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tra le vie tumultuose della città; ma seduto su di una banchetta solitaria dei giardini pubblici, e sopra di me i tronchi protesi e neri di un’antica pianta si aprivano pudicamente, meravigliosamente con le loro infinite gemme di petali rosa, e più sopra ancora splendeva l’azzurro del cielo.

Era il dolce maggio.

Ma quale misfatto avevo io commesso?

Lo dirò candidamente ora che la tranquillità è ritornata nel mio spirito, e molto tempo è trascorso.

Io avevo allora diciotto anni ed ero un buon scolaro di greco e di latino. Ero ossequiente alla mitologia greca, credevo alle virtù dei Greci e dei Romani. Credevo, senza che il mio pensiero avesse sino allora sollevato alcun dubbio, in Giove Tonante, nei Titani, nelle Muse, nelle regole di grammatica e di retorica. Ero, insomma, un bravo figliuolo, un buon figliuolo, ed anche un gentile ingenuo figliuolo.

Ma il vero è che in quel giorno io avevo inconsapevolmente offeso il mio professore di greco in ciò che di più delicato e sensibile ha l’uomo, cioè nella sua vanità.

Ma quale colpa ne avevo io se ignoravo nella mia candida anima l’esistenza di questo punto vulnerabile nell’epidermide coriacea dell’uomo? Se lo studio delle virtù greche e romane mi avevano quasi instillato la convinzione che dire la