Chiaroscuro/Il Natale del Consigliere
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IL NATALE DEL CONSIGLIERE.
Il piroscafo partiva alle cinque, ma fin dalle quattro e mezza era affollato di viaggiatori di terza classe, — paesani con la bisaccia in mano, soldati in licenza, condannati che avevan finito la loro pena o venivano trasferiti alle colonie penali dell’isola, carabinieri che li accompagnavano. Più tardi arrivarono i viaggiatori di seconda classe, piccoli borghesi, commessi, qualche studente; e infine salì, accompagnato da facchini carichi di valigie di cuojo giallo e di scatole e cappelliere, un piccolo signore in soprabito con pelliccia. Era grasso, col viso pallido sbarbato, una mano coperta dal guanto grigio, l’altra di massicci anelli d’oro.
Un vecchio negoziante di buoi, che viaggiava in terza classe e con la bisaccia, lo riconobbe e lo indicò ai suoi compagni che tosto salutarono con deferenza, ma anche con un certo rispettoso terrore. Il vecchio negoziante si avvicinò per rivolgergli la parola, ma indietreggiò respinto dai facchini, e attese un momento più opportuno.
Il viaggiatore, infatti, deposte le valigie in una cabina di prima classe, tornò sopra e s’appoggiò al parapetto del piroscafo per guardare il paesaggio. Il tempo, sebbene fosse agli ultimi dell’anno, era bello e asciutto, il mare calmo, grigio verso il porto, turchino all’orizzonte, sotto il cielo violetto del crepuscolo.
Nell’aria limpida e fredda vibravano i rumori del porto e della città ancora violacea al riflesso dell’occidente; s’udiva una fisarmonica, come nelle belle sere d’autunno, la luna saliva grande e rossa sopra la torre nera del molo e già l’acqua intorno ne rifletteva lo splendore.
Il viaggiatore guardava la terra e il mare, e il suo viso pallido e un po’ cascante e i suoi occhi azzurrognoli e freddi, a fior di pelle, non esprimevano nè ammirazione nè tristezza; solo le labbra grigiastre avevano di tanto in tanto come un segno di disgusto.
Ed ecco il vecchio negoziante di buoi, che dal suo angolo non ha lasciato per un istante di fissare coi suoi vivi occhietti neri l’importante personaggio, crede giunto il momento opportuno per avvicinarsi. Se il piroscafo parte e il viaggiatore rientra nella sua prima classe o va nella terrazza riserbata a questa, non c’è più modo di riverirlo. Il vecchietto dunque si fa coraggio e si avanza lungo il parapetto umido, sfregando la mano sulle brache di tela, per pulirla bene prima di porgerla al viaggiatore.
— Scusi, don Salvator Angelo Carta, se mi permette la saluto. Io sono....
— Ziu Predu Camboni! E come va? In viaggio?
— In viaggio sempre, don Salvatorà! E come fare, se no? Non abbiamo lo stipendio di duemila scudi come lo ha vostè. È vero che non abbiamo neanche il suo talento!
— Da dove venite?
Il vecchietto tornava da Roma e andava al suo paese, che era poco distante da quello di don Salvator Angelo.
— Son tre anni che non la vedevo, don Salvatorà! E che vostè non viene tutti gli anni, in Sardegna? Ha ragione: ha altro a cui pensare. E adesso va a passare le feste in famiglia? Chi sa come saranno contenti i suoi nipoti: essi non parlano che di lei.
— I miei nipoti? Son tutti scavezzacolli e aspettano la mia morte! — disse con ruvidezza don Salvator Angelo, e il vecchietto invece di protestare si mise a ridere.
