II - Le olimpiadi e la signorina Olimpia

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II - Le olimpiadi e la signorina Olimpia
I III
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LE OLIMPIADI

E LA SIGNORINA OLIMPIA.


— Lei faccia i suoi libri e vada via! — scoppiò a dire il signor professore contro di me. — E via subito, subito, subito. Fuori da quest’aula!

E la mia giovinezza fu tutt’ad un tratto investita, assalita da quell’uomo congestionato in faccia, che mi respingeva con parole di minaccia, coi gesti, con la persona, finchè l’uscio della scuola fu ribattuto contro di me.

E ancora sento e vedo lo stupore e il silenzio dei miei compagni. Ma che misfatto mai avevo commesso? Quale malefizio avevo mai perpetrato contro quell’uomo? Quale lebbra era apparsa in me, giovinetto, per essere espulso a quel modo?

Io mi trovai solo, nella strada, coi miei libri di greco: le tempie che mi martellavano, il pensiero che non si fissava più se non in un’unica idea: la licenza liceale perduta, il mio avvenire distrutto, il mio povero babbo... E allora cominciai a lagrimare.

E così lagrimando mi accorsi che non ero più [p. 22 modifica]tra le vie tumultuose della città; ma seduto su di una banchetta solitaria dei giardini pubblici, e sopra di me i tronchi protesi e neri di un’antica pianta si aprivano pudicamente, meravigliosamente con le loro infinite gemme di petali rosa, e più sopra ancora splendeva l’azzurro del cielo.

Era il dolce maggio.

Ma quale misfatto avevo io commesso?

Lo dirò candidamente ora che la tranquillità è ritornata nel mio spirito, e molto tempo è trascorso.

Io avevo allora diciotto anni ed ero un buon scolaro di greco e di latino. Ero ossequiente alla mitologia greca, credevo alle virtù dei Greci e dei Romani. Credevo, senza che il mio pensiero avesse sino allora sollevato alcun dubbio, in Giove Tonante, nei Titani, nelle Muse, nelle regole di grammatica e di retorica. Ero, insomma, un bravo figliuolo, un buon figliuolo, ed anche un gentile ingenuo figliuolo.

Ma il vero è che in quel giorno io avevo inconsapevolmente offeso il mio professore di greco in ciò che di più delicato e sensibile ha l’uomo, cioè nella sua vanità.

Ma quale colpa ne avevo io se ignoravo nella mia candida anima l’esistenza di questo punto vulnerabile nell’epidermide coriacea dell’uomo? Se lo studio delle virtù greche e romane mi avevano quasi instillato la convinzione che dire la [p. 23 modifica]verità fosse il miglior modo di mettere in pratica quelle illustri virtù?

Dunque in quel giorno si spiegava un passo di autore greco e vi si trattava delle Olimpiadi. Io sostenevo che le Olimpiadi erano uno spazio di quattro anni nel complicato Calendario dei Greci; il professore sosteneva che esso era di cinque anni. E certo io avevo più ragione di lui! Ma poi la disputa si inacerbì e, non so come, mi vennero fuori queste vere ma infelici parole, cioè che anche i professori di greco si preparano sulle versioni letterali dal greco.

Non l’avessi mai detto!

Quel maestro di umanità perdette d’un tratto ogni sua umanità, divenne furente e mi scacciò, come ho detto.

*

*  *

Dunque io lagrimavo silenziosamente sulla banchetta dei giardini pubblici, sotto quella dolce fiorita di rose, e un cantare lontano di uccelletti pareva come aiutasse le timide gemme a sbocciare.

Allora mi accorsi di non essere solo sulla banchetta.

Una giovane donna sedeva presso di me.

Io fino a quel giorno avevo conosciuto, anzi avevo combattuto con i tre generi, maschile, femminile e neutro; ma ignoravo che cosa fosse [p. 24 modifica]quell’essere delizioso e perfidamente saggio che è la femmina.

Era bella? era elegante colei che sedeva presso di me? Io ben sentivo il languore di due grandi pupille nere che sempre più si venivano scostando da un fine libro e si posavano, quasi avvolgendomi, sulla mia giovinezza lagrimante.

Alla fine udii una voce pietosa e quasi materna che mi rivolse queste parole:

— Perchè piange, se è lecito domandare?

Così cominciammo a parlare, ed io raccontai tutta la mia disavventura, dalla questione delle Olimpiadi a quell’espulsione feroce, la prima grande sventura della mia vita.

Ella ascoltava. Un grazioso sorriso di meraviglia e di pietà balenava sulle sue labbra. Il volto, un po’ chinato, mi si faceva sempre più da presso: un volto pallido, ambrato, fine, strano, delimitato da un velo nero che si inarcava sulla fronte: perchè all’infuori di quel volto bianco, di due nude bianche mani, tutto era nero: tutta chiusa ella era in una veste nera. Ma non ne emanava alcun fantasma di morte o di lutto; ma come un profumo esotico e forte.

A quel profumo anzi io sentivo sobbalzare l’anima mia stranamente, e quasi sbocciare come sbocciavano le gemme della pianta che si allargava sopra il mio capo. E ciò mi dava un senso di nuovo piacere, che nasceva dal mio dolore.

