Chi l'ha detto?/Parte prima/28

§ 28. Fatti e avvenimenti storici

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§ 28. Fatti e avvenimenti storici
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§ 28.



Fatti e avvenimenti storici





Riunisco cronologicamente in questo paragrafo un manipolo di frasi relative a fatti e avvenimenti storici, le quali si sogliono ripetere più di frequente a indicare e ricordare gli avvenimenti stessi, che per applicarne il significato o il simbolo morale ed altre circostanze. Comincio col noto esametro virgiliano che insieme ai versi che lo seguono vuolsi profetico della nascita di Cristo:

475.   Magnus ab integro sæclorum nascitur ordo.1

476.   [Quinctili] Vare, legiones redde!2

(Svetonio, Vita di Augusto, c. 23).
è frase che ricorda la sconfitta dei Romani assaliti da Arminio nella foresta di Teutoburgo (a. 9 dell’Era Volgare).

La terzina dantesca:

477.   Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,
     Non la tua conversion, ma quella dote
     Che da te prese il primo ricco patre!

è allusiva alla pretesa donazione di Costantino; il convegno di Pontida (1167) che secondo una leggenda, oggi molto discussa, consacrò la Lega Lombarda, può ricordarsi coi versi di Giovanni Berchet:

478.   L’han giurato. Li ho visti in Pontida
     Convenuti dal monte, dal piano,
     L’han giurato; e si strinser la mano
     Cittadini di venti città.

(Le fantasie, p. 1).
[p. 142 modifica]e la insurrezione di Sicilia contro i francesi (1282) che andò celebre col nome di Vespro Siciliano, nell’altra terzina dantesca:

479.   Se mala signoria, che sempre accora
     Li popoli soggetti, non avesse
     Mosso Palermo a gridar: «Mora! mora!»

In tempi a noi molto più prossimi abbiamo il grido:

480.   Che l’inse?3

leggendarie parole del fanciullo genovese soprannominato Balilla, quando nel 1746 die’ principio alla rivolta dei Genovesi contro gli Austriaci. Il fatto è narrato da vari cronisti cittadini, e specialmente da Fr. M. Accinelli, storico autorevole e stimato delle cose patrie, il quale tace però il nome del fanciullo, che per altre fonti si pensa essere della famiglia Perasso, abitante nel vico Capriata in Portoria. L’Accinelli narra: «Strascinavano gli Alemanni il 5 dicembre un mortaro a bombe per il quartiere di Portoria, sfondò la strada sotto il di lui peso, restò incagliato il trasporto: vollero i tedeschi sforzare alcuni del popolo ivi accorso a dar loro aiuto per sollevarlo; ricusarono tutti di por mano all’abborrito lavoro: uno dei Tedeschi alzò il bastone, e lasciò correre alcuni colpi: tanto bastò per eccitare l’incendio: un ragazzo, veduto questo, dato di piglio ad un sasso, e rivolto ai compagni, disse: Che l’inse? (motto genovese, che vale a dire, incomincio la zuffa); accordando gli altri, lanciò una sassata al soldato percussore. Il lampo fu questo, e seguitò incontanente una grandine di sassate sì furiosa, che mise in fuga i Tedeschi. Rinvenuti questi dallo stordimento cagionato dall’improvvisata, ritornarono con le sciabole sfoderate, che furono ben presto rintuzzate da un’altra nuvola di pietre, che gli obbligò a salvarsi in furia. Già annottava, nè per allora altro moto vi fu; alle ore una di notte il minuto popolo si mosse da Portoria in piccolo numero gridando ad alta voce: animo, animo, a palazzo, a palazzo a prender le armi, viva Maria; calarono per il borgo dei Laneri, per la contrada dei Servi, per la [p. 143 modifica]piazza del molo, e posta insieme grossa partita di gente a loro simile, garzoni di tavernari, pattumai, ciabattini, pescivendoli, fornai e facchini da carbone e vino, presentaronsi avanti al pubblico palazzo, chiedendo con urli e schiamazzo le armi ecc. ecc.»

L’Accinelli ha attinto all’anonima Storia dell’anno 1746 pubblicata ad Amsterdam l’anno seguente: anche il Muratori narra il fatto negli Annali d’Italia all’anno 1746 (il cui volume uscì nel 1749), senza fare il nome del ragazzo: e così varii storici posteriori, ma nè le cronache sincrone, nè le molte poesie del tempo ne fanno menzione. Federico Donaver in un bello studio sulla leggenda di Balilla pubblicato nel 1888 in un volume intitolato Uomini e libri, da questi e da altri argomenti deduce, con sufficiente probabilità, che se pure un ragazzo ebbe parte, più o meno importante, nello scoppiare della gloriosa sommossa genovese, non vi sono argomenti per sostenere che avesse l’uno o l’altro nome o soprannome; ed anche un testo sincrono, trovato recentemente dal cav. Luigi Cervetto, se conferma che la rivoluzione genovese ebbe principio dalle sassate «de li ragazzi», non fa nomi di sorta (ved. un art. di E. G. Parodi, Balilla fu Balilla? nel Marzocco del 18 agosto 1907). Nondimeno il Municipio Genovese il 30 settembre 1881, centenario della morte di un Giambattista Perasso, voluto identificare col Balilla della leggenda, inaugurava una lapide commemorativa, sulla facciata della casa in vico Capriata, n. 3, dove il Perasso sarebbe vissuto e morto.