— Ricorda, don Salvatorà, quando io venivo al suo paese per comprovare le giovenche della sua nonna? Lei era uno studentello, allora, un’anima allegra, con certi cappellini coi nastri come quelli delle donne. Quello lì, — diceva donna Mariantonia sua nonna, Dio l’abbia in gloria, — quello lì è un passerotto che si beccherà tutti i fichi acerbi. E si lamentava con me, Dio l’abbia in gloria, perchè vostè non lasciava in pace nè vicine nè serve. Saltava i muri come un diavolo. Ricorda quella bella servetta bruna, alta, che sembrava una palma? Si chiamava Grassiarosa, e vostè le correva appresso come ammaliato. Ma donna Mariantonia si sbagliava, sebbene fosse savia come un’abbadessa, Dio l’abbia in gloria. Gli altri nipoti, sì, hanno mangiato i fichi acerbi; e lei.... lei è diventato l’onore del paese!
— Eh, figuriamoci!
Un rispettoso stupore allungò il viso legnoso e bruciato del vecchio nomade.
— Le par poco? Consigliere di Corte d’Appello?
— Ci sono posti più alti.
— E se ci sono lei li raggiungerà. Se ci fosse ancora il vicerè lei lo farebbero....
Don Salvator Angelo sorrise, lusingato suo malgrado, e domandò notizie del paese e dei conoscenti.
I tempi eran tristi, le annate cattive; tutti avevano qualche guaio, e la gente se ne andava in America e in altri paesi, come gli Ebrei al tempo di Mosè. E molti morivano laggiù, e molti sparivano e non si sapeva più nulla di loro, come ingoiati dal mare: fra i morti c’era anche un antico servo della nonna di don Salvator Angelo, un certo Bambineddu, chiamato così perchè uomo semplice. Bambineddu aveva appunto sposato la bella Grassiarosa, la «palma» che un tempo piaceva al suo nobile padroncino.
— E che ne è avvenuto di lei?
— Lei? È rimasta vedova, con sei o sette figli tutti piccoli come le dita della mano. Ultimamente l’ho vista in un casotto della ferrovia, con la banderuola in mano. Sì, in un casotto, prima di arrivare alla stazione di Bonifai, dove, credo, c’è casellante un suo fratello, anche lui vedovo pieno di figli. Aveva la faccia della fame.
Rumori di catene e l’urlo delle sirene riempivano intorno l’aria di terrore; il piroscafo partiva sussultando come un mostro marino che svegliatosi di soprassalto si affrettasse a tornare in alto mare.
In breve la terra fu lontana, fra i vapori della sera, ma la luna seguiva i naviganti e illuminava loro la via sull’infinito deserto del mare. Un pallore cadaverico rendeva ancor più triste il viso di don Salvator Angelo: turbamento per l’allontanarsi del continente, o ricordo della giovine «palma» e rimorso di averla amata e dimenticata?
Ziu Predu Camboni lo guardava quasi con malizia; ma quando don Salvator Angelo si mosse barcollando per ritirarsi e disse a denti stretti:
— Io soffro sempre, anche se il mare è calmo.... — il vecchietto lo accompagnò fino all’ingresso dorato della prima classe e s’avvide che l’affanno occulto contro cui lottava il Consigliere era il più terribile dei malanni che talvolta l’uomo si procura da sè: il mal di mare.
— Perchè partire, quando si soffre? — si domandò ziu Predu Camboni, e tornò alle sue regioni di terza, ove i soldati cantavano, e i condannati sonnecchiavano legati come schiavi.✱
— Perchè partire, quando si soffre? — si domanda don Salvatore Angelo, sdraiato immobile sulla sua cuccetta bianca. E sente un’angoscia profonda, e gli sembra di essere sul dorso di una bestia indomita che corre attraverso un immenso deserto pericoloso. Se si muove è perduto: e sta fermo il più che è possibile e pensa al giorno in cui non si moverà più!
Prova un terrore come per l’approssimarsi della morte: i ricordi più tristi e i più lieti, i fantasmi più odiati e i più cari lo circondano: la cabina gli sembra una tomba ove egli ha deposto ogni vanità e ogni ambizione.