Diceva ella ogni tanto: [p. 25 modifica]

— Oh, che roba! Che orrore! Pauvre enfant!

Poi con volubilità che quasi mi offese, mi pregò che le spiegassi quella storia delle Olimpiadi.

Che cosa le potevano interessare le Olimpiadi?

— Così — disse con un sorriso ambiguo — , è perchè anch’io mi chiamo Olimpia.

Allora io cominciai a raccontare.

— Ella deve sapere, signora — dissi — che nell’anno 776 avanti Cristo, cioè 23 anni prima del 753, anno della fondazione di Roma...

A queste mie parole la signora strabiliò, e inarcò le grandi ciglia.

— E lei, così giovane, — disse — deve ricordare tutte le cose dai secoli delle Olimpiadi sino ad oggi? Ma se io non ricordo più nemmeno quello che è avvenuto ieri! Ah, pauvre enfant!

E mi guardò con intensa pietà.

Io andai avanti e le spiegai tutta la storia dei giuochi Olimpici: cominciando da quel re briccone di Enomao, che sfidava alla corsa dei cocchi tutti i pretendenti alla mano della bella sua figlia Ippodamia, — ma siccome l’asse dei cocchi era di cera, veda, signora, così tutti cadevano vinti.

— Oh, che birbante! - disse la signora Olimpia. — Ma oggi sarebbe squalificato quel signore!

— Ma un bel giorno — proseguii — nella terra Apia arrivò Pelope, figlio di Tantalo. — La storia di Pelope e dei suoi cavalli fatati interessò moltissimo la signora, specialmente quando imparò [p. 26 modifica]la sua vittoria su Enomao, il suo sposalizio con Ippodamia. — E da queste nozze poi nacque Atreo, che fu padre di Agamennone e di Menelao.

— Oh, guarda — disse la signora Olimpia, e sorrise in modo che mi sconcertò.

— Ho detto qualche sciocchezza forse, signora?

— Ma niente del tutto — e rideva gaiamente.

Ma poi si fece seria e mi domandò:

— E lei deve sapere tutte queste cose?

— Ah sì, e altre ancora.

La signora si strinse le tempie con le mani, come fosse stata colta da un accesso improvviso di emicrania.

Domandò:

— E cosa prendono di paga i vostri professori, che insegnano tutte queste cose?

— Due o tremila lire, credo, signora.

— All’anno?

— Sì, signora, all’anno.

La signora parve sbalordire.

— E anche lei, se volesse fare il professore, prenderebbe lo stesso?

— Così credo — risposi.

I grandi occhi della signora Olimpia espressero una grande pietà.

Disse:

— Ma se io ne spendo quasi altrettanto per le calze...!

Allora stupii io:

— Per le calze, signora? [p. 27 modifica]

— Sì, calze e accessori — si affrettò correggendo. Ma poi parve pentita delle sue parole.

Domandò di vedere i miei libri greci: li girò in alto, in basso come una cosa nuova.

Dissi io allora:

— Anche lei leggeva, signora.

— Ah, il mio libro non si può vedere: e sigillò il libro, posando sulla busta di cuoio la mano.

Io non insistetti e tacqui.

Ma dopo un poco mutò pensiero.

— Guardi — mi disse audacemente.

Guardai. Era un libro francese, un romanzo. Non lo avevo mai letto; ma il titolo non mi era nuovo. Poi ricordai. Ricordai che un giorno mio padre, parlando con un magistrato di quel libro, aveva detto: «Finchè non riuscirete a togliere dalla circolazione questo genere di libri, le vostre leggi non rappresenteranno che un’ipocrisia sociale di più».

— Non ha letto mai questo libro?

Io arrossii grandemente.

Per me? per lei arrossii che leggeva quel deplorevole libro? Non so: mi sentivo un gran calore nelle vene.

— Davvero non l’avete mai letto? — chiese socchiudendo maliziosamente le sue grandi pupille.

— Davvero! — e arrossivo anche di più.

Mutò discorso.

— Dunque il vostro caso è disperato?

— Sì, signora. [p. 28 modifica]

— Ma io non credo — disse ad un tratto assumendo un’aria ben strana di serietà. — Anzi è un affare rimediabile. Dunque il greco, voi dite, è molto difficile. E deve essere così! E voi assicurate che anche i professori si aiutano con le traduzioni?

— Sì, signora, con le traduzioni letterali dal francese. Io non dico che tutti i professori facciano così, ma il mio fa così.

— E voi gliel’avete detto?

— Pur troppo, signora — sospirai — , e magari potessi rimediare al malfatto!

— Semplice — disse. — Carta, penna e calamaio. Vi detto io.

*

*  *

Ora io non ricordo più come avvenne, ma so per certo che per trovare carta, penna e calamaio, io salii con lei, da lei, nel suo appartamento.

Venne ad aprire una cameriera. Non ricordo l’appartamento. Mi parve strano e diverso da quello di casa mia. Perchè diverso, non so.

La camera da letto dove mi introdusse, era misteriosamente elegante, con un lettuccio piccolo, grazioso, tutto a trine.