È pure celebre la risposta di Emmanuel-Joseph Siéyès:

481.   J’ai vécu4

a chi gli domandava quel che avesse fatto nei tristi anni del terrore (Mignet, Notices historiques, I, 81), non meno della frase, non ugualmente autentica:

482.   Finis Poloniæ!5

che sarebbe stata gridata da Taddeo Kosciuszko alla sconfitta di Maciejowice (10 ottobre 1794); ma che egli stesso smentì in una lettera al Conte de Ségur del 12 novembre 1803 (pubblicata nella [p. 144 modifica]traduzione francese della Storia di cento anni di Cesare Cantù, fatta da Amedeo Renée, Parigi, 1852, vol. I, pag. 419): «L’ignorance ou la mauvaise foi s’acharnent à mettre dans ma bouche le mot de Finis Poloniæ! que j’aurais prononcé dans cette fatale journée. D’abord, avant l’issue de la bataille, j’ai été presque mortellement blessé, et je n’ai recouvré les sens que deux jours après, et lorsque je me suis trouvé entre les mains de mes ennemis. Puis, si un pareil mot est inconséquent et criminel dans la bouche de tout Polonais, il le serait beaucoup plus dans la mienne. La nation polonaise, en m’appelant à défendre l’intégrité, l’indépendance, la dignité, la gloire et la liberté de la patrie, savait bien que je n’étais pas le dernier Polonais, et qu’avec ma mort, ou autrement, la Pologne ne pouvait pas et ne devait pas finir.» Il sentimento di Kosciuszko come degli altri polacchi, era ancora quello espresso dal verso

483.   Noch ist Polen nicht verloren.6

che fa parte di un inno guerresco polacco, cantato primieramente dai polacchi che Dombrowski portò in Italia nel 1796 sotto gli ordini di Bonaparte: vedi E. Ortlepp, Finis Poloniæ.

Ricordiamo anche le parole, storiche queste,

484.   Voilà le soleil d’Austerlitz!7

che Napoleone I al mattino del 7 settembre 1812, sulla Moscova, poco innanzi di aprire il fuoco disse ai suoi ufficiali, quasi a profetizzar loro una vittoria simile a quella di Austerlitz (Ségur, Hist. de Napoléon et de la grande Armée, liv. VII, chap. 9, ed. 1826, vol. I, pag. 380).

Tra i molti detti ai quali die’ origine la grande epopea del nostro risorgimento scelgo i seguenti: altri sono ricordati in sede più opportuna.

485.        Il morbo infuria,
          Il pan ci manca.
          Sul ponte sventola
          Bandiera bianca.

(A. Fusinato, A Venezia, ode).
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sono versi scritti nel 1849 alla vigilia della resa dell’eroica Venezia che dovè cedere alla fame e alla peste.

486.   Governo negazione di Dio.

Così si suole chiamare il governo Borbonico (e qualunque altro che a quello rassomigli), attribuendo la origine della frase all’illustre statista e pensatore inglese W. E. Gladstone. Infatti nella prima delle Two Letters to the Earl of Aberdeen on the state prosecutions of the Neapolitan Government (con la data del 7 aprile 1851), lettere che ebbero un’eco così profonda presso tutti gli onesti, sì da provocare anche una discolpa ufficiale del governo Borbonico, si legge, verso il principio, questo periodo: «The effect of all this is a total inversion of all the moral and social ideas. Law, instead of being respected, is odious. Force, and not affection, is the foundation of Government. There is no association, but a violent antagonism, between the idea of freedom and that of order. The governing power, which teaches of itself that it is the image of God upon earth, is clothed, in the view of the overwhelming majority of the thinking public, with all the vices for its attributes. I have seen and heard the strong and too true expression used, This is the negation of God erected into a system of Government.» Da cui si desume che Gladstone non fece che raccogliere un giudizio udito da lui in Napoli o da Napoletani, tanto è vero che in una nota egli lo riporta nella forma originale: È la negazione di Dio eretta a sistema di governo: ed anzi ho ragione di credere che la frase fosse veramente del suo intimo Giacomo Lacaita, di Manduria, poi senatore del Regno. Il compianto senatore B. Zumbini, in un articolo W. E. Gladstone nelle sue relazioni con l’Italia pubblicato nella Nuova Antologia, vol. CXLVII, 1° giugno 1910, scriveva (pag. 386) a tal proposito: «Ma è pur bene che io fin da qui avverta un errore di fatto, non avvertito forse mai da nessuno: ed è, che quella parola non fu foggiata dal medesimo Gladstone; non fu egli il primo a profferirla, come tutti credettero da quel giorno, e si è continuato poi sempre a credere sino ad oggi. No, egli la trovò in Napoli già bell’e fatta, e usata da napoletani stessi a significare l’orrore della tirannia onde erano oppressi». E le stesse parole ripeteva, senza alcun cambiamento, a pag. 6 del volume pubblicato quattro anni dopo con il titolo medesimo [p. 146 modifica]del citato articolo (Bari, Gius. Laterza e figli, 1914), benchè nel frattempo io gli avessi scritto avvertendolo che la stessa osservazione io aveva già fatto sin dal 1895, cioè nella prima edizione di questo libro ed egli mi avesse risposto riconoscendo l’errore in cui era caduto.