— Perchè partire, quando si soffre? — si domanda don Salvator Angelo, mentre il vento che soffia nella notte limpida batte al finestrino come un uccello notturno, e fischia, geme, vuol entrare e riposarsi. — Sempre così: andare per soffrire. Soffrire per gli altri, per la nonna rimbambita, per parenti inutili, per nipoti discoli, per marmocchi indisciplinati: sempre così, camminare, andar avanti per gli altri. Ah, vicerè?... Sì, da ragazzetto, prima di portar il cappellino coi nastri, prima di saltar i muri (ah, Grassiarosa la «palma» come eri flessuosa e dolce!) sognavo di diventar vicerè, o magari re, per il gusto di poter andare in giro, entrare travestito nelle case dei poveretti e lasciar loro denari e perle... Ero un bel campione di ragazzo romantico. Anche allora pensavo agli altri.... Quando ho mai pensato a me? In bene o in male sempre agli altri; eppure passo per un bel campione di egoista e i miei cari nipoti dicono che non prendo moglie perchè son sicuro che essa mi scapperebbe di casa....
I suoi nipoti? Son sei anche loro, come i marmocchi di Grassiarosa. Grassiarosa è in un casotto prima della stazione di Bonifai: egli sarà quasi arrivato, quando apparirà la sua banderuola....
L’idea dell’arrivo lo riempie di gioia come un fanciullo. Arrivare, scendere da quel letto di torture, rivivere! Gli par di vedere il golfo selvaggio e pittoresco, coi monti, le isole, le roccie coperte dai veli della notte ma come rischiarate da un riflesso lontano; gli sembra di sentire l’odore dell’isola, odore di brughiera, ed è tale la sua gioia che crede di esser ritornato giovane, di aver i sensi ancora accesi dal ricordo di Grassiarosa alta e agile come una palma.... Il treno corre attraverso le roccie e le brughiere; ecco il cielo profondo dell’isola, gli orizzonti della lontana giovinezza.... ecco la pianura desolata di Bonifai, con la collinetta grigia in fondo e il villaggio nero sulla collina grigia; con le greggie le pietre, i fiumicelli paludosi: ecco una muriccia a secco, bigia e verdastra come un gran serpente addormentato nel pallido crepuscolo d’inverno: i monti lontani son coperti di nebbia violetta, un lumino brilla nel casotto prima della stazione; una donna lacera e smunta sta immobile davanti al cancello, con la banderuola in mano, e una turba di bimbi famelici e sporchi formicola intorno. E tutta l’angoscia del mal di mare riprende l’anima e il corpo di don Salvator Angelo Carta.
✱
Passato il treno, la donna della banderuola rientrò nel casotto e accese il fuoco nel grande camino, unico lusso della stanza umida e triste che serviva di rifugio al «casellante» e alla sua doppia famiglia. E tosto, come farfalle attirate dal lume, i bimbi e i ragazzetti che fino a quel momento avevano sfidato impavidi il freddo dello spiazzo e delle macchie intorno al casotto, si raccolsero attorno alla vedova ancora curva sul focolare. Quanti erano? Tanti quanti i pulcini attorno alla chioccia: due, i più piccini, si aggrapparono ai fianchi della donna; due, più grandetti, che si rincorrevano ridendo, si gettarono alle sue spalle, un altro, per sfuggire alla persecuzione di una donnina in cuffia rossa, i cui grandi occhi neri, in un visetto livido, sfavillavano di sdegno selvaggio, si cacciò fra la pietra del focolare e le gambe della vedova; e tutti assieme formarono un gruppo che per il colore dei volti e dei vestiti sembrava di bronzo.
L’ombra delle teste scarmigliate danzava sulle pareti e sul soffitto, al rosso chiaror della fiamma; e la donna, un po’ tenera, un po’ selvaggia, cercava di liberarsi dall’aggrovigliamento, spingendo gli uni, stringendo gli altri e pronunziando buone e male parole.
— Adesso basta; levati di lì, Bellìa, se no ti bastono; Grassieda, anima mia, non strapparmi la camicia; è abbastanza rotta; e tu, Antoniè, demonio, smettila; quando viene tuo padre mi sente; io sono stanca delle tue cattiverie. Sei in età di aiutarmi e invece mi tormenti. Sto fresca io, con voi, fresca come un fiore sotto la brina!