Ma non conservo percezioni nette; soltanto ricordo che un brivido morboso si veniva impadronendo di me, mentre ella con calma esacerbante si toglieva, allo specchio, tutti quegli strani armamenti della testa. [p. 29 modifica]

Mi pareva che qualcosa di inusitato, di enorme dovesse fra poco succedere.

— Ma sapete — disse — che l’abito nero dà un bel caldo! Deve essere caldo, oggi.

— Sì, caldo! — dissi, e ricordai non so quanti gradi di temperatura.

— Oh, anche di più! — disse ridendo. — Permettete?

Uscì. Rimasi solo. Rientrò poco dopo. Era uscita dalla guaina nera: era tutta vestita di una gran veste rosea. Mi parve più magnifica. Stupii come sotto quelle maniche dell’abito nero ci fossero state nascoste due braccia così bianche! Ebbi l’impressione di una energia occulta e deliziosa in quelle braccia nude.

— Oh, che cattiveria, che cattiveria, che cattiveria — disse ridendo e venendomi sempre più vicino, quasi rasente — tormentare col greco e con tutti quei libracci un povero bambino! — e così dicendo crollava la testa, e si appressava di più.

— Povero bamboccione — disse d’un tratto, e mi prese con le due mani adunche per i capelli ed accostò il mio volto alle sue grosse labbra.

Io impallidii. Ella parve godere del mio pallore. Non parlava più.

Probabilmente la mia faccia era diventata una mela o una pesca di luglio: una pesca sugosa e fresca che ben si morde. [p. 30 modifica]

*

*  *

— Ora, ragazzo, s’il te plait, torniamo alle Olimpiadi e al tuo professore — disse.

A me parve come di essere desto dal sogno in cui il Veglio della Montagna immergeva coloro che gli dovevano essere devoti sino alla morte.

Io non ne volevo più sapere nè di Olimpiadi, nè di scuole.

— Voi siete ben goloso, mon petit. Torniamo alle Olimpiadi.

In quell’ampia vestaglia ella si era rannicchiata in fondo ad una poltroncina.

— Mettetevi lì, e buono. Già bisognerà fare così! — Prese un tavolino e lo collocò fra la sua persona e la mia a guisa di bastione. — Posso offrirvi?

Mi porse una sigaretta: ne accese una per sè.

Devo confessare che la mia mente era così annebbiata che se colei mi avesse detto: «manda i padrini al tuo professore, e battiti a duello», io avrei trovato il consiglio naturalissimo.

Invece il suo consiglio fu molto savio e rivelò molto acume. Aggrottò le ciglia e disse:

— Tu capirai che lui dovrà pensarci due volte prima di formulare l’atto di accusa contro di te. In fondo è un atto di accusa contro di sè.

— To’, è vero!

— Ma non basta: la sua rabbia è appunto in relazione alla impossibilità in cui l’hai messo di punirti... [p. 31 modifica]

— To’, è vero! Ma può vendicarsi — aggiunsi.

— Perfettamente. Ma tu prendi dal «secrétaire » carta e busta e scrivi. Scrivi: detto io. No, quel foglio lì. — Guardai il foglio. Vi era impresso in azzurro, «Olympie».

Oh, Olimpia, dolce pingue nome! Tutto azzurro, tutto fresco come la grande acqua del mare.

— Su, andiamo, scrivi! Eri così «savio» poco fa.

Io scrissi: «Signor Professore, in un momento di vera aberrazione mentale ho osato formulare contro di lei un’accusa che tanto più mi tormenta di rimorso quanto più riconosco la sua dottrina e il suo sapere. Come posso rimediare se non facendo piena dichiarazione della mia colpa e supplicandola di volermi perdonare?»

— È tutta una bugia — dissi.

— E la bugia si trova dentro la vita o fuori della vita? — mi chiese l’adorabile Olimpia.

È vero: la menzogna è nella vita. E allora perchè soffrire per combattere quello che è nella vita, che è la vita?

Guardò l’orologio.

— Presto, pòrtala subito al tuo professore.

*

*  *

O me, miserabile! Mi feci quasi scacciare da quella stanza da cui non volevo più uscire. [p. 32 modifica]

*

*  *

Il giorno dopo il professore annunziò la mia lettera alla scolaresca; la lesse anzi; poi pronunciò un discorso di elogio alla mia persona. Ma io rimasi molto indifferente.

*

*  *

Dopo due mesi ero in possesso della licenza, ma senza troppo studiare. Me ne era andata via la voglia di studiare. Mio padre forse se ne accorse, specialmente quando gli manifestai la intenzione di darmi a tutt’altri studi che quelli classici.

Abbandonai le Olimpiadi per sempre e tutti i secoli di cultura classica prima di Cristo e tutti quelli dopo Cristo, fino ai tempi nostri.

Bisogna conquistare la vita, e non servire ai morti.

E se i Greci avessero dovuto studiare il greco, e i Romani studiare il latino, quei due popoli non sarebbero stati i grandi popoli che furono.

Di questa semplice verità io devo la conoscenza alla signorina Olimpia, artista di caffè-concerto e stella di prima grandezza.