalancati, ed a misura che la processione si avvicinava, egli tremava e sudava come quando s’era appoggiato al lettuccio dello zio.
LA PORTA CHIUSA.