Antonietta, quella della cuffia rossa, imprecò sotto voce, poi andò a mettersi all’angolo della porta, come in agguato; e la zia continuò la sua predica, attaccando il pajolino al gancio del focolare, cosa che finalmente convinse i bimbi a star quieti. Alcuni di essi si disposero in semicerchio attorno al focolare, altri aiutarono la donna a staccare da un canestro i lunghi maccheroni neri che ella aveva preparato fino dalla mattina. Era la vigilia di Natale; e anche per il più povero dei poveri, anche nella solitudine più desolata, questa è una buona occasione per dimenticare la propria miseria. Bollisci, dunque, pajolino, friggi, dunque, tegamino, col sugo fatto d’olio e di farina!... C’è anche un giorno per il povero, dice il proverbio sardo. Del resto Grassiarosa, nonostante le sue lamentele, non era triste; non lo era mai stata; perchè avrebbe dovuto cominciare adesso? Come tutti quei bimbi che le si raccoglievano attorno, senza darle troppo da fare, e piangevano e ridevano per ogni piccola cosa, ella non si curava della sua sorte, e non pensava all’avvenire, e se pensava al passato era per trarne conforto.
— Le notti come questa! Se ne facevano feste, dai miei padroni! Interi porchetti venivano arrostiti; e i miei padroni cantavano tutta la notte. Che allegria, Santa Maria bella! Ma anche loro, adesso, hanno finito di gozzovigliare, e i porchetti li lasciano a chi li ha. Solo uno, dei miei padroni, è ancora ricco; io penso sia più ricco di ziu Predu Camboni, il negoziante che veniva a comprar le vacche. Sembrava il più, quel padroncino, ed è diventato il più serio; ma anche lui chi sa se è contento! Mi pare di averlo veduto nel treno, stasera: aveva il viso pallido e gonfio come un formaggello fresco....
I bimbi scoppiarono a ridere; ma ella parlava sul serio, raccontando più per sè che per loro.
— Che c’è da ridere? E che i ricchi non possono esser pallidi?
— Il capo‐stazione è rosso come una mela. — disse Bellìa, con accento che non ammetteva replica.
In breve i maccheroni furono cotti e conditi; aggruppati intorno alla donna i bimbi guardavano la conculina come un tesoro inestimabile, e solo l’idea di dover attendere il rispettivo padre e zio turbava la loro gioia famelica.
— Dateci almeno il tegame dove c’era il sugo, — implorò Antoneddu, l’omino rossiccio dai grandi occhi verdastri. — Vedrete, lo leccherò che non ci sarà bisogno di lavarlo...
— Nel tegame tengo la porzione di Battista. S’egli tarda a rientrare, e se è andato al villaggio e quindi alla bettola, tarda certo, noi mangeremo.
Allora i ragazzetti s’affacciarono alla porta, si spinsero fino alla muriccia per spiare se il casellante tornava. La luna sorgeva dai monti di Nuoro, gialla come una fiamma, saliva dall’una all’altra delle lunghe nuvole nere che macchiavano il cielo pallido della sera: i binari scintillavano, lungo la strada, come fili d’acqua, e le macchie e le roccie, nel chiarore incerto, sembravano bestie addormentate.
I bimbi erano superstiziosi, ma anche coraggiosi; aspettavano sempre di veder passar di corsa cavalli e cani leggendari, o il demonio travestito da pastore, con una kedda (branco) di anime dannate convertite in cinghiali, o di veder una dama bianca seduta su un’altura a filar la luna. Antoneddu viveva in attesa del passaggio della Madonna travestita da vecchierella mendicante, Grassiedda, la biondina balbuziente, guardava se vedeva il cielo aprirsi e, attraverso le luminose porte dischiuse, fiammeggiare il mondo della verità: e Antonietta pensava con terrore, ma anche con un certo piacere, a Lusbè, il capo dei demoni, e Bellìa, il fanfarone della compagnia, affermava di aver già veduto un gigante, una, cometa, lo stesso Anticristo seduto su un asino nero.