487.   Grido di dolore.

Nel discorso della Corona letto da Vittorio Emanuele all’apertura del Parlamento subalpino il 10 gennaio 1859 si contenevano queste memorabili parole: «Confortati dall’esperienza del passato andiamo risoluti incontro alle eventualità dell’avvenire. Quest’avvenire sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della libertà e della patria. Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei consigli dell’Europa perchè grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacchè nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della divina provvidenza.» Leggasi nel libro del Massari, la Vita di V. E. di Savoia (vol. I, pag. 367), il drammatico racconto di quella memorabile seduta, e dell’effetto prodotto dal grido di dolore.

Si è discusso a lungo se il coraggioso linguaggio del Re fosse dovuto a iniziativa di lui, o del Ministero, o ai suggerimenti dell’alleato di Francia. La discussione parve chiusa quando Pietro Vayra nel suo libro Il Museo storico della Casa di Savoia (Torino, 1880) pubblicò un facsimile del discorso della Corona nel testo proposto al Re dal Ministero con le correzioni portatevi di suo pugno dal Sovrano stesso che ne mutavano completamente il tono e l’ardimento, dove la celebre frase si legge tutta di mano di Vittorio Emanuele. Oggi invece dopo la esauriente e documentata memoria di L. C. Bollea, Il «grido di dolore» del 1859 nel Bollettino storico-bibliografico subalpino, anno XVI, 1911, n. IV, pag. 219-256: la quale conferma la versione già narrata dal Massari stesso, prima in un articolo del Fanfulla della Domenica, 1880, n. 6 (Il grido di dolore - Episodio del Risorgimento Italiano narrato da un testimonio oculare), quindi nel volume Il [p. 147 modifica]Generale Alfonso La Marmora (Firenze, Barbèra, 1880) da cui l’articolo stesso era stralciato, non si può più dubitare che quelle parole furono suggerite dall’Imperatore Napoleone III come variante alle bozze del discorso che gli era stato mandato in esame: la frase fu scritta da lui in francese («tout en respectant les traités, nous ne pouvons pas rester insensibles aux cris de douleur qui viennent jusqu’à nous de tant de points de l’Italie») e la minuta pubblicata dal Vayra non conteneva che la traduzione letterale fatta di pugno di Vittorio Emanuele sul testo imperiale.

È stato opportunamente osservato (ved. una lettera del sig. Gino Trespioli nel Corriere della Sera, di Milano, del 24 marzo 1912) che la storica frase non fu improvvisata da Napoleone lì per lì, ma era pensiero maturato da lunghi anni: essa già si trova nell’opuscolo Onor militare, pubblicato il 18 maggio 1833 e firmato Un vecchio soldato italiano. Il «vecchio soldato» era il giovanissimo cospiratore, Luigi Napoleone Bonaparte, che rivolto agli eserciti dei vari stati italiani, eccitava a prestare orecchio «al grido di dolore che sale da ogni parte della Penisola». Ventisei anni dopo, quella frase Napoleone III dettava a Vittorio Emanuele II.

Si può pure aggiungere, per la storia del grido di dolore, che secondo un piano sottoposto da Cavour a Napoleone III e da questo approvato, l’occasione alle ostilità fra Piemonte e Austria nel 1859 doveva esser porta da una protesta che sarebbe stata presentata dai cittadini di Carrara al re Vittorio Emanuele contro la oppressione del Duca di Modena e dal conseguente intervento del re in favore della città tiranneggiata. Le circostanze politiche resero superfluo tale intervento (ma la protesta fu effettivamente presentata con le firme di 3000 cittadini carraresi), tuttavia la frase del «grido di dolore» fu assai probabilmente inserita nel discorso della Corona per preparare l’opinione pubblica a questo avvenimento.

Dovrebbero trovar posto qui, per l’ordine cronologico, le molte frasi ispirate ai gravi avvenimenti di questi ultimissimi anni: ma prego il lettore di volerle cercare invece in un capitolo che ho nuovamente aggiunto alla presente edizione, il cap. 80, che costituisce la parte II dell’opera e che raccoglierà le frasi sorte dalla Grande Guerra.


Note

  1. 475.   Si rinnova il gran giro dei secoli.
  2. 476.   Quintilio Varo, rendimi le mie legioni.
  3. 480.   Che la rompo?
  4. 481.   Ho vissuto.
  5. 482.   Ecco la fine della Polonia!
  6. 483.   Non è ancora perduta la Polonia.
  7. 484.   Ecco il sole di Austerlitz.