Fu lui quindi, quella sera, ad avanzarsi fino al cancello della strada ferrata e a tornar indietro dicendo che lungo il binario veniva su un signore nero con una criniera al collo e una scatola gialla in mano....
— Che sia il diavolo vestito da signore?...
Fratelli e cugini cominciarono a sbeffeggiarlo, ma tacquero allibbiti e alcuni scapparono dentro il casotto quando la misteriosa figura apparve dietro il cancello e s’avanzò attraverso lo spiazzo.
— Zia, zia, mamma, mamma, un uomo nero nero nero.....
La donna corse alla porta e al chiarore del fanale riconobbe il signore veduto nel treno, — don Salvator Angelo pallido e grasso. Che veniva a fare? Puerilmente ella pensò: ha saputo che son vedova e viene a cercarmi.... come una volta! — E ricordandosi che era quasi vecchia, adesso, smunta e lacera, le venne da ridere.
— Vede come sono! — mormorò, incrociando le braccia sul seno, come per nascondere il suo corsettino lacero: ma egli si mise un dito sulle labbra, ed ella a sua volta, accorgendosi che Antonietta si avvicinava, non accennò oltre a riconoscere il signore misterioso.
Ed egli andò difilato al focolare, sedette, depose accanto a sè la scatola gialla.
— Ebbene, che nuove? Contami.
Ella cominciò a raccontare, e a momenti piangeva, a momenti rideva, con quel suo riso spensierato e lieto che fioriva ancora sul suo volto come fioriscono le rose sulle rovine: ma più che al racconto, l’uomo badava ai bimbi curiosi e ansiosi che si erano di nuovo aggruppati attorno a lei, e osservando quelle testine belle e selvagge, quei riccioli neri polverosi, quei capelli rossicci e quelle treccioline gialle a cui il riflesso della fiamma dava toni dorati, quegli occhi neri e quegli occhi verdastri che lo guardavano affascinati, dandogli a loro volta un fascino di gioia e di tristezza assieme, pensava:
— Se la sposavo, tutti questi monelli sarebbero stati miei:— e gli sembrava di vedere una bella sala da pranzo degnamente borghese, con l’albero di Natale sul tavolo, e tutti quei bimbi vestiti di merletto e di velluto, e quella bella biondina con gli occhioni di gatto ritta tentennante su una sedia, a recitare una poesia d’occasione.
No; era meglio così: era più pittoresco, più romantico e anche più comodo. E a un tratto il signore nero si tolse il guanto e tese un dito verso un visetto scuro pieno di fossette entro le quali pareva scintillasse una gran gioia maliziosa.
— Tu, birbante, come ti chiami?
— Murru Giovanni Maria, o anche Bellìa.
— Vai a scuola?
— Sissignora.
— A Bonifai?
— Sissignora.
— Anche quando piove o nevica?
— A me non me ne importa! — disse Bellìa con accento spavaldo. Spinto dalla mano della donna si era piantato davanti allo straniero, mentre i fratelli e i cugini lo guardavano e si guardavano fra loro frenando a stento il riso: riso d’invidia, si sa. Ma ecco che l’uomo nero si volse a tutta la compagnia.
— Avete cenato?
Per tutta risposta alcuni si misero a sbadigliare.
— Per caso, mangereste volentieri qualche cosa, intanto che si aspetta questo vero Battista? Murru Giovanni Maria, aiutami ad aprire questa scatola. Piano, piano! È quanto si trova alla stazione di Bonifai, che non è la stazione di Londra. Oh, è meglio metterci qui sul tavolo.
— Ma che fa? Ma che disturbo s’è preso! Ma si sporca! — gridava la donna, correndo qua e là confusa.
— Calma! Ecco fatto....
Come mosche attorno al vaso del miele, le teste dei bimbi incoronavano l’orlo del tavolo: e su di questo, come avviene nelle favole al tocco della bacchetta magica, apparivano tante buone cose. Anche pere, sì, anche uva, sì, — in quel tempo! — anche una bottiglia gialla col collo d’oro!
— A me piace il vino nero, — proclamò Bellìa, e la donna lo sgridò: — sfacciato, sfacciato! — ma l’uomo nero disse: — tu hai ragione!
Lenta e solenne cominciò la distribuzione, e perchè non avvenissero ingiustizie, la compagnia fu messa in fila in ordine di anzianità; ma quando tutti ebbero la loro porzione e il permesso di sbandarsi, fu un fuggi fuggi generale, e molti se ne andarono fuori per esser più liberi nei commenti e negli scambi.
Solo Antonietta conservava la sua calma taciturna e osservatrice: appoggiata all’angolo dietro la porta, con un piede sull’altro, la cuffia rossa nella penombra, ella guardava lo sconosciuto e pensava a Lusbè. Sì, Gesù Cristo e San Francesco si travestono da poverelli, per girare il mondo; solo Lusbè indossa ricchi abiti e si mette gli anelli e le catene d’oro....
Ma la voce calma e l’accento ancora paesano del signore misterioso la richiamavano alla realtà.
— Possiamo prendere un boccone anche noi, Grassiarò! La notte scorsa non ho chiuso occhio. Oggi ho sempre dormito in treno, e non ho mangiato.... Mettiti lì a sedere: ecco, prendi un po di questo pasticcio.... Contami dunque com’è l’affare della rivendita di cui parlavi poco fa!....
Ella si schermiva vergognosa e commossa; ma finì col prendere il pasticcio e ricominciò il suo racconto. Sì, prima di partire per l’America suo marito aveva messo su una rivendita di generi alimentari: le cose andavan bene, ma il capitale non era suo, ed egli appunto era partito con la speranza di guadagnarselo. Invece il vento della morte aveva spazzato via lui e la sua piccola fortuna. Ella si asciugò gli occhi con le dita unte del pasticcio.
— Coraggio, Grassiarò! Gente buona ce n’è ancora nel mondo: può darsi che si trovi il piccolo capitale per rimetter su la rivendita. Ma tu sei brava a vendere? Se sei brava a vendere e a ricomprare, il resto è subito fatto.
Ella lo guardò, con gli occhi grandi spalancati; poi scoppiò a piangere, ma tacque subito e si fece il segno della croce. Giusto in quel momento dal villaggio sulla collina scendeva un tremito sonoro di campane, lontano, dolce, simile a un tintinnìo di greggie pascolanti. Era il primo tocco della Messa.
— Se è Lusbè scappa! — pensò Antonietta, vedendo la zia farsi il segno della croce; e se lo fece anche lei, e tutti la imitarono.
Ma l’uomo nero, invece di scappare prese la bottiglia e cominciò a raschiare con l’unghia la carta dorata.
— Grassiarò, coraggio! Sai il proverbio sardo: c’è anche un giorno per il povero. Dunque, cosa metteremo in questa rivendita? Eppoi aiutami a sturare questa bottiglia e porta dei bicchieri.
Ella aveva un bicchiere solo, ma grande: e dapprima il bel vino dorato di Solarussa fu dato da assaggiare ai bambini.
— Piano, piano, oh! È vernaccia, sapete; fa diventar matti. Ah, tu, Bellìa! E tu dicevi che ti piace solo il vino rosso! Mi pare ti piaccia anche quello bianco. E adesso a noi.
La donna lavò e asciugò il bicchiere e lo rimise davanti al signore nero; e la sua mano tremava, ma la sua bocca sfiorita sorrideva di nuovo.
— Sempre lei! — disse sottovoce, e in alto soggiunse: — ma perchè tutto questo?
Perchè? non lo sapeva neppure lui. Solo ricordò che i suoi nipoti dicevano che egli si prendeva tutti i gusti, e rispose:
— Così, perchè mi fa piacere! Bevi!
Ella respinse, una, due volte, il bel vino dorato; ma infine fu costretta ad accettarlo. Ed entrambi bevettero dallo stesso bicchiere come un tempo.